Gli uomini che mi piacciono…

 

Mi piacciono gli uomini, quelli che non urlano le proprie ragioni.
Le fanno valere, in silenzio, dignitosamente.
Mi piacciono gli uomini, che usano le mani,per accarezzare.
Mi piacciono gli uomini che usano
le braccia per proteggere
e la forza ce la mettono tutta,
solo per risollevarti il cuore.
Mi piacciono gli uomini che si imbarazzano,ma scelgono sempre una rosa per farsi perdonare.
Mi piacciono gli uomini che sorprendono,con un bacio in un mare di affanni.Che ti tengono stretta da dietro, senza farti mai male.
Che si arrabbiano ma solo per paura
che tu possa decidere di non restare. Mi piacciono gli uomini che hanno coraggio d’amare una donna.
Semplicemente.

Daniela Sasso

 

uomini che piacciono

Generazione Z ragazzi orfani della famiglia…

 

Come non condividere un articolo come  questo, quando si è attenti ai nostri giovani ragazzi, che vediamo crescere senza quell’entusiasmo della gioventù, che per moltissimo tempo , ha caratterizzato , prima i nostri occhi, ormai vecchi e stanchi, quelli dei nostri figli che volevamo tutti avessero una vita migliore di chi aveva passato la guerra, noi.  Tuttavia con sforzo e determinazione siamo riusciti a vivere il periodo migliore dell’Italia ed ora siamo preoccupati per i nostri nipoti e pronipoti.

Gen Z

Generazione Z ragazzi orfani della famiglia

Da la STAMPA

 

Quando puoi scegliere…

 

Possibilità

Preferisco il cinema.
Preferisco i gatti.
Preferisco le querce sul fiume Warta.
Preferisco Dickens a Dostoevskij.
Preferisco me che vuol bene alla gente
a me che ama l’umanità.
Preferisco avere sottomano ago e filo.
Preferisco il colore verde.
Preferisco non affermare
che l’intelletto ha la colpa di tutto.
Preferisco le eccezioni.
Preferisco uscire prima.
Preferisco parlare con i medici d’altro.
Preferisco le vecchie illustrazione a tratteggio.
Preferisco il ridicolo di scrivere poesie
al ridicolo di non scriverne.
Preferisco in amore gli anniversari non tondi,
da festeggiare ogni giorno.
Preferisco i moralisti
che non mi promettono nulla.
Preferisco una bontà avveduta a una credulona.
Preferisco la terra in borghese.
Preferisco i paesi conquistati a quelli conquistatori.
Preferisco avere delle riserve.
Preferisco l’inferno del caos all’inferno dell’ordine.
Preferisco le favole dei Grimm alle prime pagine.
Preferisco foglie senza fiori a fiori senza foglie.
Preferisco i cani con la coda non tagliata.
Preferisco gli occhi chiari, perché li ho scuri.
Preferisco i cassetti.
Preferisco molte cose che qui non ho menzionato
a molte pure qui non menzionate.
Preferisco gli zeri alla rinfusa
che non allineati in una cifra.
Preferisco il tempo degli insetti a quello siderale.
Preferisco toccare ferro.
Preferisco non chiedere per quanto ancora e quando.
Preferisco prendere in considerazione perfino la possibilità
che l’essere abbia una sua ragione.

margherita

Sono belle, davvero molto belle, le poesie di Wislawa. Colpiscono con frecce spuntate, le pieghe del nostro cuore. Nelle pieghe, tuttavia, lasciano amarezza e poco più. Emozioni lucide e sfiaccate.

Identità, tradizione e negazione (spunti della relazione tenuta a Radici, festival dell’identità, da Marcello Veneziani)

 

