Si riparte dall’amore…

L’Amore necessario è il mio nuovo saggio appena uscito da Marsilio dedicato alla forza che anima la vita e muove il mondo. Non è un saggio sull’amore romantico, sulla coppia, sull’eros ma un viaggio nelle varie forme dell’amore che coinvolgono corpi, anime e menti e muovono uomini, animali e forze della natura. C’è l’amore degli amanti e l’amor famigliare, l’amore della vita e l’amore del mondo, c’è l’amor patrio e l’amore del destino, l’amor di Dio e della verità.
Nonostante la retorica pervasiva sull’amore c’è scarso amore nel mondo e nel nostro tempo. E’ largo l’abuso corrente di richiami all’amore, alle sue estensioni e ai suoi nomignoli correnti: diventa intercalare universale, anche in forma contratta, per rivolgersi pure ad amici occasionali, animali e avventori di prostitute. Quando tutto è chiamato amore, l’amore perde senso e profondità; come accade con l’amore per l’umanità. Se l’amore si fa generico, smette di essere amore. Tutti fratelli, nessun fratello.
L’amore comporta dedizione e predilezione, gioia, sacrificio, attenzione al mondo e agli altri; e tutto ciò difetta nella nostra epoca. Viviamo in un mondo disamorato che pure professa amore universale, a partire dai remoti e dagli ignoti; ama gli animali, le piante e il pianeta; vagheggia amori nomadi di passaggio o dipendenze travestite d’amore e proclama l’amore libero, senza limiti, fluido, senza vincoli di tempo, di natura, di sesso e di famiglia. Ma l’amore non è libero, perché la sua legge elementare è il vincolo, spontaneo e inevitabile. Può liberare, l’amore, ma in sé non è libero: è necessario, invece. E dicendo che l’Amore è necessario non si sminuisce l’amore, non lo si confonde con un bisogno impellente ma se ne coglie l’incomparabile grandezza, la sua centralità insostituibile nella vita, la sua prossimità col destino. L’amore libero passa, soggetto ai desideri volubili; l’amore necessario resta perché riguarda l’essere prima del volere; è il fondamento del mondo e la più alta motivazione del nostro essere al mondo. Senza amore si prospetta un futuro da tecnobestie artificiali. L’amore garantisce la nostra umanità. Viviamo la perdita d’amore; avviene con una rapidità che non lascia il tempo di sconcertarsi, tanto è repentina, automatica e inconsapevole l’accelerazione.  Stanchi dell’uomo, gli umani inclinano verso il vegetale, l’animale, il silice, l’artificiale. Una specie d’amore è rivolto al clima e all’aria o al pianeta, o al cane, al gatto, all’orso, allo smartphone, agli accessori o al robottino; l’umano è d’ostacolo, fastidio o residuo tossico, di cui prima o poi, finalmente, il pianeta si libererà. E tireremo un sospiro di sollievo. Da morti.  Cosa sostituisce questo collasso progressivo dell’amore? Quali sono cioè gli amori surrogati che prendono il suo posto? Gli amori superstiti oggi vigenti sono di tre tipi: l’eccessivo amor di sé, egocentrico e autoreferenziale; un vago amore dell’umanità, come una remota, astratta platea globale; un surreale amore per ciò che non c’è, il virtuale o è frutto mentale dei desideri. Tre tipi d’amore – introflesso, generico o irreale – che sorgono dal disamore profondo e radicale. Si perde l’amor concreto dell’altro, l’amore aperto verso l’alto e l’amore per la realtà vivente. Tutto alla fine ruota intorno a una sorta di egoarchia universale e circolare: Io amo Io.  L’Amore necessario affronta le nove forme, anzi i nove gradi dell’Amore, in rapporto con la vita, con chi ami, con la famiglia, col mondo, con la sapienza, e poi l’amor patrio (e familiare), l’amore del fato, l’amor di Dio e l’amor di verità. C’è anche le breve storia dell’amore nel mito e nella filosofia, tornando a Platone che fondò il pensiero dell’amore; per concludere con l’amore della verità, connubio difficile perché l’amore spesso non ama la verità o non la dice; e la verità spesso ferisce e delude l’amore. Al termine della visita ai nove gradi dell’amore, parte una gita fuori porta nel tempo presente per scoprire che l’amore è unico argine e la sola risposta umana al dominio dell’Intelligenza Artificiale: l’amore è un’energia, una molla, uno slancio che non potrà mai scaturire da un essere artificiale. E’ l’amore che lo aziona.  Insomma, l’amore è il necessario punto di partenza, nascita e rinascita, per ricominciare a vivere e pensare.
Però se dici amore, la prima immagine che ti compare è lei, la persona amata. Prima di declinare le mille forme dell’amore, la più ricorrente, sulla bocca di tutti, in forma di parola e bacio, è l’amor di coppia. Poi l’amore si allarga a quelli che vanno sotto il genere di affetti o di passioni. Ma il primo tu è la persona amata che ti infiammò d’amore e che reputi insostituibile. Magari non è la stessa per sempre, perché l’amore non invecchia invece gli amanti e gli amori appassiscono. L’amore è oltre il tempo, gli amanti ne sono dentro, anche se al loro apice si percepiscono fuori, in un tempo sospeso.  Per amor tuo fu l’espressione chiave che aprì le porte dell’amore. Fu pronunciata in un mattino, riferita a minimi risvolti, lasciata cadere forse con studiata noncuranza. Ma portò presto lo scompiglio dell’amore. Irruppe l’ospite inquietante, in forma di voce, di parola; poi si fece corpo, abbraccio, amplesso, unione e passione. E di due vite ignare fece un fascio d’amore. Breve, intenso, indelebile ricordo. Dette fiato a una storia, suscitò energie che covavano sotto la brace spenta, alitò vita nei corpi, l’intrecciò a una sorte; poi svanì. Tutto si fece “per amor tuo”.
Non nominate l’amore invano, è come un dio, aspetta la chiamata, arriva e dispone di chi lo pronuncia e di chi ne è investito.

