L’amore è un dono speciale e meraviglioso; ma l’amore è anche un diritto per tutti!

Caterina Storti è nata per il cognome che porta. Ha la sindrome di Down, ed è per questo che ha gli occhi di mandorla: anche il loro colore è uguale. Ogni giorno li sfuma con dell’ombretto rosa e quando la scorgi mentre spinge il carrello della biancheria dell’ospedale sembra che due petali le carezzino lo sguardo. A mezzogiorno, prima di andare in mensa, si riassetta il lucidalabbra perché, dice, una donna deve sempre essere in ordine. Fa bello. Linda, la coordinatrice in lavanderia, la schernisce affermando che è una civetta e Caterina prima ride, poi, la prende sottobraccio e le risponde: come te!
Mario Loda, invece, non sa perché è nato così. Non è per colpa del cognome, e neanche gli occhi a mandorla gli sono stati fedeli; i suoi sono azzurri, come i nontiscordardime. Però ha lunghi ricci castani che gli contornano il viso e Piero, il suo capo in magazzino, lo chiama Rubacuori. Quando va a consegnare le merci nei reparti o negli uffici, tutte le donne lo vezzeggiano e gli fanno piccoli regali, ma lui non sa se è contento; sa solo che diventa tutto rosso e che sente qualcosa che non sa spiegare, come un groppo nella pancia. Allora corre via e torna in magazzino, passando per il parcheggio perché l’aria gli piace e gli porta via il nodo che ha dentro.
Ė lì che è diventato amico di Caterina: la lavanderia è un prefabbricato vicino all’ospedale, a ridosso del parcheggio. Con lei Mario non ha mai il groppo e non diventa rosso; e poi gli piacciono i suoi occhi marroni.
«Ma i tuoi sono più belli», gli aveva detto Caterina un giorno, «guarda, sono come questi nontiscordardime». Caterina ne aveva raccolti cinque dall’aiola e glieli aveva regalati. Lui li aveva messi nel portafoglio anche se gli dispiaceva stropicciarli, ma così non li avrebbe mai persi.
Il giorno dopo Mario era andato in lavanderia, invitando Caterina a bere un caffè al bar. Gli sembrava giusto, dopo il regalo dei fiori. Forse è lì che è cominciato tutto. Piaceva a tutti e due bere il caffè insieme e chiacchierare un po’. Veramente parlava soprattutto Caterina, e Mario ascoltava; lei gli raccontava di come era brava a piegare le lenzuola, sempre dritte e con gli orli tutti a posto. Poi, quando aveva finito il lavoro, andava a fare la spesa per tutta la famiglia e le piaceva dipingere fiori. Gli aveva anche portato i suoi disegni, una volta. Mario, invece, era un vero esperto di musica. Le aveva fatto conoscere il jazz, il blues, la musica classica e tante altre bellissime canzoni! Sapeva tutto degli autori e le raccontava le loro vite come se avesse studiato l’enciclopedia della musica del mondo.
«Oggi è San Valentino», aveva esclamato Caterina quel giorno. «Il mio papà regala sempre alla mamma un mazzo di rose uguale al numero degli anni che si conoscono. Non so come fa, ma quando ci alziamo c’è già il mazzo sul tavolo della colazione. Per me butta giù dal letto il fioraio».
Si erano messi a ridere, e Mario, insieme al caffè, le aveva comperato anche un bacio perugina.
Caterina aveva letto a Mario il biglietto trovato nell’involucro del cioccolatino: Il vero amore è una quiete accesa (G. Ungaretti).
«Cosa vuol dire?» aveva chiesto Mario, dopo averci pensato un po’.
«Non lo so», aveva risposto lei. Ma dopo le si erano illuminati gli occhi e aveva detto: «Forse vuol dire che l’amore è come quando c’è il sole a giugno. Sai quando non fa mica troppo caldo, con il cielo tutto azzurro e il paese che sembra colorato con le tempere!». Poi gli aveva dato un bacio, lungo, sulle labbra.
Mario era rimasto fermo come un salame. Era diventato tutto rosso e poi era corso via, per colpa del nodo nella pancia. Ma questa volta era diverso: non voleva che l’aria se lo portasse via.
Caterina, invece, era tornata in lavanderia saltellando, con un caldo dentro che anche se era febbraio sembrava giugno.
La sera, a casa, la mamma l’aveva presa in disparte e le aveva fatto un lungo discorso. «Hai capito, Caterina, perché non puoi continuare a incontrarti con Mario?», aveva concluso, accarezzandole la testa.
«No», aveva risposto lei, con gli occhi pieni di lacrime.
Anche al lavoro Linda non la lasciava più uscire da sola. La accompagnava dappertutto, anche a consegnare la biancheria nei reparti. Un giorno avevano persino litigato e Caterina le aveva urlato tutto il suo odio. Ma non era servito a niente.
Erano passati diciotto mesi e sei giorni, quando sua madre l’aveva raggiunta al lavoro, un pomeriggio; lei e Linda le avevano raccontato che Mario era morto, per la leucemia. Quel giorno c’era il funerale; potevano andarci, se voleva.
Caterina rispose di sì.

