Categoria: favole per la vita
Sono il tuo corpo…
Sono il tuo CORPO, e mi rivolgo a te.
Sono così come tu mi pensi; ti prego, pensa che io sia bello; lo sarò.
Quando pensi alle malattie e le cerchi in me… sono costretto ad obbedire e m’ammalo.
Quando hai molti pensieri negativi, m’ammalo, perché stai sperperando per questi pensieri la forza vitale.
Quando gioisci, ringiovanisco e fiorisco.
Le mie risorse sono tante. Credi in me, posso guarire anche quando i medici emetteranno una sentenza della fine. Aiutami semplicemente con la tua fiducia in me.
Sono fatto per funzionare per tantissimi anni; perché inizi a pensare alla vecchiaia già a 35-40 anni? Perché credete che i 100 anni sia un limite?
Quando vuoi mangiare qualcosa, chiedimelo se ne ho bisogno. Se imparerai a sentirmi, ti risponderò.
Sulla bellezza. Non riempirmi di vari integratori, botox, gel, silicone… posso essere bello anche senza questa roba, aiutami solo, e assumerò le forme che vorrai tu.
Mi piace passeggiare, nuotare, correre, ballare, mi piace il massaggio, il sesso. Mi piacciono le occupazioni che ti portano gioia.
Stare tutto il giorno davanti al computer o la Tv… non troppo.
Ti credo molto. Se tu credi di ingrassare perché hai mangiato un pezzo di torta, realizzerò il tuo pensiero e ingrasserò.
Ti amo molto. Mi piacerebbe sentire da te delle parole d’amore e di gratitudine. Almeno qualche volta. Ma se non lo farai… ti amo lo stesso.. incondizionatamente.
Sono io, il tuo corpo… il tuo Universo. Anche tu sei una particella dell’immenso universo.
Ti ringrazio.. esisto perché tu lo hai voluto. E sono così come mi vuoi vedere. Aiutiamoci!
Francesco Oliviero
Torniamo all’essenziale…
Si può essere cattolici, credenti e praticanti oppure no, ma si deve convenire che la domanda a cui è dedicato il Meeting di Comunione e Liberazione di quest’anno, in corso a Rimini, è la più centrata, urgente e universale che ci possa essere: “Se non siamo alla ricerca dell’essenziale, allora cosa cerchiamo?”. Al Meeting di CL il sottinteso è l’incontro essenziale con Gesù Cristo, e poi l’impegno sociale, solidale, comunitario che ne deriva, nelle opere, nella vita e nel lavoro. Ma la ricerca dell’essenziale è il tema cruciale dell’uomo, coincide con la fede e col pensiero; precede ogni scelta religiosa, filosofica, esistenziale, civile. Ci mette in gioco davanti alla vita e alla morte, alla nascita e all’amore, alla gioia e al dolore, all’infanzia e alla vecchiaia, al mistero e al destino.
Se dovessimo infatti riassumere la dispersione, la dissoluzione, l’alienazione, la follia del nostro tempo, soprattutto nell’Occidente cristiano, dovremmo proprio condensarle in quella constatazione: abbiamo perso di vista l’essenziale, ci stiamo perdendo nelle procedure, negli alibi, nei surrogati, nelle deviazioni di percorso, nei regni fluttuanti del superfluo, in balia della volontà di potenza. Vivere per le procedure significa scambiare il fine della vita con i mezzi per vivere, barattare il significato con le funzioni e le utilità. Quando perdi di vista l’essenziale ti fabbrichi degli alibi, perché non hai tempo per fare “filosofia” sulla vita, devi campare e procurarti da vivere; poi ti rifugi nei surrogati dell’essenziale, gli obbiettivi fallaci, gli idoli, i consumi, il profitto, la tecnica, gli agi elevati a valori. Da qui le deviazioni di percorso, scorciatoie, vie di fuga o itinerari turistici, diversivi o solo divertenti, per non intraprendere il cammino a cui ti chiama la vita. Una vita che perde l’essenziale è una vita che si perde nel superfluo, in tutto ciò che è accessorio, labile, ornamentale, banalmente superficiale. Se la vita non ha senso, non ha destino, non vuole lasciare eredità e tracce meritevoli di essere salvate ma è una pura affermazione ed espansione illimitata di potenza e desideri, ha già imboccato la direzione opposta alla ricerca dell’essenziale. Anche perché la domanda sull’essenziale è una domanda sull’essere, mentre l’affermazione di potenza è protesa contro o senza l’essere, presuppone la forza di annientare chi vi si oppone e di creare dal nulla.