Marcello Veneziani 

Nausea da overdose di Sanremo…

Mi dice un amico: non vedrò il festival di Sanremo per nausea, come se l’avessi già visto, con tutte le anticipazioni e i programmi dedicati da mesi. In effetti arriviamo al fatidico Festival e non lo sopportiamo più dopo cento giorni di bombardamento televisivo quotidiano. Dovevano servire a promuovere l’evento e a generare l’attesa e invece hanno creato overdose, indigestione, intolleranza, rigetto verso Sanremo e la faccia, il becco, la voce di Amadeus. Poi magari i numeri ci saranno perché è ormai un riflesso condizionato e non vuoi sentirti escluso dalla festa ufficiale della nostra Repubblica; ma l’effetto nausea c’è tutto. Non c’era telegiornale della Rai che non avesse ogni giorno tra i titoli e poi in coda, un annuncio su Sanremo, un collegamento col solito Amadeus, che evoca Fiorello. E’ stato un vero e proprio stolkeraggio quotidiano, che ha superato ogni limite di sopportabilità e di decenza promozionale. Mille interviste su Sanremo e un solo concetto, una sola parola che tutti pronunciano nelle domande come nelle risposte: emozione. Ma che noia, ma che monotonia…A me Sanremo non fa né caldo né freddo, è un programma come altri che ha una sua storia e una sua ragion d’essere. Ma quando un evento d’intrattenimento, una gara canora diventa in assoluto l’evento più citato, più evocato, più annunciato della nostra vita pubblica, persino più della giornata della memoria, vuol dire che siamo in una fase patologica e in una distorsione della realtà e delle sue priorità. Affidare a Sanremo l’identità collettiva degli italiani, la festa nazionale più lunga, più larga, più sentita, nel senso di ascoltata, dell’anno, ha qualcosa di malato, di noioso, di banale, che ci squalifica agli occhi del mondo. E riduce uno dei popoli più creativi e vivaci del mondo, a figurare come uno dei più idioti e pappagalleschi…  Sanremo è diventata l’unica tradizione ancora vigente, difesa e promossa dalla “principale azienda culturale del Paese”, dalla radiotelevisione di Stato. Una somministrazione di massa con richiami all’inverosimile, un video-stupro del nostro senso critico. Sanremo è poi il coagulo di tutti i luoghi comuni, le tendenze, a partire dalle peggiori, i vizi e le storture del paese; i soliti messaggi politically correct, il solito woke, e tutte le menate ,sfuse e profuse lungo tutti i giorni, qui si concentrano e si danno appuntamento in riviera. Il nero, il migrante, il gay, la lesbica, la femminista e il femminicidio, il pacifista, tutto il presepe si ripete ogni anno, mutano solo i dosaggi e i testimonial, secondo il vento. Nessun governo osa interferire, può star lì Conte, Draghi o la Meloni, ma Amadeus e il suo minestrone (detto anche mainstream) non si discutono. Peraltro è un presentatore come tanti altri, non più bravo e nemmeno più autorevole di altri, come fu per anni Pippo Baudo. Ma sembra che non esistano altri in grado di condurre questa kermesse; la sua voce risuona di continuo sugli schermi e nei programmi tv… Perciò capisco l’obiezione di coscienza su Sanremo, la diserzione, il servizio civile alternativo, il cambio di programma, la fuga sui monti di Netflix o di altre reti, o meglio ancora la lettura di un bel libro, un bell’ascolto di altra musica, un film, un’opera teatrale o una conversazione tra amici e famigliari.  Sanremo è il nulla in abito da sera. Al di là delle solite polemiche “esantematiche” che come il morbillo e la varicella accompagnano e guarniscono da sempre Sanremo e servono a generare curiosità e finta animazione intorno all’evento, perché una fiera così trombona  ha una platea così larga e duratura? Vero è che la metà degli spettatori vede Sanremo per disprezzarlo, e dunque l’indice d’ascolto è ben altra cosa dall’indice di gradimento; ma un fenomeno pop, trash e pulp come il Festival non può essere ignorato. In Italia un fenomeno  dicesi popolare quando i suoi numeri sono pari ai voti della Dc di un tempo: ovvero quando sono oltre i dieci milioni. Anche la Dc era disprezzata ma poi la votavano.  Non è merito del modesto presentatore o delle stupide menate sul festival inclusivo e nemmeno dei pur bravi Fiorello, Incursori o Portatrici di Messaggio. Sanremo è una formula tautologica. Si vede Sanremo perché la domenica si fa la passeggiata al corso e in piazza, e non si può essere impreparati; se ne parla al telefono, rientra nei riti domestici, civici e tribali; vediamolo, sennò di che parliamo dal bar, a cena, al telefonino? E con il Sanremo parallelo che è sui social, c’è la possibilità di rendere interattivo e critico il festival: ciascuno fa il controcanto e il controsghignazzo in tempo reale. Ed è forse la cosa più spiritosa prodotta da Sanremo, contro Sanremo.  Ho però l’impressione che Sanremo non sia più l’autobiografia della nazione, come ai tempi del regno sa-Baudo, ma l’autopsia della nazione, questo cadavere sovrappeso che ci ostiniamo a chiamare Italia. Se proviamo l’arduo esercizio dello psicofestival, per capire le molle che spingono gli italiani a “guardare Sanremo” non basterà nemmeno dire che è la coazione a ripetere, lo specchio futile del futile presente, la civetteria del pettegolezzo collettivo, il voler far parte di un racconto collettivo, la mania d’inclusione nel dire c’ero anch’io… ma c’è qualcosa in più: Sanremo è il surrogato estremo di un’identità collettiva e di una tradizione perduta e smarrita. Non andiamo più a messa, non abbiamo più vive tradizioni domestiche, cittadine, patriottiche, religiose. E allora cerchiamo in Sanremo il fantoccio rassicurante delle cose durevoli. Un placebo, una canna del gas, un gioco illusionista. E un fuoco fatuo, molto fatuo…