Ora può di nuovo uscire da sola. Finito il turno di lavoro, si riassetta il lucidalabbra e, prima di andare a casa, passa dal cimitero a chiacchierare con Mario.
Quando sono fioriti, gli porta ogni giorno cinque nontiscordardime.
«Vedi», gli dice mentre li cambia nel vasetto ai piedi della lapide «questi non si possono stropicciare».
Poi, prima di andar via, bacia sempre le sue labbra nella foto. E sente un caldo che, per un attimo, giugno sembra durare un anno intero.

Lara Gregori, nontiscordardime
down

L’amore è un dono, non solo; l’amore è un diritto di tutti…

Caterina Storti è nata per il cognome che porta. Ha la sindrome di Down, ed è per questo che ha gli occhi di mandorla: anche il loro colore è uguale. Ogni giorno li sfuma con dell’ombretto rosa e quando la scorgi mentre spinge il carrello della biancheria dell’ospedale sembra che due petali le carezzino lo sguardo. A mezzogiorno, prima di andare in mensa, si riassetta il lucidalabbra perché, dice, una donna deve sempre essere in ordine. Fa bello. Linda, la coordinatrice in lavanderia, la schernisce affermando che è una civetta e Caterina prima ride, poi, la prende sottobraccio e le risponde: come te!
Mario Loda, invece, non sa perché è nato così. Non è per colpa del cognome, e neanche gli occhi a mandorla gli sono stati fedeli; i suoi sono azzurri, come i nontiscordardime. Però ha lunghi ricci castani che gli contornano il viso e Piero, il suo capo in magazzino, lo chiama Rubacuori. Quando va a consegnare le merci nei reparti o negli uffici, tutte le donne lo vezzeggiano e gli fanno piccoli regali, ma lui non sa se è contento; sa solo che diventa tutto rosso e che sente qualcosa che non sa spiegare, come un groppo nella pancia. Allora corre via e torna in magazzino, passando per il parcheggio perché l’aria gli piace e gli porta via il nodo che ha dentro.
Ė lì che è diventato amico di Caterina: la lavanderia è un prefabbricato vicino all’ospedale, a ridosso del parcheggio. Con lei Mario non ha mai il groppo e non diventa rosso; e poi gli piacciono i suoi occhi marroni.
«Ma i tuoi sono più belli», gli aveva detto Caterina un giorno, «guarda, sono come questi nontiscordardime». Caterina ne aveva raccolti cinque dall’aiola e glieli aveva regalati. Lui li aveva messi nel portafoglio anche se gli dispiaceva stropicciarli, ma così non li avrebbe mai persi.
Il giorno dopo Mario era andato in lavanderia, invitando Caterina a bere un caffè al bar. Gli sembrava giusto, dopo il regalo dei fiori. Forse è lì che è cominciato tutto. Piaceva a tutti e due bere il caffè insieme e chiacchierare un po’. Veramente parlava soprattutto Caterina, e Mario ascoltava; lei gli raccontava di come era brava a piegare le lenzuola, sempre dritte e con gli orli tutti a posto. Poi, quando aveva finito il lavoro, andava a fare la spesa per tutta la famiglia e le piaceva dipingere fiori. Gli aveva anche portato i suoi disegni, una volta. Mario, invece, era un vero esperto di musica. Le aveva fatto conoscere il jazz, il blues, la musica classica e tante altre bellissime canzoni! Sapeva tutto degli autori e le raccontava le loro vite come se avesse studiato l’enciclopedia della musica del mondo.
«Oggi è San Valentino», aveva esclamato Caterina quel giorno. «Il mio papà regala sempre alla mamma un mazzo di rose uguale al numero degli anni che si conoscono. Non so come fa, ma quando ci alziamo c’è già il mazzo sul tavolo della colazione. Per me butta giù dal letto il fioraio».
Si erano messi a ridere, e Mario, insieme al caffè, le aveva comperato anche un bacio perugina.
Caterina aveva letto a Mario il biglietto trovato nell’involucro del cioccolatino: Il vero amore è una quiete accesa (G. Ungaretti).
«Cosa vuol dire?» aveva chiesto Mario, dopo averci pensato un po’.
«Non lo so», aveva risposto lei. Ma dopo le si erano illuminati gli occhi e aveva detto: «Forse vuol dire che l’amore è come quando c’è il sole a giugno. Sai quando non fa mica troppo caldo, con il cielo tutto azzurro e il paese che sembra colorato con le tempere!». Poi gli aveva dato un bacio, lungo, sulle labbra.
Mario era rimasto fermo come un salame. Era diventato tutto rosso e poi era corso via, per colpa del nodo nella pancia. Ma questa volta era diverso: non voleva che l’aria se lo portasse via.
Caterina, invece, era tornata in lavanderia saltellando, con un caldo dentro che anche se era febbraio sembrava giugno.
La sera, a casa, la mamma l’aveva presa in disparte e le aveva fatto un lungo discorso. «Hai capito, Caterina, perché non puoi continuare a incontrarti con Mario?», aveva concluso, accarezzandole la testa.
«No», aveva risposto lei, con gli occhi pieni di lacrime.
Anche al lavoro Linda non la lasciava più uscire da sola. La accompagnava dappertutto, anche a consegnare la biancheria nei reparti. Un giorno avevano persino litigato e Caterina le aveva urlato tutto il suo odio. Ma non era servito a niente.
Erano passati diciotto mesi e sei giorni, quando sua madre l’aveva raggiunta al lavoro, un pomeriggio; lei e Linda le avevano raccontato che Mario era morto, per la leucemia. Quel giorno c’era il funerale; potevano andarci, se voleva.
Caterina rispose di sì.