La domanda che sta dentro la ricerca dell’essenziale è primaria, originaria: perché vivere, cosa ci spinge a vivere anziché lasciarsi andare? C’è un modo di aggirare quella domanda ed è nel puro regredire allo stato biologico: ti aggrappi al puro istinto di sopravvivenza ed autoconservazione. Chiunque vive vuole preservarsi, restare in vita e difenderla come l’istinto elementare e naturale primario che precede ogni altro pensiero o volontà. Dunque non c’è da porsi nessuna domanda, siamo fatti così, predisposti geneticamente come qualunque altro essere vivente, a vivere per vivere, abbiamo l’istinto a sopravvivere; la volontà di vivere, direbbe Schopenhauer.
Ma l’uomo pensa, sceglie, ricerca, esplora, è nella sua indole. Sa di morire. L’uomo cammina su una corda tesa tra la libertà e il destino, e i due poli estremi della corda lo inducono a ricercare l’essenziale. Non è solo il filosofo, il ricercatore, il devoto a porsi quella domanda, ma è l’uomo, in virtù della sua coscienza e della sua sensibilità. La ricerca dell’essenziale pone sulla stessa linea l’istinto di vivere, il sentimento e la ragione.
C’è tuttavia un punto di crisi in cui si perde la ricerca dell’essenziale: è quando la partenza coincide con l’arrivo e tutto ruota intorno all’io e si risolve in lui. Se il mondo è solo un corollario, uno strumento, uno specchio per l’io, si è già fuori dalla ricerca dell’essenziale. L’essenziale è ciò che oltrepassa l’io, ci apre oltre noi, non amplifica l’ego.
La religione col suo senso del divino è da sempre il luogo di proiezione e di protezione; ossia il punto in cui oltrepassare se stessi, proiettarsi oltre noi, fino a proiettarsi nei cieli, e insieme trovare protezione ai nostri limiti, alla nostra mortalità, alla nostra precarietà. Possiamo spingerci a riconoscere o prevedere il tramonto di una religione, la fine di una civiltà legata a quella fede, ma non possiamo pensare l’umanità senza quel bisogno innato di proiezione e di protezione. Se ciò accade vuol dire che ha trovato surrogati per sostituire quel duplice bisogno e camuffarlo sotto altre vesti. Oppure ha smesso di essere umana, cioè libera, pensante, protesa verso il destino.
In ogni caso, se cerchi l’essenziale devi sporgerti oltre l’io, concepire l’essere come una casa più grande in cui sei compreso, di cui non sei padrone.
Certo, la ricerca dell’essenziale non può risolversi in un bel meeting, in qualche dialogo e in qualche predica, come non può semplicemente esaurirsi in uno scritto, una riflessione intellettuale o una dichiarazione solitaria. Ma quando una società perde l’orientamento, quando non sa più riconoscere l’alto e il basso, il vicino e il lontano, il prioritario e il secondario, quando non sa distinguere il bene e il male, o usa al contrario le parole rispetto alla realtà e chiama pace la guerra, inclusione l’esclusione, libertà l’intolleranza, sviluppo il degrado, emancipazione l’imbestiamento, è necessario che si avvii da tutte le postazioni possibili, a tutti i livelli, una chiamata alla realtà, alla vita vera, alla nascita e alla morte, e alla missione reale e ideale della nostra vita.
E se la politica, la società, il pensiero non si curano di questa domanda, può essere una ragione per non curarsi del potere politico, sociale e culturale, ma non è un buon motivo per abbandonare la ricerca dell’essenziale; che diventa, proprio per quella latitanza, più essenziale che mai.
Marcello Veneziani
Bruno Martino ha cantato la malinconia di chi non riesce mai a sentirsi all’altezza dell’estate…
“Odio l’estate” non è il manifesto degli hater delle vacanze ma la canzone di chi non può fare a meno di sentirsi inadeguato a una stagione troppo bella, vitale e spensierata.
Parlare ancora di “Estate” di Bruno Martino (rititolata così dopo che Lelio Luttazzi la parodiò in tv con “Odio le statue”, ma meglio riconoscibile col suo primo titolo: “Odio l’estate”) potrebbe sembrare il solito strale antipatico del guastafeste che si oppone alla stagione più amata dalle masse. Non è così semplice, per vari motivi. Il primo è che la tristezza estiva non è una posa dei bastiancontrari su X, ma un sentimento antichissimo che il poeta Alceo, vissuto a Lesbo nel VII secolo a.C., descriveva con queste parole: «Bagna i polmoni nel vino […] La stagione è opprimente, assetato è tutto […] È in fiore il cardo: ed ora le donne son più lascive, molli son gli uomini, giacché Sirio il capo e le ginocchia inaridisce».