Marcello Veneziani   

Partito Conformista Italiano

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Quale partito governa l’Italia? Il Partito Conformista Italiano, in sigla PCI. È un partito che travalica chi governa. E’ il partito che realmente determina l’agenda del Paese, il dibattito quotidiano, le priorità da affrontare; e che orienta chiunque abbia ruoli di potere, gestione e influenza nel nostro Paese. Il Partito Conformista Italiano esprime il Presidente della Repubblica che rappresenta il Pensiero Conforme a cui attenersi. Non esprime direttamente il Presidente del Consiglio, ma anch’egli, tecnico, politico o antripolitico, di sinistra, di centro o di destra si conforma coi suoi ministri agli indirizzi del Partito Conformista. Il PCI esercita il suo ruolo di guida soprattutto sul piano dell’informazione, della formazione e dell’istruzione degli italiani, con una spiccata propensione pedagogica e una tendenza ad ammaestrare i cittadini o a punirli e deplorarli se non si allineano. Trova terreno fertile in un Paese che da sempre va in soccorso del vincitore, si allinea, colpisce in branco chi esce dal coro.  Un tempo il Partito Conformista era d’estrazione clericale e moderata, perché presupponeva l’adesione a rituali e liturgie, a tradizioni e a retaggi di consuetudini e luoghi comuni da conservare; oggi, e non da oggi, è d’estrazione progressista e radicale, anche se resta a suo modo clericale, ma separato da ogni fede religiosa. L’egemonia del Partito Conformista, lo aveva intuito negli anni cinquanta un pensatore libero e non certo di destra come Albert Camus, è nelle mani della sinistra. In uno scritto del 1957, Il socialismo delle potenze, apparso in Italia su Tempo presente, Camus scrive: “Il conformismo oggi è a sinistra, bisogna avere il coraggio di dirlo. E’ vero che la destra non brilla per perspicacia. Ma la sinistra è in piena decadenza, prigioniera delle parole, invischiata nel suo vocabolario, capace solo di risposte stereotipate, mai all’altezza della verità, dalla quale pure pretendono di trarre le proprie leggi. La sinistra è schizofrenica e deve curarsi, con la critica spietata, l’esercizio del cuore, il ragionamento deciso, e con un po’ di modestia”. Con Camus si scopre l’affiliazione del PC italiano al Partito Conformista Internazionale. Camus coglie i primi segnali del gergo politicamente corretto, l’irrigidimento della mente e del cuore, l’atrofia delle facoltà intellettuali e critiche e soprattutto la mancanza di modestia, ovvero “la boria antipatriottica e il complesso di superiorità verso il popolo” come li chiamava da noi negli stessi anni Giacomo Noventa: tipica di quella sinistra presuntuosa che si arroga il diritto di stabilire i confini tra il giusto e l’ingiusto, il progressivo e il regressivo, il bene e il male e di decidere i buoni e i cattivi. Camus notava poi nello stesso scritto che la verità non dipende dalla collocazione di chi sostiene una tesi, come ritiene il PCI, ma dall’autenticità nella ricerca del vero: “un giornale, un libro non sono veritieri perché rivoluzionari. Hanno una possibilità di essere rivoluzionari solo se cercano di dire la verità” (In lotta contro il destino, carteggio con Nicola Chiaromonte-Neri Pozza). Da noi la verità è collocata ai piedi del Partito Conformista, allocata a sinistra e paraggi conformi. E tutto ciò che vi si discosta è considerato erroneo, arretrato, oscurantista. Se non criminale. Il Partito Conformista Italiano esercita il suo potere all’ingrosso e al dettaglio. Il regime conformista si fa vistoso nell’informazione, nella cultura, nella rappresentazione, celebrazione e titolazione degli eventi. I festival ne sono le feste patronali, basta scorrere i nomi, le compagnie di giro (c’è magari l’eccezione al puro scopo di confermare la regola ferrea). I premi letterati fanno da contorno, sono un po’ le primarie del PCI.  I premi importanti sono presidiati da editori, politici, intellettuali rigorosamente di parrocchia…che premiano esponenti e propagandisti del Partito Conformista Italiano. Sono divertenti le varianti periferiche e secondarie. Ve ne cito una pittoresca, a mo’ d’esempio, un piccolo espediente furbo del conformismo provinciale: premi letterari davvero minori vanno assegnati a firme dei principali quotidiani per ricevere in cambio la notizia del premio in bella evidenza. E’ la notizia a dare prestigio al premio, un circolo vizioso. La qualità del premiato? Chi se ne frega. Lo stesso criterio è esteso ai festival e alle rassegne: entrare nel circuito mafioso di invitare uno di cosa nostra per trovarsi citati… Gli affiliati si riconoscono tra loro come i cani, si odorano il posteriore, luogo elettivo dove esercitano la loro disponibilità, occupano le poltrone ed esprimono la loro attitudine: il cosiddetto paraculismo…Effetto diretto della dominazione del Partito Conformista Italiano è l’incapacità di selezionare una classe dirigente e l’assenza di meritocrazia nella vita pubblica, nella scuola, nei concorsi, ovunque. Insomma il PCI esprime il totalitarismo mammone e mellifluo che deborda nel nostro Paese. L’esempio primo e pessimo lo dà proprio la cultura, con annessi l’arte e lo spettacolo, che pure dovrebbero essere il riferimento in senso contrario. Tra maneggioni e conventicole, cosche spontanee e famiglie organizzate, grazie al PCI prevalgono le mafie del passaparola o del passasilenzio, del riconoscimento e dell’esclusione. Può sopravvivere uno scrittore o un artista, senza premi né riconoscimenti d’altro tipo, senza recensioni e senza accademia? La cattedra è il suo pane, l’attenzione della critica è il suo companatico, il riconoscimento è la sua acqua. Cosa resta di lui in mancanza di tutto questo? Resta solo quel che vale davvero.