Ora può di nuovo uscire da sola. Finito il turno di lavoro, si riassetta il lucidalabbra e, prima di andare a casa, passa dal cimitero a chiacchierare con Mario.
Quando sono fioriti, gli porta ogni giorno cinque nontiscordardime.
«Vedi», gli dice mentre li cambia nel vasetto ai piedi della lapide «questi non si possono stropicciare».
Poi, prima di andar via, bacia sempre le sue labbra nella foto. E sente un caldo che, per un attimo, giugno sembra durare un anno intero.

Lara Gregori, nontiscordardime
down

“Ma mi faccia il piacere…”

Avevamo un premier rompiscatole, con una voce insopportabile, che era quotidianamente in Tv a decantare le lodi del governo che, per mani sue, faceva cose strabilianti per questo miserrimo paese, che solo Dio premier potrebbe rimettere in sesto. Per fortuna ne siamo stati liberati e ci è capitato il meglio che l’Italia potesse trovare. Le capacità del professor Draghi sono indiscutibili, a referenziarlo bastano le sue esperienze precedenti e noi lo abbiamo visto all’opera come presidente della BCE, dove ha salvato l’Euro in un momento difficilissimo per la nostra moneta, salvaguardando molti paesi in pericolo, tra cui il nostro, reggendo le pressioni dei falchi ,che ne chiedevano la stessa fine della Grecia.In questi mesi si è fatto apprezzare, amare dagli italiani per il suo lavoro certamente, ma anche e soprattutto per il cambiamento di stile che ha imposto al suo governo, facendo sì che sparissero le quotidiane esibizioni di certi ministri, in primis evitando lui stesso di parlare continuamente alla nazione. Il suo grande stile è stato finora quel basso profilo, fin troppo, come di chi non fa in prima persona, ma sorveglia chi fa. Ebbene questo suo modo di essere faceva di lui un personaggio unico, peccato che la prima volta che abbia cercato di fare comunicazione, sia caduto immediatamente da quel piedestallo, su cui stava benissimo. Le sue parole di ieri non hanno giovato per niente alla sua fama . Grande economista, possibile bravo politico , pessimo comunicatore. Se avesse continuato a tacere sul Covid, sulle vaccinazioni, se fosse stato più attento nell’emanare il decreto green pass, evitando di assecondare troppo la sinistra per ottenere in cambio il lasciapassare alla riforma Cartabia, avrebbe fatto un figura migliore agli occhi dei cittadini italiani. E col green pass si continua con le discriminazioni, primo tra i vaccinati e non, secondo tra esercenti , che torneranno a patire e privilegiati, vedi servizi pubblici, supermercati, centri commerciali,ecc, dove si continuerà a fare soldoni. E questo in un paese dove si vuole votare la legge Zan , perchè finisca il discrimine. Non ricordo chi fosse, qualcuno noto però ,diceva sempre”Ma mi faccia il piacere….”!