Il fastidio per l’estate – per il cattivo accordo dei propri moti interiori con la luce e il calore opprimente – risale a molto prima che i motori dell’aria condizionata venissero a turbare le notti dei palazzi urbani e la brutta musica quelle degli alberghi a mare; a ben prima che il Summer blues – la variante estiva della depressione meteoropatica – venisse codificata con la stessa dignità degli istinti suicidi nei Paesi nordici d’inverno. La seconda ragione per cui “Estate” non è una banale scelta da Sad girl è che Bruno Martino (e il paroliere Bruno Brighetti) non odiavano davvero l’estate; infatti, pur morendo di dolore e invocando la neve a coprire tutte le cose, il risultato era una specie di ode (ok, malinconica) alla stagione. Prova ne sia che le versioni inglesi o brasiliane del brano – che negli anni è stato ripresissimo, fino a diventare un canone del jazz e della bossanova – hanno solo parole elogiative per questa stagione, come se al di là del testo originario, e perfino dell’arrangiamento, stessero a significare che, alla fin fine, questa è una canzone dell’estate, sull’estate, per l’estate. Mi riferisco, per esempio, a un adattamento inglese del 1965, il quale, anziché lamentarsi di un amore trovato e perso d’estate, si augurava che l’avventura a questo giro si rivelasse solida: «This summer/ perhaps I’ll meet the one who’ll be my true love/ The one who won’t be just another new love/ Who’ll still be mine when leaves begin to fall…». Lo stesso João Gilberto, artefice della fama mondiale del brano, aveva tolto subito la parola odio dal testo, pensando che la saudade insita nella musica fosse più che bastevole. L’odio poi, oggi, è cosa ben diversa: ha a che fare col livore, è espressione gratuita e violenta di dissenso da hater. Invece Bruno Brighetti, che leggenda vuole avesse scritto il testo dopo una intossicazione da frutti di mare in un hotel di Napoli nel 1960, non era capace di vero odio. Al massimo del malumore diceva: odio l’estate perché è troppo bella. Voglio che passi solo perché io non sono felice. Perché tutti sono innamorati invece io ho mal di stomaco.
È questo il sentimento veramente condivisibile che abbiamo provato tutti – non il lamento sterile dei calorosi, dei nemici delle zanzare, dei detrattori del mare, dei workaholic: la sensazione esistenziale che il nostro cuore non stia al passo col fulgore dell’estate; che non si accordi ai colori sgargianti della frutta e dei vestiti; alla dolcezza delle carni all’ombra, ai profumi del pino e del limone. Che il nostro cuore, insomma, sia un posto troppo più freddo della spiaggia a quaranta gradi dove tutti si muovono con ostentata grazia e stolido buonumore. Se è vero che “Estate” era in netta controtendenza rispetto alla canzone leggera di un’estate italiana del boom economico, è però successo a tutti, in ogni epoca storica, di sentirsi sfasati rispetto all’obbligo morale estivo dell’innamoramento e della spensieratezza. Chi soffre lo sfasamento per l’estate non è un vero hater, sa che l’estate è calda come i baci (che ha perduto) che ha dato il suo profumo ad ogni fiore (facendoci morire di dolore) e il sole che ogni giorno ci donava adesso brucia solo con furore. La tristezza dell’estate, in definitiva, non è che il perenne desiderio di raggiungere i suoi standard. Io, personalmente, soffro di un complesso da inadeguatezza all’estate dai tempi dei miei primi compleanni agostani, che spesso, per manie di grandezza congenite, si rivelavano delle puntate di giochi senza frontiere casalinghe che coinvolgevano tutta la cittadinanza minorenne. Al momento di chiudere la porta alle spalle dell’ultimo invitato, crollavo in una crisi di nervi perché avevo atteso quel giorno sin dai primi bagliori di giugno, perché come un santo patrono portato in gloria avevo immaginato che sarei stata davvero felice, e perché quella felicità non l’avevo acchiappata nemmeno quando dalla torta era uscita una carrozza con i pony. Tutto fuori da me appariva troppo più smagliante e sorridente del mio stato d’animo, di me, delle mie possibilità emotive, dei miei più ottimistici desideri di esser come tutti.
Che la si ami o no, arriva per ciascuno il momento in cui l’estate chiede troppo alla nostra vitalità in termini di entusiasmo; arriva, cioè, il momento in cui ci ciascuno in segreto si ripete piano: tornerà un altro inverno, e il cuore un po’ di pace troverà.