da Panorama Marcello Veneziani

L’Occidente contro il resto del mondo…

Il mondo che lascerà Joe Biden al termine del suo mandato è una bomba a orologeria, un pianeta ulcerato ed esplosivo, a sud come a est, tra scenari di guerra e tensioni internazionali, dall’Ucraina alla Palestina, a tutto il Medio Oriente, alla Corea, alla Cina. E dall’Onu alla Corte dell’Aia. L’odio verso l’Occidente è cresciuto nel mondo, i desideri di vendetta e di rivalsa covano in molti focolai e la pace mondiale è oggi come in pochissime altre fasi precedenti negli ultimi 80 anni messa davvero a rischio. Il mondo che aveva lasciato Donald Trump nel 2020, pur assediato dalla pandemia, era meno compromesso, non c’erano conflitti e tensioni, guerre virali in corso, col rischio di propagarsi anche da noi. Trump lo spaccone, Trump lo sbruffone non aveva fatto guerre da nessuna parte, ed era riuscito pure a sedare alcune situazioni di pericolo, come quella con la Corea di Kim. Non c’erano rischi speciali, con l’Islam, la Russia e la Cina. Ma la menzogna mediatica dell’Occidente fa passare Biden (col suo mondo dem) per un pacifista umanitario e Trump per un guerrafondaio pazzo. E ci dicono di temere il futuro in mano a Trump, che abbiamo già peraltro testato nel precedente mandato, quando dovremmo piuttosto temere il presente ancora in mano a Biden (o alla sua cerchia). Al di là di quel che succederà alla Casa Bianca, occorre una riflessione realistica sullo stato delle cose presenti e sui rischi che stiamo correndo in base ad alcuni pregiudizi, alcune preclusioni che non vogliamo superare. Per risvegliarci dal nostro sonno occidentale, è necessario innanzitutto partire da una considerazione: l’Occidente non è il mondo, ma una porzione sempre più ristretta del pianeta e sempre più divergente. Anzi l’Occidente patisce oggi una paradossale, doppia incongruenza, per eccesso e per difetto: è una realtà troppo ristretta per coincidere con la società planetaria e i suoi parametri globali; ma al contempo l’Occidente è un’entità troppo vasta che assembla mondi distinti e spesso divergenti. Dire Occidente, infatti, significa accorpare in una sola dimensione il mondo statunitense e canadese, il subcontinente latino-americano e l’Europa intera, dall’Atlantico agli Urali. Non sono la stessa cosa, non hanno comuni interessi vitali, strategici, economici e geopolitici. La reductio occidentale presuppone in realtà l’egemonia americana, la subalternità europea e la sudditanza sudamericana. Aveva una residua validità il rifermento all’Occidente quando indicava la civiltà cristiana, pur nelle sue diverse accezioni e derivazioni secolari, ben sapendo che esisteva anche un cristianesimo orientale, russo-bizantino; il cristianesimo era il filo d’Arianna che accomunava i tre Occidenti e alcuni paesi sparsi nel mondo. Ma oggi che il riferimento religioso appare assai meno pregnante e influente, anzi si è fatto marginale e viene sempre più emarginato, cos’è l’Occidente? Individuo, libertà e democrazia, si potrebbe forse rispondere, o tecnologia, capitale privato e mercato; ma non sono più tratti specifici ed esclusivi dell’Occidente e non appaiono più vincenti nella forma occidentale. A lungo l’Occidente è stato un tempo più che un luogo: il tempo della modernità rispetto al resto del mondo che pareva arretrato, ma oggi non è più così. A ciò si aggiunge il calo demografico che investe l’Europa e il nord America. Anche dal punto di vista demografico, la Cina, l’India o l’Islam sono universi più popolosi dell’occidente euro-atlantico o riferito ai paesi del G7, che includono pure il Giappone. Al tempo stesso, come hanno dimostrato anche le più recenti situazioni conflittuali, da quella russo-ucraina a quella israeliano-palestinese, la posizione dell’Occidente è minoritaria rispetto al resto del mondo, alla divergente valutazione di quegli eventi che ne danno Cina, Russia, India, Brasile, Africa e Sudafrica, paesi islamici e paesi non allineati. La distinzione tra il giusto e l’ingiusto, il bene e il male, secondo il metro occidentale, non risponde affatto all’unità di misura del resto del mondo. Bisogna prenderne atto. Nè possiamo imporre la nostra intermittenza etica nel giudicare le catastrofi umanitarie, i genocidi, i massacri delle popolazioni civili e i crimini contro l’umanità. Il resto del mondo non condivide, non comprende i nostri criteri e i nostri manicheismi. Il caso palestinese come il caso ucraino lo dimostrano. Che senso ha persistere in questa cecità e auto-sopravvalutazione e considerare ancora gli Usa i gendarmi del mondo e l’Occidente il paradigma del pianeta? Perché non accettare realisticamente la situazione effettiva e trarne coerentemente le conseguenze? E’ tempo di lavorare per un mondo multipolare, smobilitando le pretese egemoniche dell’Occidente; anzi rimettendo in discussione l’idea stessa di Occidente. Un conto è difendere la nostra civiltà, un altro è illudersi di essere alla guida del mondo; ed invece, da quel punto di vista, il peggior nemico della civiltà occidentale è l’Occidente stesso, in preda al delirio woke, alla cancel culture, al politically correct, al processo permanente contro la sua stessa civiltà, le sue derivazioni e le sue matrici. Anche l’Oriente assomma in realtà mondi assai diversi, irriducibili tra loro per storia, caratteri, religione, cultura. Si può davvero mettere sotto una stessa categoria spaziale, storica e geopolitica l’Islam, la Russia, la Cina, l’India, il Giappone e via dicendo? E l’Africa a quale emisfero apparterrebbe? La diade Oriente-Occidente non è un indicativo spartiacque più di quello tra Nord e Sud del pianeta. Insomma, da qualunque parte lo si osservi, non resta che oltrepassare l’Occidente. Era il futuro per il resto del mondo ma oggi è stato scavalcato da più ardite tigri della tecnologia e del commercio globale. L’Occidente oggi è il vecchio, senza essere l’antico; è il passato, senza essere l’origine. Indica il luogo e soprattutto il tempo del tramonto. A ovest si fa sera, e si teme la notte. Non resta che andare oltre l’Occidente, pur restando italiani, mediterranei, europei.