L’identità è un bisogno radicale dell’animo umano. Un bisogno naturale e culturale, personale e comunitario, su cui si fonda il riconoscimento di sé e il rispetto dell’altro; vale anche l’inverso. Non c’è dialogo che non avvenga tra identità differenti; chi pretende di dialogare mettendo da parte se non addirittura cancellando le identità, rende inutile e impossibile il dialogo; non può esistere infatti un dialogo tra nientità neutre, intercambiabili.
L’epoca che stiamo vivendo è invece protesa a deprimere e vanificare le identità, a considerarle d’ostacolo alla pace e all’inclusione, residui tossici e contundenti di una chiusura al mondo. È un bombardamento dell’identità così vasto, costante e capillare; dall’alto, dall’interno e dal basso. Una cappa di obblighi, emergenze e disposizioni calata dall’alto, un’infiltrazione continua di modelli d’influenza ostili attraverso i media e le istituzioni, e un’affluenza massiccia di flussi migratori che producono alienazione, tensioni e disagio.
Il triplice attacco all’identità produce reazioni ostili di tre tipi principali: un rifugio introverso nel proprio habitat, un atteggiamento di rabbia e scontentezza verso l’esterno, una richiesta di protezione securitaria e insieme di rappresentazione identitaria. E’ quel che sta accadendo nel mondo, in Occidente, in Italia. Larga parte dei conflitti e del malessere che attraversano le società deriva dall’identità in pericolo, il mancato riconoscimento e rispetto di ciò che siamo, la desertificazione delle differenze, la vertigine del mondo globale e spaesato.
L’identità, tuttavia, non è inerte, solida come un macigno e inamovibile. L’identità entra nella storia, ed è comunque un essere nel divenire; il fluire dell’identità si chiama tradizione, che è un trasmettere in cui persistenza e duttilità cercano un punto di equilibrio. L’identità non presuppone un mondo immobile ma una società che sa mutare, ricordare, far tesoro dell’esperienza e del patrimonio ereditato ma anche affrontare le sfide del futuro. La tradizione non è immobilità o culto del passato ma continuità, procedere e tornare; e, mutatis mutandis, salvare quel che non merita di perire. Gioia delle cose durevoli.
L’avversario dell’identità e della tradizione non è dunque il progresso e l’avvenire, ma l’ideologia woke contro la realtà, la storia e la natura; e dai suoi derivati, a partire dalla cosiddetta cancel culture. E’ in corso un’aggressione capillare e pervasiva di tutto ciò che costituisce l’habitat naturale e culturale, biologico e storico della nostra civiltà; il senso religioso, i legami comunitari, le appartenenze affettive, il sentire comune dei popoli.
Chi colse per primo, agli albori della nostra modernità, la negazione del reale e dello spirituale, mediante un attacco al sentire comune, alla famiglia, al senso religioso e al legame territoriale, fu Giambattista Vico, a cui ho dedicato di recente la prima biografia . Vico oppose al dominante razionalismo ateo, e poi illuminista, del suo tempo e alla “boria dei dotti”, il richiamo alla civiltà e a ciò che la connota: la memoria storica e il ricordo delle origini, la tradizione, il linguaggio, la poesia ma anche la famiglia, il sacro, l’amor patrio. In quella visione che connetteva anziché separare o porre in antitesi mito e scienza, storia e pensiero, filosofia e religione, fisica e metafisica, Vico difendeva l’identità come principio di realtà.
Prefigurava tre secoli fa, quel che poi darebbe avvenuto, fino al rovesciamento della realtà, in base al quale, si denuncia la xenofobia, l’omofobia, l’islamofobia per non vedere la patriofobia, la teofobia e la famigliofobia, e più in generale l’odio e la vergogna per la propria civiltà e la sua storia, la sua vita, la sua natura e cultura. E’ una cancellazione sistematica e aggressiva di tutti i vasi sanguigni entro cui scorre la vita di un uomo; dalla famiglia alla natività e al ruolo genitoriale, dalla comunità cittadina alla comunità nazionale, dal lessico corrente ai simboli alle tradizioni in cui è nato e cresciuto agli stili di vita. In questo contesto degradato provate a immaginare dove possa finire la sua identità, l’identità di popolo e di sé persona. Ma poi quando allinei tutti questi fattori, quando metti insieme una demolizione dopo l’altra, ti accorgi che alla fine di te non resta niente, se non il dispositivo che ti fa dir di si, come una foca ammaestrata, per accedere al secondo gradino e poi al terzo, al quarto… O che ti punisce, ti priva di riconoscimento, se scegli una strada diversa. Resti spaesato, esacerbato, ma soprattutto disconnesso, perdi i contatti con le tue origini, la tua vita, il tuo mondo, vivi solo l’ebbrezza del transito. Perdi la libertà di essere te stesso nel miraggio di diventare tutto e il suo contrario, in una fluidità incessante; perdi la relazione col tuo ambiente, la dignità di quel che sei e le tue sicurezze. Perché l’identità non è un sorta di icona che riposa negli iperurani ma è la tua vita col calore di un’anima e dei suoi affetti, il fervore di un’intelligenza collegata alla realtà, la carne dei tuoi amori, il sangue della tua memoria e la rètina delle immagini che vi sono impresse e documentano la tua storia. Dell’identità ti accorgi solo quando è in pericolo, altrimenti ci vivi dentro senza accorgertene. Quando perdi l’identità perdi la familiarità con te stesso e la tua storia; e la familiarità col mondo e con la storia, sul piano dell’identità comunitaria. Diventi mutante in orbita e straniero in casa tua. L’identità è semplicemente quel che siamo, la nostra realtà di uomini, anima, mente e corpo. Anche senza esserne pienamente consapevoli, i popoli chiedono di tutelare la propria identità: e sul piano pratico prima che culturale, passando naturalmente per gli interessi e i bisogni. Con l’identità insorge un’energia negata che scompagina le carte, i teoremi e gli assetti e riapre la storia all’imprevedibile avvenire.