Arianna Giorgia Bonazzi
Ordinaria quotidianità…
Non sono la donna dell’angolo a destra
Mi conoscono per il posto che occupo. Per loro sono la donna dell’angolo a destra. Sorridono, non sempre, però si alzano per consentire il mio passaggio. Il rispetto della differenza di età è ancora esistente. Forse è l’unico elemento in comune tra la mia e la loro generazione. La conversazione latita, anzi, è proprio assente. Per questo motivo, ripeto il mio gesto ogni mattina. Un po’ per abitudine, ma soprattutto per sfida.Alle sette e trenta, al rintocco delle campane, scendo le quattro rampe di scale del mio palazzo. L’ultimo pianerottolo costituisce la linea di demarcazione tra la vita ordinaria, quella del palazzo, e la vita straordinaria ritmata dalla musica assordante, che rimbomba dalle pareti del bar a bordo strada. La connotazione del bar è mutata. Non sono cambiati soltanto i tessuti delle tovaglie o i colori delle pareti, sono variate pure la clientela e l’atmosfera. Il gruppo consuetudinario di persone che leggevano il giornale e si fermavano per una chiacchierata è stato sostituito da un flusso variegato di clienti di corsa e pressoché silenti. Le parole sono state risucchiate da una musica continua e intensa. Io sono l’unica degli storici avventori che ancora mi ostino a frequentare il bar e alle sette e trenta mi presento all’entrata. «Buongiorno, il solito».Ripeto ogni mattina anche se so che non è necessario. Per me, però, rappresenta il filo invisibile di congiunzione, il tentativo di un legame, il richiamo di un antico scambio di parole, oggi pressoché inesistente. Il caffè scende lento e va a adagiarsi sul fondo. Il proprietario fissa la fila di persone che occupano lo spazio ristretto davanti al bancone. Sporge il mento in avanti e due ragazze depositano alcune monete sul recipiente. Non salutano lui, né parlano tra di loro. Hanno le cuffie alle orecchie e mi chiedo se ascoltino la musica assordante all’interno del bar o riescano a udire altre canzoni. Lui resta immobile. Io invece mi sposto di lato per far transitare le due ragazze, che a capo chino e con lo sguardo occupato dal bagliore del cellulare, mi affiancano ed escono. Per loro rappresento soltanto un ostacolo che si è spostato in tempo lungo il loro cammino. Il resto delle persone di fronte al bancone attende nel silenzio rumoroso della musica che rimbomba nei pochi metri quadrati del locale. Solo una ragazza si distingue rispetto al resto del gruppo: ondeggia sul posto, batte le mani e fa un giro su se stessa. Mi fissa nel momento esatto in cui si blocca sul posto. Le sorrido. E la ragazza pronuncia un buongiorno stentato, che decifro dal movimento delle sue labbra. Continuo a sorriderle. È per attimi come questi che sono qua, perché mi piace lo scambio e il confronto. Marco, il proprietario, deposita il mio cappuccino sopra l’ultima parte del bancone. Come per distanziarmi dal resto della clientela, per lo più studentesca e giovane. Lui alza un muro che io non desidero. «Grazie.» Dico a voce alta sopra la musica rompendo l’assenza di voci nel tentativo di attirare l’attenzione, ma non ascolto nessuna reazione, neppure una levata di sguardi. Sono presenze assenti. Mi incammino lenta all’esterno con la tazza stretta nella mano. La musica si disperde e allenta la sua intensità. La pedana è occupata per metà. Alcuni ragazzi stazionano in piedi e con le dita scorrono veloci sullo schermo del cellulare. Altri sono appoggiati alla balaustra, la sigaretta elettronica posizionata tra le labbra. Quelli seduti hanno le cuffie alle orecchie e il computer aperto davanti agli occhi. Forse studiano. Non parlano. Non con me, ma neppure tra di loro. «Grazie». Dico ai primi che si spostano. Ripeto «grazie» anche ai due che con fatica si mettono di lato. Dico ancora un «grazie» alle cinque ragazze che si sono assiepate intorno a un tavolo lasciando libero quello in fondo a destra. Il mio. Mi siedo appoggiando le scapole alla spalliera e li osservo. Il cappuccino si raffredda, ma non importa. È una scusa per prendere posto ogni mattina lì fuori. Non lo bevo. Il latte mi congestiona l’intestino. Ma non credo che nessuno nell’onda di persone che attraversa il bar se ne sia mai accorto. Sono trasparente, anche se non lo accetto. Non accetto soprattutto che la mia trasparenza assuma nuovamente un contorno solo attraverso l’occupazione di un posto. È per questo che la mia sfida quotidiana continua. Attendo lo spazio di un dialogo. Di un frammento di conversazione. Di uno scambio che abbia il sapore della conoscenza. Di poter dire come mi chiamo e che non sono solo la donna dell’angolo a destra.