Marcello Veneziani                                                                                                                        

2024, fuga dalla politica e dai giornali…

Qual è l’effetto Meloni sulla diffusione della stampa in Italia? Una vecchia tendenza dell’informazione di solito premiava in modo particolare i giornali all’opposizione dei governi in carica. E’ più facile e più esaltante fare un giornalismo contro; fa più notizia, capitalizza la critica permanente verso il potere. Stavolta invece il calo è generale e si accanisce con i giornali più ostili al governo Meloni. Ma c’è da aggiungere in tutta onestà che il calo dei lettori non risparmia nemmeno i giornali che sostengono il governo Meloni.  Come leggere allora questa flessione ulteriore e trasversale nelle edicole? Si potrebbe spiegare, al di là degli umori e delle opinioni politiche, con la marcia irreversibile verso il tramonto della stampa, a partire da quella cartacea (l’informazione sul web si difende), che coincide con la sostituzione anagrafica degli anziani con le giovani generazioni, refrattarie alla lettura dei quotidiani acquistati nelle edicole. Ma è una spiegazione solo in parte vera.  Se vogliamo dare una chiave di lettura “politica” di quel che succede dobbiamo piuttosto considerare una mutazione “atmosferica” in atto nel nostro paese: dopo la partecipazione attiva alle vicende politiche, all’indomani del covid e con le ultime elezioni politiche, che sancirono la svolta netta verso un governo di destra, premiando l’unico partito d’opposizione che c’era in quel momento, è sopraggiunto nei mesi il torpore, un certo disincanto e un crescente disinteresse, come se si fosse entrati in una specie di stallo generale.  Non è dunque una perdita di fiducia nei confronti della Meloni e nemmeno del suo governo, che pure non suscita entusiasmi almeno a leggere i sondaggi; quanto una sorta di disilluso consenso o un tacito assenso al governo, ma senza adesione attiva e positiva, come un accettare la situazione esistente perché non si intravedono alternative né vie d’uscita. E’ come se l’orizzonte di aspettativa si fosse ristretto, ci si rende conto che i margini e gli argini di manovra consentiti al governo sono in effetti molto ridotti rispetto all’unione europea, alla Nato e al sistema delle alleanze, dei vincoli e delle pressioni internazionali. E dunque, pur senza passare al dissenso o al Partito degli Scontenti, la maggioranza del nostro paese è per così dire in sonno o in stand by, parla meno di politica e meno è interessata a sentirne parlare. Di conseguenza legge meno i giornali che hanno comunque ancora una prima motivazione politica, polemica e civile che ora pare sopita.  Il discorso naturalmente non riguarda solo la Meloni ma si estende alla politica in generale; anzi bisogna dire che la “fortuna” della Meloni, che spiega in parte la persistenza del suo alto consenso nel paese, è il paragone vincente con i suoi avversari (e anche, vorrei aggiungere, con i suoi competitori interni o alleati). Obiettivamente Elly Schlein è una polizza per la Meloni, ma anche Giuseppe Conte, che pure si sta muovendo meglio della segretaria del Pd, non riesce a catalizzare grandi consensi. Dall’altro versante Salvini e Tajani non destano particolari preoccupazioni per la Meloni. Che se vogliamo, è più impensierita da eventuali fattori esterni, come per esempio la discesa in campo del generale Roberto Vannacci, piuttosto che dagli altri alleati e concorrenti.  Negli ultimi tempi la Meloni ha ulteriormente personalizzato la sua leadership; si fida sempre meno di chi le sta attorno. Ma sul disincanto verso la Meloni e sull’ulteriore ondata di disaffezione verso l’informazione, non solo scritta ma anche televisiva, contano anche le vicende recenti. Per esempio quel che sta succedendo dal 7 ottobre a Gaza. A un bestiale massacro compiuto da Hamas è seguito ed è ancora in corso da più di cento giorni un genocidio della popolazione palestinese, tra migliaia di morti, di feriti e quasi due milioni di sfollati. L’intenzione di eliminare e non solo sconfiggere  Hamas, è comprensibile e legittima, ma considerare migliaia di bambini, donne e vecchi palestinesi come puri ingombri da eliminare o da sgombrare pur di bruciare il terreno intorno ai terroristi di Hamas non può essere accettato dalla pubblica opinione e dalla ipersensibilità a lungo alimentata per quanto riguardava l’Ucraina e altre tragedie umanitarie. Non si può improvvisamente silenziare o sottorappresentare  quel che sta avvenendo. Nessuno mette in discussione  la rabbia e il dolore di Israele, il diritto alla sua esistenza e incolumità e l’oggettiva ostilità che lo circonda da cui deve difendersi; ma non si possono nemmeno tacere le catastrofi umanitarie in corso, dopo averne enfatizzate altre.  L’opinione anti-establishment è ormai molto forte in Occidente, dopo la vicenda del Covid, la guerra russo-ucraina e le posizioni della Ue, della Nato e degli Stati Uniti; lo dimostrano, tra l’altro, i successi tornanti di Donald Trump e di Marine Le Pen, come lo aveva dimostrato lo stesso successo della Meloni in Italia. E i dubbi assai diffusi che quest’Occidente, e l’Amministrazione Biden in particolare, stiano gestendo male questa situazione internazionale, facendosi tanti nemici e aprendo fronti di conflitto un po’ ovunque, acuiscono questo disagio. Ma di tutto questo c’è scarsa traccia nei regni dell’informazione occidentale, da destra a sinistra. Da qui la tendenza a disertare la piazza dell’informazione, a darsi alla macchia nella prateria dei social, a scomparire dai radar della pubblica opinione e a rifugiarsi ancor più nella dimensione privata e individuale.