La mia libertà, quella degli altri e lo Stato, che non è padrone di noi.

 Un paese civile, democratico, laico come  dice continuamente di essere l’Italia, non dovrebbe avere in circolazione video come questi. Se ci sono è perchè non tutti i diritti delle persone vengono rispettati, e tra tutti  quello di essere padroni della propria vita, e di conseguenza  poter scegliere di morire, quando questa si fa insopportabile, a causa di malattie terminali, che non hanno nessuna possibilità di vita, ma solo certezza di un perdurare di sofferenze, diventate insopportabili per il corpo, che , una mente lucida e cosciente, decide di far finire. Altri paesi, e il più vicino a noi la Svizzera, permettono il suicidio assistito, che tuttavia non è cosa per chiunque . i Infatti ha un certo costo, che non tutti possono permettersi e soprattutto diventa un reato penale di una certe gravità,  per cui non tutti hanno il coraggio di far prevalere l’amore per il malato, aiutandolo in questa impresa di disobbedienza civile. Non è lo stato che deve e può stabilire il livello del mio dolore, la mia capacità di sopportazione e concedermi il “permesso” di morire. Battiamoci perchè questo diritto diventi presto anche nel nostro paese una possibilità per chi lo vuole. Ci sono leggi che  molti non vogliono e si battono anche perchè vengano abolite o limitate. E’ questo solo un modo vergognoso di esercitare la democrazia.  Una legge sulla possibilità di suicidio assistito non è  un obbligo per nessuno, come non si obbliga al divorzio o all’aborto, ma solo la libertà di non essere costretti a delinquere  facendo atti scelti liberamente.

LA MIA LIBERTA’FINISCE LA’ DOVE INIZIA LA LIBERTA’ DELL’ALTRO

 

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https://video.repubblica.it/cronaca/sibilla-barbieri-l-intervista-esclusiva-perche-disobbedisco-in-un-podcast-i-suoi-ultimi-tre-mesi/456308/457274?ref=vd-auto&cnt=

Cadevano le ghiande, a pioggia…

Quante ghiande cadevano

C’era un po’ di sole oggi, come ogni giorno da quando scroscia di pioggia la notte, battendo forte sui tetti, mi sveglia e divento un gomitolo, che vaga nel lettone.
Mi sono avventurata lentamente lungo la pendenza del viale per scendere fino al rio, là dove il vento era tutto un turbinare.
Là mi sono seduta e ho ascoltato  la pioggia battente di centinaia di ghiande, cadente, inconfondibile nel loro ritmo costante, tra il sibilare attraverso i rami e la caduta sul terreno ricoperto di foglie. Pareva una musica, una melodia che si ripete solo una volta l’anno, scandisce il tempo, come dovesse riempire un salone per banchetti. Da domani , ghiri e scoiattoli avranno da fare per riempire le loro dispense, e poi potranno finalmente riposare, festeggiando l’arrivo dell’inverno. E ancora una volta sono arrivata fino qui, su questa panchina di pietra, che gli anni hanno riempito di muffe e licheni a salutare l’autunno nell’angolo più remoto del giardino. Incomincia ad imbrunire, il cielo a riempirsi di nuvole, mi incammino per tornare là, sulla collina, dove la mia casa pare sempre più lontana. I passi sono lenti nella salita, lo sguardo là dove un tempo c’erano tante luci ed ora, per prendere vita ha bisogno di me, perchè schiacci un interruttore. Io, la casa sulla collina e la solitudine  . Un trio che, nonostante quel che può sembrare, non è tristezza, mi piace : c’è tutta la mia vita e la storia , per ora continua.