Melissa Turchi
illustrazione di Irene Alessandrino
Melissa Turchi è in libreria con «Parole in grammi», Morellini Editore
Le regine d’agosto: mosche, zanzare e cicale …
Nel silenzio immobile della canicola, ronza sovrano un moscone. Protagonista assoluta della controra, la mosca è la sola che si fa sentire nell’inerzia pomeridiana e mostra a quell’ora una vitalità sconosciuta a uomini e bestie, accasciati dal caldo. Desta speciale invidia la sua totale libertà negata a ogni altro essere vivente. Le senti ronzare nelle stanze dei morti, nel silenzio tombale o celestiale dei pomeriggi estivi, sprezzanti del calore e del cordoglio; le sentivi violare, con sfrontata irriverenza, il sacro silenzio dell’eucaristia, nelle chiese accaldate d’estate, quando neanche i ventagli accennavano un rumore; le sentivi esibirsi nei momenti di massimo silenzio in scuole e caserme, quando non doveva volare una mosca ma lei se ne fotteva. Ai pranzi solenni violano il cibo e le cerimonie. La sublime libertà della mosca, la sacrilega noncuranza del suo ronzare, la divina strafottenza dei suoi giri…
Ora c’è la demuscazione ma l’arma chimica per combattere le mosche un tempo era il flit, l’arma bianca era invece il picchietto. La prima volta che apparve su un giornale un mio lavoro non avevo quattro anni: era il corpo di una mosca schiacciato col picchietto sulla pagina di un quotidiano. Fui incaricato da mia madre di uccidere le mosche in cucina. Non solo per disinfestazione ambientale ma per tenermi impegnato, perché all’epoca ero nullafacente. Lei sosteneva che “le mosche sono giornaliste” nel senso che amano posarsi sui giornali, forse attirate dall’odore dell’inchiostro, e allora stendeva sulla tavola lenzuolate di quotidiani per attirarle nel gioco fatale. Era il tempo in cui la stampa aveva ancora un ruolo importante. L’informazione come esca, la lettura come alibi. Ed io, armato di picchietto con retina in plastica gialla e manico di metallo, provvedevo a sterminarle. Fu il mio primo incarico per un giornale. La prima cosa mia che apparve su un quotidiano fu una mosca schiacciata. L’esordio precoce nell’attività giornalistica cominciò dunque con una stroncatura, firmando mosconi in cronaca nera; ma da killer e non da semplice cronista. Non si conoscevano le generalità della vittima, ma il corpo era sbattuto in prima pagina.
La sottile punizione dell’estate è la zanzara. Le senti spuntare all’imbrunire, cerchi riparo, ogni casa ormai fronteggia l’importuna creatura, dotandosi di zanzariere; a nessun altro animale è dedicata così speciale attenzione. Ma la pungente molestatrice d’agosto riesce a infilarsi nell’attimo fuggente in cui passiamo della porta; entra da fessure impreviste, e mette a rischio la notte. Di guerre domestiche alle zanzare sono piene le notti insonni d’estate. Si vorrebbe capire la loro funzione nel creato, qualcuno rispolvera antichi testi di teologici per dirci che servono per mettere alla prova l’umana pazienza. Ma non possiamo pensare che la loro vita sia in funzione della nostra. Pungono per proprio piacere e godere, per nutrirsi e bere alla spina, e non perché assumono una funzione educativa nei confronti dell’uomo. Non c’è animalista, tuttavia, che non avverta un senso di sollievo davanti a un corpo di zanzara spiaccicato, e persino a una strage di zanzare. I diritti degli animali non si estendono agli insetti, si è indulgenti pure con l’orso e col lupo nonostante mettano a repentaglio la vita umana; ma con la zanzara non c’è indulgenza, neanche un filo di pietà. Sterminio, o arma letale: aria condizionata a palla.