Marcello Veneziani

Quando il cinema ti riporta alla vita…

 

 

Buone notizie dal cinema. Non ci sono solo i prodotti stucchevoli del rococò woke, i film prigionieri nella trama e nelle immagini del modelli prefabbricati che sai già come si svolgono prima di entrare in sala, a colpi di gender, femministe, migranti, neri, green, nazifascisti, eterne vittime, eterni colpevoli, il Bene e il Male, il progresso e la reazione. C’è anche altro nell’umanità, nella vita, nel mondo. E ci sono film di qualità che riescono a parlare alla tua mente e al tuo cuore, che arrivano perfino a commuoverti, e comunque ti chiamano dentro le loro trame, e raccontano la realtà senza partito preso.

Ho visto tre film diversissimi tra loro che in modo diverso ti lasciano qualcosa. Non sono film storici sul passato o di fantasia, ma sono sull’oggi. L’uno è di un collaudato regista italiano, figlio d’arte di un grande regista, rimasto nella storia del cinema; l’altro di un giovane, ambizioso regista, anche lui figlio d’arte, che con l’insolenza egocentrica dei ragazzi fa pure il protagonista del suo film; il terzo è di un grande regista tedesco, maestro del cinema europeo, anche se in questo caso in versione orientale. Il primo film è fatto di senilità, morte e rinascita, in un microcosmo separato dal mondo, in attesa collettiva di chiamata all’altro mondo; il secondo è fatto di grida, violenze e spaccio nel cuore marcio della Capitale; il terzo è fatto di luce, silenzi e fogliame pur in una pulsante metropoli di masse, traffico e cemento.

Il primo descrive il tenerissimo rapporto che sorge tra due ragazzi spacciatori e consumatori di droga che devono scontare la loro pena in una Rsa e i vecchi ospiti della medesima; il secondo si agita nel cupio dissolvi di chi vive al massimo, tra ricchezze sfrenate, vite sfasciate e desideri insaziati. Il terzo contempla il mondo, la vita, nei suoi minimi particolari, e vive dimesso e appartato nelle periferie di una metropoli d’oriente, in una decorosa povertà vissuta con gratitudine.

Il primo mostra come l’umanità sia capace di miracoli, può cambiare pur partendo dal peggio o nell’estremo lembo della sua vita, se presta attenzione e ascolto alla vita degli altri e può trovare affetti e premure anche laddove sembra impossibile, e da chi non avresti mai detto. Il secondo descrive gli spasmi di una vita gaudente e insensata, in una Roma degradata, che ha smesso pure di divertirsi, una specie di Grande Bellezza versione juniores, tra citazioni famose di altri filoni e un po’ di narcisismo malato. Il terzo, invece, descrive la bellezza poetica della vita minima in Tokio, che si accontenta e sorride al corso dei giorni, alla loro ripetizione, ai dettagli, al lavoro ritenuto più umiliante – pulire i cessi pubblici (che a Tokio sono bellissimi e vari mentre a Roma, la città di Vespasiano, erano immondi e sono spariti).

Sono tre film diversissimi, tre registi imparagonabili tra loro, tre storie che ti lasciano in bocca sapori diversi, teneri, amari e sereni: il primo è pensato nel nome del padre, ti riporta ai cari perduti, alle tenerezze dell’estrema vecchiaia e alle esplosioni improvvise d’euforia sul finire della vita al tempo in cui si era bambini, ragazzi, spensierati e danzanti, giocosi e intemerati con la neve.

Il secondo invece ti lascia turbato, proiettato com’è nel miraggio di vivere niccianamente al di là del bene e del male: ma al di là del bene e del male non c’è nulla anzi c’è solo il Nulla, che è il nemico del bene e la placenta del male. Il terzo, infine, ti lascia il gusto, la bellezza di essere al mondo se fai con scrupolo e passione la tua piccola parte; amare il proprio destino, anche il più umile, vivere serenamente nei giorni che si ripetono uguali, dove perfino la monotonia è una benedizione rassicurante della vita che promette solo se stessa, il suo svolgersi quotidiano, perché “adesso è adesso”.