 

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Perchè comprare la ” Collana dei libri proibiti” in vendita con”Il Foglio” dal mese di luglio.

Che cos’è la polizia del pensiero? Per tutto il mese di luglio il Foglio offre ai suoi lettori una collana editoriale speciale intitolata “I libri proibiti”. Si tratta di una selezione di grandi classici del passato che la cultura del cancelletto oggi manderebbe al rogo. Uno di questi è “Huckleberry Finn” di Mark Twain. Penso che siano pochi gli anziani di oggi che , come me sono cresciuti con un libro sempre iniziato, da ragazzini non abbiano letto questo romanzo, un classico della letteratura americana per ogni età, uno di quei libri che rimangono indimenticati tra migliaia che abbiamo letto.

Huck
“Coloro che cercheranno di trovare uno scopo in questa narrazione saranno processati; coloro che cercheranno di trovarvi una morale saranno banditi; coloro che cercheranno di trovarvi una trama saranno fucilati”. Se cerchiamo la poetica di Mark Twain, eccola. E’ l’avvertenza sulla prima pagina del romanzo, pubblicato a Londra nel 1884, e solo l’anno successivo in America, otto anni dopo Le avventure di Tom Sawyer. Storie di ragazzini in cerca di libertà e divertimento. Secondo Ernest Hemingway, Le avventure di Huckleberry Finn “è il miglior libro che abbiamo mai avuto. Non c’era niente prima; non c’è stato niente di altrettanto buono dopo”. Tutti gli strumenti narrativi arrivano da lì, tutte le avventure, la spudoratezza, tutta la vita della provincia americana, tutto il senso dell’umorismo si trova lì. Huck ha dodici anni quando decide di scappare dalle insistenti attenzioni educative della vedova perbene che lo ha preso in custodia e che cerca di insegnargli a diventare un bravo ragazzo e a non mettere i piedi sul tavolo, a lavarsi con acqua e sapone, ad andare a scuola e a messa. Huck si annoia troppo, si sente come morto, vuole scappare. “Era ben duro vivere sempre in casa, considerando quanto fossero squallidamente metodiche e corrette le abitudini della vedova; così, non appena non ne potei più, me la svignai”. Ricordo benissimo la sensazione che provai, da bambina, la prima volta che lessi questa frase sul libro che era stato di mio padre: non appena non ne potei più, me la svignai.” Che liberazione, che felicità: svignarsela. Mentre le sorelle March di Piccole donne compivano i loro doveri di brave ragazze e figlie devote, Huckleberry Finn se la svignava con una zattera sul Mississippi. E metteva in ridicolo tutte le convinzioni del mondo degli adulti, le buone maniere, l’ipocrisia e la finta generosità. Con grande realismo e senso dell’opportunità. “Se ci si deve comportare male, tanto vale farlo per bene e fino in fondo”. Huck incontra lo schiavo Jim, in fuga perché ha scoperto che verrà venduto a un mercante che lo porterà in una piantagione di cotone del profondo Sud, allontanandolo dalla sua famiglia.
Naturalmente Jim è nero, e la parola che viene usata per descriverlo è quella del diciannovesimo secolo: “negro”. Ricercato, accusato perfino dell’omicidio di Huck (che Huck ha inscenato per scappare), Jim non può che diventare il migliore amico di questo bambino che rifiuta gli adulti fintamente civilizzati e che è stato quasi ammazzato dal padre alcolizzato con un’accetta. Tra i peccati che spedivano dritti all’inferno, secondo la comunità cristiana di cui Huck non aveva nessun desiderio di far parte, dare aiuto a uno schiavo fuggitivo era forse il primo della lista. Questa è una magnifica storia di ribellione e di amicizia, e di notti stellate passate a raccontarsi il mondo intero e a osservare la follia della società. Se si deve andare all’inferno, tanto vale divertirsi. “Penso che a Jim la sua famiglia gli manca proprio come ai bianchi. Sembra impossibile eppure penso che è davvero così.”Lo scandalo dello sguardo libero di questo ragazzino ha costruito la grande libertà della letteratura americana, che adesso non può svignarsela. Del resto Jim è l’unico adulto rispettabile di tutto il romanzo, e “se avessi saputo che faticaccia era scrivere un libro, non ci avrei neppure provato”.