Ogni estate ha la sua canzone regina, ma in ogni estate non finisce mai il refrain della cicala, vera colonna sonora d’ogni agosto. I suoi concerti sono gratuiti e non richiesti, inesorabili, a vasta diffusione. Vivono poco le cicale, ma il loro frinire non finisce con la vita di un singolo insetto; l’una riprende il canto dell’altra, la loro vita è corale: tante singole brevità formano un’eternità collettiva. La cicala canta l’agosto rimando i diurni silenzi nel ventre sopito di una campagna, nell’afosa quiete d’agosto. Pensieri e parole s’arrendono, come asciugate dal caldo e cedono il posto al suo ritmo infinito. La nascosta regina delle calure dissolve le voci, cattura gli uditi, nei suoi lunghi, frenetici monologhi, di rado interrotti da magiche intermittenze. Il suo canto d’agosto scioglie gl’istanti, nell’incessante monotonia sonora, che scorre e si placa, e ancora riprende, uguale, vana e soave, incurante del tempo. Eterni ritorni racconta la sua effimera vita. Da sempre, dai tempi delle favole, si oppone la vanità estetica del suo frinire all’operosità etica della formica, lavoratrice indefessa, che trasporta pesi più grandi di lei. Eppure breve è la vita di entrambi, l’una terrestre, l’altra nascosta tra le fronde degli alberi. Da Esopo a La Fontaine, da Trilussa a Rodari, si è inventata la lotta di classe tra le parassitarie cicale e le lavoratrici formiche; eppure non sappiamo se la cicala sia privilegiata dalla sorte o sia condannata a frinire come in una pena infernale. Le formiche sono laboriose, “un popolo di formiche” furono definiti da Tommaso Fiore i fatigatori della terra, i cafoni delle campagne pugliesi. La cicala, insieme al suo più sobrio parente, il grillo, sono invece considerati i gagà nullafacenti della natura, che si perdono nel dire mentre le formiche si ammazzano nel fare. Sono smartphone della natura perennemente in linea. Cicale sono chiamate le persone che parlano a dirotto; e cicale sono definite le persone inconcludenti dalla vita oziosa, dissipata nel loro infinito ciarlare. Mosche, zanzare e cicale sono le vere regine d’agosto. Noi umani siamo solo comparse di passaggio.
Marcello Veneziani
Ognuno, quando fa del bene a un altro, lo fa a se stesso.
Dobbiamo fare di tutto per dimostrare la massima gratitudine. Questo è un bene nostro, allo stesso modo che la giustizia non riguarda gli altri, come comunemente si crede: gran parte ricade su se stessa. Ognuno, quando fa del bene a un altro, lo fa a se stesso. E non lo dico perché chi è stato aiutato vuole aiutare, chi è stato difeso vuole proteggere e perché il buon esempio ritorna sulla persona che lo ha dato, (così come i cattivi esempi ricadono sugli autori, e se uno con le sue azioni ha insegnato che si può offendere, non trova commiserazione quando viene a sua volta offeso); ma lo dico perché ogni virtù trova in se stessa la sua ricompensa. Non la si esercita in vista di un premio: il guadagno di un’azione virtuosa consiste nell’averla compiuta. Dimostro gratitudine non perché un altro spronato dal mio precedente esempio mi aiuti più volentieri, ma per compiere un’azione dolcissima e bellissima; sono grato non perché mi conviene, ma perché mi piace. Per renderti conto che le cose stanno così, sappi che se potrò dimostrare la mia gratitudine solo sembrando ingrato, se potrò ricambiare un favore solo sotto l’apparenza di un’offesa, con la massima tranquillità realizzerò questo giusto proposito anche a prezzo dell’onore. Nessuno, secondo me, tiene in maggior conto la virtù, nessuno le è più devoto di chi rovina la propria reputazione di uomo onesto per non tradire la propria coscienza. Perciò come ho già detto, il dimostrare gratitudine è un bene maggiore per te che per il tuo prossimo; a lui càpita un fatto comune, di tutti i giorni, riavere quello che ha dato, a te un fatto importante, generato da uno stato d’animo di intensa felicità, aver dimostrato gratitudine. Se la malvagità rende infelici e la virtù felici, e l’essere riconoscenti è una virtù, hai dato una cosa comune e ne hai ottenuta una di valore inestimabile, la coscienza della gratitudine, che nasce solo in un animo straordinario e fortunato.
Seneca__Lettere a Lucilio___ I secolo d.C.
” Dinanzi ai libri aperti parlavamo più di amore che di filosofia”.
Dinanzi ai libri aperti parlavamo più di amore che di filosofia, ed erano più i baci che le sentenze. Più ai seni che ai libri correvano le mani, e gli occhi riflettevano l’incanto dell’amore più spesso che non si volgessero alla lettura del testo. Per non suscitare il minimo sospetto talvolta la percuotevo, ma era per amore non per furore, era per piacere non per ira, un piacere più soave di qualunque balsamo. A poco a poco gustammo bramosamente tutti i gradi dell’amore, senza trascurarne alcuno e se l’amore ebbe mai il potere di escogitare piaceri insoliti noi ce li concedemmo.
Pietro Abelardo__ Lettere (inizi XII secolo).