ghiande

Pensatela come vi pare…

 

Era strana,
o forse era solo diversa
dalle altre persone.
Era una di quelle persone
che non parlava,
che provava a stare
accanto a tutti,
ma non a sé stessa.
Che aiutava tutti
ma non si permetteva
di chiedere aiuto
e nessuno
ha mai capito
il perché.
Dentro di lei
c’era di tutto,
la rabbia, l’odio,
l’amore, la tristezza,
il sollievo, i pensieri,
le parole, le melodie,
il mare, l’oceano,
il cielo di primavera,
la poesia, la felicità,
aveva di tutto,
ma nessuno
riusciva a vederlo.
Era un vulcano inesploso,
dentro aveva di tutto,
dentro aveva l’universo
ma nessuno lo sapeva.
(Anonimo)

amore che impera

Le ragazze dell’Iliade, quelle che combattono con le parole…

Le ragazze dell’Iliade

L’Iliade è il poema della forza, scriveva Simone Weil. Un’opera che canta la bellezza della guerra, ma anche la sottomissione alla sua necessità, all’inevitabile destino di uccidere e di essere uccisi, di finire vincitori o vinti. Del resto la Grecia di Omero, come sarà la Grecia di Pericle prima e di Alessandro Magno poi, è una società fondata sulla guerra, composta da un’umanità combattente che non teme di spiegare le vele e di sguainare la spada di fronte all’altro, al nemico, contrapposizione identitaria che garantisce la sua stessa esistenza.

Se da quasi tremila anni l’Iliade non è la storia di una guerra qualsiasi tra le migliaia che hanno insanguinato ogni epoca, bensì è la storia di tutte le guerre, un canto eterno di dolore e di gloria su come è stato e sempre sarà lo scontro armato tra uomini, è solamente grazie alle donne. Senza i suoi personaggi femminili, l’Iliade sarebbe una storia fra molte, dimenticabile e senz’altro già dimenticata: i suoi quindicimila e più versi costituiscono per l’Occidente l’immaginario di ogni guerra perché le protagoniste del poema, con la loro saggezza, profondità e dignità, trasformano un’accozzaglia di corpi schierati in due eserciti opposti in indimenticabile letteratura.

Achille, Ettore, Agamennone e gli altri sono personaggi che si muovono e passano; Elena, Ecuba, Andromaca sono epica destinata a permanere. Nel poema è sempre la donna a trasformare l’eroe in essere umano, il nemico in uomo, il cantore in poeta immortale: e proprio con un’invocazione a una donna, anzi a una Musa, che si apre l’Iliade, senza la quale Omero non avrebbe posseduto il materiale narrativo da cantare e mai il suo talento sarebbe sopravvissuto al buio dell’anonimato.

A partire dal suo stesso autore, gli uomini dell’Iliade incarnano sì la forza, ma una forza bruta, rozza, comunque insufficiente a risolvere il conflitto e a meritare la gloria: la loro mascolinità è certo possente ma lacunosa, intensa ma piccola se paragonata all’ambizione epica del poema. Se togliessimo al racconto gli episodi della trama di cui le donne sono le artefici dirette o indirette, non resterebbero che scene di battaglia secche, dure, certo poco gloriose, ripetitive e senza via d’uscita.

Gli uomini di Omero sono esseri umani in tutta la loro debolezza e la loro finitezza: Agamennone è un capo inadatto, Achille un guerriero capriccioso ed egoista, Paride un rampollo viziato, Ettore un eroe ipersensibile, Enea nemmeno lo si vede. Senza il potere drammatico femminile, l’Iliade sarebbe il pietoso canto della fragilità umana e non quest’irrimediabile poema della forza di cui parlavamo all’inizio.