Un consiglio di una lettrice accanita, che ama la libertà di pensiero intesa come valore eterno e universale ,per chi non conoscesse questi libri è di non lasciarseli scappare in questa edizione a poco prezzo offerta dal Foglio. E’ un modo come un altro per capire meglio la storia, il pensiero umano nelle varie epoche del mondo, e per dire no a quel pensiero ,che sta diventando dominante, di cancellare, distruggere tutto ciò che è in contrasto col modo corrente di vedere le cose, una dittatura del pensiero che contraddice lo stesso nuovo modus vivendi.

I Residui Di Michelangelo .Dal Blog di Paulo Coelho

Michelangelo al lavoro

Una volta domandarono a Michelangelo come riuscisse a creare delle opere tanto magnifiche.
“È molto semplice,” rispose Michelangelo.
“Quando guardo un blocco di marmo, io riesco a scorgervi dentro la scultura.
Tutto ciò che mi rimane da fare è togliere i residui.”
C’è un’opera d’arte che siamo destinati a creare.
Essa è il punto centrale della nostra vita e, per quanto tentiamo di ingannarci, sappiamo come sia importante per la nostra felicità.
Eppure, quest’opera d’arte generalmente è coperta da anni di paure, colpe, indecisioni.
Ma, se decideremo di eliminare questi residui, se non dubiteremo delle nostre capacità, saremo in grado di proseguire nella missione che ci è stata destinata.
E questa è l’unica giustificazione della nostra vita.

 

togliere residui1

A proposito di imbecilli…

Fernando Savater
Sugli Imbecilli  .Etica per un figlio.

 

Il senso della vita
Lo sai qual è l’unico dovere che abbiamo nella vita? Quello di non essere imbecilli. Ma non ti credere, la parola “imbecille” è più sostanziosa di quello che sembra. Viene dal latino baculus, che significa ” bastone”, e l’imbecille è chi ha bisogno del bastone per camminare. Non vogliamo offendere gli zoppi o i vecchietti, perché il bastone a cui ci riferiamo non è quello che si usa, molto giustamente, per sostenersi e che aiuta a camminare un corpo danneggiato da un incidente o indebolito dall’età. L’imbecille può essere agilissimo e saltare come una gazzella alle olimpiadi. Non si tratta di questo, perché è uno che non zoppica nei piedi, ma nell’animo: è il suo spirito che è debole e zoppetto, anche se il suo corpo fa giravolte di prima classe.
Esistono vari tipi di imbecilli, a scelta:

Quello che crede di non volere nulla, dice che tutto gli è indifferente, e non fa altro che sbadigliare o dormicchiare anche se tiene gli occhi aperti e non russa.
Quello che crede di volere tutto, la prima cosa che gli capita davanti e il suo contrario: andare via e restare, ballare e rimanere seduto, mangiare l’aglio e dare baci sublimi, tutto in una volta.
Quello che non sa che cosa vuole e non si disturba a cercare di capirlo. Imita i desideri di chi gli sta vicino oppure sostiene il contrario “perché si” ,e tutto quello che fa è dettato dall’opinione della maggioranza tra quelli che lo circondano: è conformista senza averci riflettuto o ribelle senza motivo.
Quello che sa di volere, sa ciò che vuole e, più o meno, sa anche perché, ma senza energia, è pauroso o debole. Alla fine si ritrova sempre a fare quello che non vuole e rimanda a domani quello che vuole, sperando di essere un po’ più convinto.
Quello che vuole con forza, è aggressivo, non si ferma davanti a niente, ma sbaglia nel giudicare la realtà, si lascia depistare completamente e finisce per scambiare per benessere ciò che lo distrugge.

Ciascuno di questi tipi di imbecillità ha bisogno di un bastone, ossia di appoggiarsi a qualcosa d’altro, qualcosa di esterno che non ha nulla a che vedere con la libertà. Devo dirti pure che gli imbecilli in genere finiscono piuttosto male, checché ne dica la gente. Quando dico che “finiscono male” non voglio dire che li mettono in carcere o che sono inceneriti da un fulmine (questo capita solo nei film), voglio dire che in genere si mettono da soli i bastoni fra le ruote e non riescono mai a star bene nella vita, che è quello che interessa tanto a noi due. Però ti devo anche informare di una cosa: qualche sintomo di imbecillità ce l’abbiamo tutti; e dai, io perlomeno li scopro un giorno sì e l’altro pure, spero che le cose a te vadano meglio… In conclusione: allerta! in guardia! l’imbecillità è in agguato e non perdona!