Ricordate chi era Abelardo, il consacrato del Medio Evo, il cui amore per una fanciulla diventò un mito come quelli celebri di Dante e Beatrice, Petrarca e Laura, Paolo e Francesca ? Chi era Lei?
Non siate schiavi delle mode…
Non sia la moda a rendervi infelici, né le mode vi inducano in schiavitù. Per quanto banali e scontate queste regolette di bon ton verso se stessi non vengono mai raccomandate abbastanza. Perché si, di rispetto per se stessi e non altro è fatta la sana reattività di chi non va supinamente a rimorchio di moda e mode. Guardatevi da imperativi destinati acriticamente alla pazza folla, rifiutate le gonnelline elasticizzate se avete un sedere autorevole, sfuggite alla minigonna se le gambe non sono perfette, esercitate su di voi lo spirito critico di cui siete capaci guardando gli altri. Non usate vistosi parrucchini se tendete alla calvizie, non vestitevi da capo a piedi come i giovanotti grintosi che occhieggiano dalle pagine pubblicitarie della moda maschile se non avete le physique du rôle, e per carità evitate di farlo anche se l’avete. […] Indossate ciò che piace a voi, che vi convince, vi abbellisce, fosse anche un vecchio merletto ottocentesco, o la cappa mantello di Sherlock Holmes, assolutamente fuori gioco dall’imperativo del momento. Quanto a mode, conquistate una volta per tutte l’orgoglio di stare fuori dal coro. Anche quando vi troverete casualmente dentro ci sarà sempre qualcuno convinto che se lo avete fatto “voi” l’idea era proprio buona.
Maria Venturini__Dizionario delle felicità
Un’estate lunga sei mesi. Senza più nessuna dolcezza, solo un ineluttabile disagio: come si sopravvive alla monostagione che va da aprile a ottobre?
Uno degli incipit che preferisco nella storia della letteratura l’ha scritto Roberto Calasso a 12 anni, e non è mai stato pubblicato. Calasso però ne ha poi parlato in Memè Scianca, un libriccino del 2021, e fa così: «L’estate la sentivo arrivare dal viale». Il viale sarebbe Spartaco Lavagnini, circonvallazione di Firenze, e all’epoca a cui si riferisce Calasso – l’immediato Dopoguerra – era uno stradone con il pavé al centro per i binari del tram 19, pochissime auto, tigli verdi e slanciati. L’estate che descrive il fondatore di Adelphi si avvicinava come una nave alla costa: lentamente, con emozione e una certa allegria. Ottant’anni dopo l’estate ci travolge come uno schiaffo in piena faccia. Alla prima settimana di aprile i termometri segnano trenta gradi, l’asfalto dei viale è già torrido, i cofani delle automobili scottano. Sudiamo. Un paio di anni fa uscì uno studio molto ripreso dai giornali che diceva: se non si fa niente per ridurre il cambiamento climatico, alla fine del secolo avremo un’estate lunga sei mesi. È il 2024 e l’estate pare iniziata ad aprile, quindi proseguirà a maggio, giugno, luglio, agosto, settembre, chissà se anche ottobre, è possibile, è probabile. I sei mesi sono già qui, se consideriamo non solo i trenta, ma anche i venticinque gradi temperature estive. Questo, ovviamente, porta con sé una serie di conseguenze gravi che conosciamo bene: dall’ansia climatica alle disuguaglianze sociali acuite dal clima, dalle migrazioni climatiche ai sempre più frequenti dissesti idrogeologici. Ma anche una domanda più faceta che riempie gli aperitivi e le cene e le pause caffè e i pensieri interrogativi davanti allo specchio la mattina: come ci si adatta a un’estate di sei mesi? C’è intanto un cambiamento nell’immaginazione, e ci penso rileggendo quella frase di Calasso: le primavere e le estati descritte nei romanzi, nei quadri e nei film soprattutto europei del Novecento erano dolci e attese, portavano leggerezza e una dote di maggiore libertà. Ce ne sono molte altre, semanticamente simili, che mi vengono in mente: quella di Arbasino nelle Piccole vacanze, quella di Cassola in Tempi memorabili, quella di Bassani nel Giardino dei Finzi-Contini. Sono primavere ed estati di giardini all’ombra e vestiti chiari, serate che rinfrescano, mattinate oziose in spiaggia e poi pomeriggi nelle camere riparate a riposare. Certe scene di Guadagnino, anche quelle incastonate in un passato dolce e sensuale, sembrano uscite proprio dai Finzi-Contini: «In certe sere di maggio, coi finestroni laterali spalancati dalla parte del sole al tramonto, a un dato punto ci si trovava immersi in una specie di nebbia d’oro».