Sto parlando de Il punto di rugiada di Marco Risi, figlio di Dino, Enea di Pietro Castellitto (con un magnifico Sergio in scena nel ruolo reale di padre) e Perfect days di Wim Wenders. Come vedete, non hanno nulla che li accomuni, e gli amanti di uno di questi film resteranno sconcertati, se non indignati, per l’accostamento agli altri due. Il primo è incentrato sui vecchi di una casa di riposo, il secondo sui ragazzi della Roma bene che bazzica la mala e il terzo sulla solitudine serena di un lavoratore avanti negli anni che vive la linea dei giorni come tanti cerchi perfetti. Non sto facendo paragoni, lo ripeto, né pretendo di scovare affinità tra questi film; sto dicendo che nella loro diversità rappresentano finalmente la realtà, senza griglie o paraocchi ideologici, scavano nella nostra interiorità e nei nostri giorni, e ti lasciano in fondo qualcosa. Parlano della nostra vita con gli occhi della vita. Non faccio classifiche, non esprimo giudizi perché i tre film in questione sono diseguali sotto tutti i punti di vista: si potrebbe dire hegelianamente che il primo rappresenta la tesi, il secondo l’antitesi o l’uscita da sé e il terzo la sintesi o il ritorno ma i tre film ti fanno vedere la realtà, ti fanno pensare nella realtà. Non ti donano altro che lo sguardo sulla realtà in corso d’opera.

I tre film ci riportano al crocevia delle nostre vite, dove confluiscono strade diverse, persone diverse e veicoli diversi. Ma insieme costituiscono la nostra vita, da giovani, da vecchi, da solitari, dentro e fuori dal mondo, o ai suoi margini periferici.

Il racconto della vita è essenziale alla vita stessa, laddove la fiction si fa più vera della realtà, e non c’è vita degli altri che non sia anche un po’ vita nostra, giacché siamo consorti e connessi, assai più di quanto il web possa dire. Tutto questo, in breve, si chiama umanità.

Marcello Veneziani 

L’impossibile famiglia queer…

Michela Murgia aveva talento, carattere e ispida umanità. Agli antipodi dal suo modo di pensare, di vedere e di sentire, riconosco la passione civile che ci metteva nelle sue battaglie. Poi era insopportabile la sua intolleranza verso chi non la pensava come lei e che lei riduceva a fascista. Il suo ultimo libro postumo, Dare la vita (ed. Rizzoli) è un appassionato inventario della sua vita e delle sue idee. La bestia nera del suo libro è la famiglia naturale, che reputa “la cosa più fascista che esista” perché la riproduzione è “un fatto di sangue nel sangue”. In realtà la Murgia dà del fascista alla natura, al cammino dell’umanità dall’inizio a oggi e alla riproduzione di ogni specie.
Alla riproduzione secondo natura, come sempre è accaduto, lei oppone i figli per scelta reciproca, frutto di amore libero, volontà e nessun “destino genetico”.  Non si limita a rivendicare la libertà di vivere come crede, ma condanna i “genitori biologici” perché esercitano a suo dire un potere inscritto nella famiglia nucleare o tradizionale: “il potere di controllare le figlie e i figli col proprio denaro, coltivando anche inconsciamente il loro senso di dipendenza”. Quel che Murgia chiama potere, controllo e dipendenza è in realtà la legge antica e naturale della cura, della premura, dell’affetto per i propri figli, che precede ogni questione economica e ogni prevaricazione. Ed è una legge reciproca d’amore, finalizzata al bene di chi ami. Poi ci sono le eccezioni, le incomprensioni, gli abusi e le violenze; ma non possiamo condannare l’amore nella generalità delle situazioni solo perché in alcuni casi qualcuno ne abusa. Come sempre succede nell’ideologia radical si solleva l’eccezione per colpire la regola, si enfatizza il caso per criminalizzare il vivere comune e le leggi naturali e universali di sempre. E’ come se condannassimo le storie d’amore solo perché ci sono i femminicidi. Questi sono centinaia ogni anno, quelli sono migliaia, milioni negli anni.
La figura chiave per la Murgia è la Queer: “è la scelta di abitare sulla soglia delle identità (intesa come maschera e rivelazione di sé), accettando di esprimere di volta in volta quella che si desidera e che promette di condurre alla più autentica felicità relazionale”. La queerness è “una scelta radicale di transizione permanente”: oggi mi sento maschio, domani femmina, poi chissà. La realtà, la natura, il corpo si riducono a mio desiderio volubile e così i miei partner. Io sono ciò che desidero essere al momento. Pensate che si possa costruire su queste basi una società? Pensate che possa avere un futuro durevole? I desideri sono soggettivi e volubili; e come si riproduce una società del genere, se rinuncia alla biologia? La famiglia verticale, da genitori a figli non può essere sostituita dalla famiglia orizzontale dove si decide liberamente di essere madri e figli, a tempo e in geometria variabile. Si deve allora ricorrere agli uteri in affitto, alle gravidanze altrui, quelle che Murgia chiama gestazione per altre (con la e rovesciata in senso di fluidità sessuale). Ma chi fa figli in questo modo, di solito, non li desidera ma per li fa per bisogno, cioè per soldi, su commissione; dietro le unioni fondate sul desiderio ci sono maternità coatte, indesiderate, schiavizzate, di chi vende i propri figli. La Murgia riconosce che l’aborto come la gestazione per conto terzi sono “due espressioni di arbitrio assoluto sulla vita nascente”, ovvero usano il nascituro come strumento dei propri desideri. Così fallisce la famiglia elettiva fondata sul desiderio volubile.
Eppure è bella la definizione di “figli d’anima” riferita a chi è figlio/madre per scelta, senza passare dalla procreazione e senza vincoli di sangue. Ci sono sempre stati figli, padri o madri “d’anima”; si chiamavano allievi, discepoli, figliocci, adottivi o  “adelphi”. Si chiamava amicizia, affinità elettiva, rapporto tra maestro e apprendista. Bellissimi rapporti, confesso che mi mancano. Non sono rapporti sostitutivi di quello naturale tra genitori e figli ma ulteriori, integrativi, complementari. Magari a volte più pregnanti e intensi di quelli biologici. La follia è reputarli alternativi e considerare becero, primitivo, patriarcale, prevaricatore, fascista, il rapporto genitoriale e filiale secondo natura e tradizione. Abbiamo bisogno di una madre e di un padre, anche per criticarli; una famiglia ci vuole anche per andarsene via, potremmo dire parafrasando Pavese.
Al modello queer della Murgia opponiamo il modello patriarcale di una mente rivoluzionaria pensante che pure era ideologicamente contrario alla famiglia, alla sacra famiglia e alla famiglia borghese. E ben centocinquant’anni prima della Murgia.
Era un signore con la barba e la chioma bianca che fuori sognava il comunismo, le lotte operaie, la rivoluzione proletaria ma in casa era patriarca, regnante nella sua famiglia, amato e rispettato dalle figlie. Karl Marx era in tutto e per tutto “un patriarca”, come lo definì il compagno Kautskij in visita da lui, e “una figura paterna”. La famiglia ruotava intorno a lui, l’amatissima moglie, le amatissime figlie, la donna di servizio, i nipoti. Fu nonno premuroso, padre esemplare (nonostante alcuni figli illegittimi di gioventù), vedovo inconsolato, le sue figlie assecondavano i desideri del pater familias. Quando era lontano da casa, Karl sognava di avere “intorno a sé tutti i suoi cari, in particolare i nipotini”. I legami d’amore e di sangue non li rinnegava nemmeno Marx e non sostituiva i suoi affetti familiari con i “compagni”  e con l’amico Engels   .