Le donne di Omero non sono però supereroine grandiose né intrepide avventuriere secondo i moderni cliché dei videogiochi e dei film americani: nessuna delle protagoniste tocca un’arma e uccide il nemico, la donna è anzi del tutto assente dal settore della forza e dei giochi di potere. La variante del mito tramandatoci dal “cieco di Chio” non contempla nemmeno la presenza delle Amazzoni, il popolo femminile e guerriero che invece compare in altre versioni della storia, nelle quali la regina Pentesilea si scontra direttamente con Achille.

Il lato femminile dell’Iliade è fatto di discorsi e di voci che pretendono di essere ascoltati: sul campo di battaglia gli uomini gemono come fanatici, ai margini del combattimento sono invece capaci di articolare pensieri ed esprimere emozioni grazie alle donne con cui si confrontano. In questo senso, gli uomini e le donne di Omero sembrano appartenere a due diverse fasi della civiltà: i primi si esprimono a gesti, le seconde a parole; i primi distruggono, le seconde riparano, curano, ricostruiscono. E tramandano. Se al poema di Omero dovessimo togliere l’audio e dunque zittire i dialoghi innescati dai vari personaggi femminili, non resterebbe che un calderone di armi e di soldati muti e privi di senso.La storia stessa non inizia nel pieno della guerra, ma con il rifiuto di essa da parte del protagonista, Achille, che racconta – a parole, senza armi – la sua volontà di lasciare la battaglia offeso per la perdita della sua schiava Briseide.Comincia allora tutta una serie di contrattazioni e di colloqui tra le parti in causa, mentre l’eroe non tornerà a combattere se non al canto XX (sui ventiquattro di cui l’Iliade è composta), quando ritroverà le armi solo per vendicare la morte di Patroclo.

Senza la Musa non ci sarebbe Omero, senza Briseide non ci sarebbe Achille, così come non ci sarebbero Menelao e Paride senza Elena né Ettore senza Andromaca. O forse ci sarebbero, ma sarebbero soltanto delle comparse su cui passare oltre, da dimenticare. Del resto senza una donna la guerra di Troia non sarebbe nemmeno mai iniziata. Ciò che le donne apportano al poema non sono soluzioni o colpi di scena, ma letteratura. Le donne sono il motore narrativo dell’Iliade, coloro che trasformano la cronaca di un inutile massacro in capolavoro letterario. Gli uomini combattono, uccidono, spesso piangono; le donne tessono, disfano e rammendano la storia fino a formare il più potente canto bellico del Mediterraneo.

Il ruolo femminile di tessitrici di storie non esiste soltanto nell’Iliade, che pure è considerata il primo poema della letteratura occidentale. Chiunque sia stato Omero, uno, nessuno o centomila (o una donna, come credeva fortemente Samuel Butler), la capacità delle donne di farsi sarte dell’epica e ricamatrici di storie è nota fin dall’antichità in molte società dall’Africa all’Asia passando per l’Europa: il talento femminile di raccontare storie attraverso drappi decorati e ricamati con scene tratte dalle grandi saghe del repertorio mitico è oggi riconosciuto come una forma di letteratura non scritta degna di essere ricordata e tramandata. Dopo millenni di assenza di nomi femminili nei manuali di filologia, sembra che sia proprio qui, in questa forma di saggezza domestica e intima, fatta di storie ricamate con ago e filo e di versi affidati al ritmo del telaio (il cui simbolo letterario è Penelope, la protagonista dell’Odissea, che insieme all’attesa del marito tesse tutta la storia del secondo poema omerico), che debba ricercarsi l’origine della letteratura femminile. Canti non scritti ma intessuti, poesie affidate alla stoffa e non al papiro, che per secoli hanno trasmesso nei ginecei e nelle stanze riservate alle donne i grandi capitoli della letteratura antica.

La prova è fornita dall’etimologia della parola “rapsodo”, ossia il ruolo stesso di Omero, il cantore che viaggiava di villaggio in villaggio per narrare le gesta dei grandi eroi di Troia: deriva dal greco rapsodós, composto da rápto, “cucire”, e odé, “canto”. È grazie al lavoro minuzioso e paziente di questi sarti, e soprattutto di queste sarte di poesia, se i poemi di Omero hanno assunto la loro forma definitiva, quella che leggiamo tutt’oggi, a partire da un patrimonio orale di miti sovrapposti e spesso confusi tra loro.