Da “Vieni fuori, Grillo parlante”

imbecillità

Il ventaglio…

Un monaco domandò al maestro Tung-shan (807-869): “Come posso evitare il caldo e il freddo?”
Il maestro rispose: “Perché non ti trasferisci là dove non fa né caldo né freddo?”
“E dov’è questo posto?”
Disse Tung-shan: “La dove, quando fa caldo, il monaco si sventola e, quando fa freddo, il monaco si riscalda”.

Questo posto è esattamente là dove ci troviamo, là dove, quando fa caldo, si cerca il fresco e, quando fa freddo, si cerca il caldo. La nostra azione fa sì che si attenuino le oscillazioni estreme e ci si mantenga in una zona di centro, in una situazione di equilibrio naturale. Un altro maestro dichiarò che lo Zen consiste “nel riscaldarsi quando fa freddo e nello sventolarsi quando fa caldo.” Qui “caldo” e “freddo” rappresentano tutti i contrasti della natura, che vengono per così dire armonizzati nel “luogo” dello spirito. Non si tratta di diventare indifferenti, ma di recuperare quel baricentro che é ugualmente lontano da tutti gli estremi.

ventaglio

Lo sai che i papaveri…

Per mia fortuna ho potuto vivere lunghi periodi in campagna durante la mia infanzia e giovinezza. Durante la guerra la mamma ed io ci eravamo trasferite nella grande casa di papa in campagna e ho potuto così godere della bellezza dei campi estivi che venivano colorati dai papaveri. Parlo al passato perchè è raro vedere oggi tanti papaveri insieme. I diserbanti li distruggono per non inquinare di erbacce le graminacee, che creerebbero non pochi problemi alle grandi mietitrebbia, ma creandone ben altri all’ambiente. Sono fiori bellissimi e tra la mia erba rustica crescono ancora papaveri e qualche fiordaliso, la cui naturale bellezza non ha nulla da invidiare ai perfetti tappeti inglesi, tanto belli quanto avvelenati.

papaveri 2

Il papavero è una pianta perenne che cresce spontaneamente sia nei campi coltivati che ai margini delle strade. Fiorisce da maggio a settembre ed in una sola stagione riesce a produrre anche 400 fiori e può raggiungere anche gli 80 centimetri di altezza .I fiori hanno un bellissimo coloro rosso con all’interno un “bottone” nero e le loro foglie ed il loro fusto si caratterizzano per una peluria sottile.

Gli antichi greci ritenevano il papavero simbolo dell’oblio e del sonno, per gli antichi romani era il simbolo della dea Cerere raffigurata con ghirlande, mentre nel Medioevo era associato al sacrificio di Cristo. La bellezza dei papaveri incantò non pochi artisti, come Van Gogh, Klimt e Monet, che li trasformarono in soggetto floreale dei loro quadri.
I papaveri sono, oggi, divenuti simbolo della libertà, infatti in Inghilterra, essi vengono utilizzati per ricordare le vittime della Prima e della Seconda Guerra Mondiale ed in Italia innumerevoli sono i riferimenti ai papaveri come simbolo di libertà: De Andrè  ne La guerra di Piero, parla di “mille papaveri rossi” a fare la guardia alla tomba di Piero ed al periodo della Resistenza risale l’usanza di apporre sulle tombe dei partigiani un fiore di papavero.
Poichè il papavero cresce ovunque, ma se colto appassisce subito. E’ bello associarlo quindi alla libertà, perché non può essere “imprigionato” ,e costretto, si lascia morire.

proserpina
Leggenda antica sui papaveri

Si narra che un giorno, nel mese di giugno Proserpina, la bellissima figlia di Giove e della dea della Terra, mentre coglieva fiori in un prato di Sicilia fu rapita da Plutone, dio degli inferi, che volle farla sua sposa.

Quando la madre Demetra venne a sapere che la figlia avrebbe trascorso il resto dell’esistenza nel mondo sotterraneo si disperò e corse a chiedere aiuto a Giove che però non fece nulla, cercando addirittura di incoraggiare l’unione della figlia che sarebbe diventata regina.
Demetra in preda al dolore decise di non occuparsi più per la Terra. A quel punto Giove, preoccupato della morte delle creature, convinse Plutone a lasciar tornare Proserpina per almeno sei mesi ogni anno.
Così fu e leggenda vuole che quando la regina ritorna sulla terra sbocciano i papaveri che con il loro colore rosso, ricordano alla dea la passione dello sposo che l’aspetta negli inferi.