In certe sere di maggio, a Milano nel duemilaventi e qualcosa, dopo aver letto l’ennesimo bollettino che annuncia: “L’ultimo aprile è stato il più caldo della storia umana”, le finestre se ne stanno invece chiuse, perché il termometro tocca già i trentadue gradi e non piove da settimane e la città puzza da far schifo. Nessuna nebbia d’oro, semmai una patina grigetta che contorna lo skyline di vetro. Accendo l’aria condizionata, guardo le piante rinsecchite sul balcone. Faccio la terza doccia del giorno. Devo uscire per una cena o un aperitivo con il giusto anticipo: in bicicletta me la devo prendere comoda, per non sudare anche tutta questa camicia. Le cene si scelgono nelle case provviste di freddo artificiale. A pranzo, i terrazzi sono ormai banditi, anche se avevamo passato l’autunno a sognare i pomeriggi a casa di tizio, immaginando scene, appunto, guadagninesche e oziose. Ma ci si può stare la sera, semmai, a terminare le notti che si sono trascinate nell’umidità. Il caldo infiacchisce, camminare stanca: il mondo dell’estate perenne gira al contrario rispetto a quello precedente, non è un mondo di libertà ma di frustrazioni. Se prendere gli aperitivi diventa una sofferenza, allora gli uffici ben condizionati si trasformano in un posto di requie, ci si sta volentieri. Quel briciolo di sindacalismo che si era risvegliato, fatto di smart working o altri termini sul lavorare meno e più indipendentemente, si scioglie nella consapevolezza che stare al computer in case poco ventilate è forse peggio che farlo negli uffici a venti gradi. Due estati fa è capitato piovesse, finalmente, dopo mesi di siccità che aveva investito l’Europa intera: Instagram si era allora riempito di Stories di festeggiamenti, venti-trenta-quarantenni entusiasti che ballavano nella pioggia. Un altro ribaltamento: finisce così che siamo felici quando piove, e non in senso crepuscolare, come diceva una canzone dei Jesus & Mary Chain, ma proprio felici-felici. Perché l’arsura era insopportabile già da marzo, e perché abbiamo introiettato un certo senso di colpa climatico, come se le colpe dei padri, dei nonni, dei bisnonni e degli avi degli avi, dalla macchina a vapore in poi, ricadessero sulle nostre spalle. E poi, con la pioggia, ci si può almeno vestire in modo decente: altro importante elemento di disagio e dibattito da bar, in questa estate caldissima e lunghissima. Dal cappotto alla maglietta, senza passare da quelle dodici giacche da mezza stagione destinate a una reclusione putiniana nell’armadio, una boccata d’aria ogni tanto, e poi di nuovo un anno a riposare. Dureranno se non altro per sempre, passeranno e poi torneranno di moda come i cicli solari lunghi undici anni. È diventato pure difficile andarsene dalle città, perché non esiste più quella furbizia di andare ai laghi o al mare prima che scoppino le vacanze: ci si va appena possibile. La Liguria è invasa da Camogli a Sarzana ogni weekend da febbraio in poi (il Ponente non so, non frequento, ma immagino una situazione simile), i laghi anche, i cittadini hanno pure scoperto i fiumi, pur di lasciare i viali e i palazzi. Anche le città con vista sul mare sono invase: la spiaggetta di Boccadasse, a Genova, è diventata una specie di Ponte di Rialto per densità di instagrammatori, sembra una riproduzione dell’Italia in Miniatura, a vederla così piena. Anche gli odiatori dell’inverno, i fisici e le menti più evoluti per resistere a sudore e umidità, devono fare un passo indietro davanti all’estate semestrale. Non si può sopportare per centocinquanta giorni questa violenza costante. A Milano, gli alberelli dei piani di riforestazione urbana sono poco più alti di una persona, boccheggiano impotenti e smunti. Dove c’è il mare, l’acqua si scalda già a maggio come in una pozza poco profonda. Si guarda all’orizzonte con terrore, immaginando cieli color sabbia, scenari da Mad Max nei viali della circonvallazione, nuvole infuocate. Se non ci sono più le mezze stagioni, se la l’immaginario estivo è così mutato – altro che sahariane elegante da Finzi-Contini, semmai magliette iper traspiranti di multinazionali giapponesi, braghette corte, ahimè ciabatte – allora dovremmo trovare un altro nome a questa macro-stagione inevitabile, inespugnabile, in cui agonizzare. Estate ha un suono ancora troppo dolce, che ogni volta ci fa sperare possa andare meglio, possa tornare com’era stato. Non tornerà.
Davide Coppo