L’Iliade è diventata dunque la storia di tutte le guerre, sì, ma cucita e tramandata attraverso la parola femminile

 Andrea Marcolongo, LA STAMPA

Halloween non è poi proprio una novità … altri tempi, scopi diversi.

 

Il Giorno dei Morti

Fino al 1943, nella nottata che passava tra il primo e il due di novembre, ogni casa siciliana dove c’era un picciliddro si popolava di morti a lui familiari.

Non fantasmi col linzòlo bianco e con lo scrùscio di catene, si badi bene, non quelli che fanno spavento, ma tali e quali si vedevano nelle fotografie esposte in salotto, consunti, il mezzo sorriso d’occasione stampato sulla faccia, il vestito buono stirato a regola d’arte, non facevano nessuna differenza coi vivi. Noi nicareddri, prima di andarci a coricare, mettevamo sotto il letto un cesto di vimini (la grandezza variava a seconda dei soldi che c’erano in famiglia) che nottetempo i cari morti avrebbero riempito di dolci e di regali che avremmo trovato il 2 mattina, al risveglio.

Eccitati, sudatizzi, faticavamo a pigliare sonno: volevamo vederli, i nostri morti, mentre con passo leggero venivano al letto, ci facevano una carezza, si calavano a pigliare il cesto. Dopo un sonno agitato ci svegliavamo all’alba per andare alla cerca. Perché i morti avevano voglia di giocare con noi, di darci spasso, e perciò il cesto non lo rimettevano dove l’avevano trovato, ma andavano a nasconderlo accuratamente, bisognava cercarlo casa casa. Mai più riproverò il batticuore della trovatura quando sopra un armadio o darrè una porta scoprivo il cesto stracolmo. I giocattoli erano trenini di latta, automobiline di legno, bambole di pezza, cubi di legno che formavano paesaggi. Avevo 8 anni quando nonno Giuseppe, lungamente supplicato nelle mie preghiere, mi portò dall’aldilà il mitico Meccano e per la felicità mi scoppiò qualche linea di febbre.

I dolci erano quelli rituali, detti “dei morti”: marzapane modellato e dipinto da sembrare frutta, “rami di meli” fatti di farina e miele, “mustazzola” di vino cotto e altre delizie come viscotti regina, tetù, carcagnette. Non mancava mai il “pupo di zucchero” che in genere raffigurava un bersagliere e con la tromba in bocca o una coloratissima ballerina in un passo di danza.

A un certo momento della matinata, pettinati e col vestito in ordine, andavamo con la famiglia al camposanto a salutare e a ringraziare i morti. Per noi picciliddri era una festa, sciamavamo lungo i viottoli per incontrarci con gli amici, i compagni di scuola: «Che ti portarono quest’anno i morti?». Domanda che non facemmo a Tatuzzo Prestìa, che aveva la nostra età precisa, quel 2 novembre quando lo vedemmo ritto e composto davanti alla tomba di suo padre, scomparso l’anno prima, mentre reggeva il manubrio di uno sparluccicante triciclo.

Insomma il 2 di novembre ricambiavamo la visita che i morti ci avevano fatto il giorno avanti: non era un rito, ma un’affettuosa consuetudine. Poi, nel 1943, con i soldati americani arrivò macari l’albero di Natale e lentamente, anno appresso anno, i morti persero la strada che li portava nelle case dove li aspettavano, felici e svegli fino allo spàsimo, i figli o i figli dei figli. Peccato. Avevamo perduto la possibilità di toccare con mano, materialmente, quel filo che lega la nostra storia personale a quella di chi ci aveva preceduto e “stampato”, come in questi ultimi anni ci hanno spiegato gli scienziati. Mentre oggi quel filo lo si può indovinare solo attraverso un microscopio fantascientifico. E così diventiamo più poveri: Montaigne ha scritto che la meditazione sulla morte è meditazione sulla libertà, perché chi ha appreso a morire ha disimparato a servire.

Andrea Camilleri, dai Racconti quotidiani.

 

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