Quando un ricco si fa qualche domanda…

La discendente del fondatore del colosso BASF Friedrich Engelhorn e attivista per i diritti sociali: «Non ho fatto nulla per meritarmi quella fortuna»

L’ereditiera Marlene Engelhorn ha deciso di donare tutta la sua fortuna a 50 sconosciuti selezionati a caso

L’ereditiera Marlene Engelhorn ha deciso di donare tutta la sua fortuna a 50 sconosciuti selezionati a caso

Con l’eredità ricevuta alla morte della nonna, morta nell’autunno del 2022, Marlene Engelhorn, austro-tedesca discendente del fondatore del colosso BASF Friedrich Engelhorn , è diventata multimilionaria. Già tre anni fa la trentunenne aveva annunciato di voler regalare gran parte del denaro che le sarebbe arrivato in eredità, ora è chiaro come avverrà la ridistribuzione della sua ricchezza: 50 persone selezionate a caso costituiranno un comitato democratico per decidere cosa fare dei 25 milioni . “Ho ereditato una fortuna – ha detto in un’intervista la Engelhorn che vive a Vienna – e con essa il potere di gestirla, senza aver fatto nulla per meritarmela, e per giunta esentasse”. In Austria, infatti, non esiste tassa di successione, è stata abolita nel 2008 e Marlene Engelhorn, che oltre che ereditiera è un’attivista per i diritti sociali, ha fondato insieme ad altri milionari politicamente di sinistra la rete internazionale «Millionairs for Humanity» che si impegna per garantire che la ricchezza ereditata sia distribuita equamente e tassata maggiormente. La ricchezza di Traudl Engelhorn-Vechiatto, la nonna di Marlene Engelhorn, da Forbes era stata stimata in 3,8 miliardi di euro, e già prima della sua morte la nipote aveva dichiarato di voler distribuire circa il 90% di quanto avrebbe ereditato. La settimana scorsa nelle cassette delle lettere di 10.000 austriaci scelti a caso, maggiori di 16 anni e residenti in tutti i Land del Paese alpino, è arrivato un invito a candidarsi per essere membri del comitato chiamato  “Buon Consiglio per la ridistribuzione” .Le candidature devono pervenire tramite registrazione online o per telefono, fornendo i dati anagrafici e un profilo di sé. Sulla base di questi feedback, l’istituto Foresight (ex Sora) guidato dal ricercatore in campo sociale Christoph Hofinger selezionerà 50 persone che rappresentano uno spaccato della popolazione austriaca, quindi: individui di ogni fascia d’età, provenienti da tutte le regioni del Paese, appartenenti a tutte le classi sociali e con ogni tipo di formazione culturale. Verranno selezionati anche 15 membri di riserva, nel caso qualcuno abbandonasse l’incarico. “Metterò il mio patrimonio a disposizione di queste 50 persone e darò loro la mia fiducia”, ha spiegato Engelhorn che non avrà diritto di veto sulle decisioni che verranno prese dal comitato. “Se i politici non fanno il loro lavoro e non si occupano di redistribuire la mia ricchezza -ha aggiunto- allora devo farlo io”. Per l’ereditiera è un “fallimento della politica” il fatto che molti cittadini austriaci riescano a malapena a sbarcare il lunario con un lavoro a tempo pieno e debbano pure pagare le tasse su ogni euro guadagnato. I 50 prescelti per il suo comitato decideranno dunque dove andranno i 25 milioni dell’eredità, ma dovranno anche sviluppare idee per la ridistribuzione della ricchezza in Austria e suggerire le modalità su come farlo. Prima, però, dovranno affrontare un periodo di formazione a Salisburgo con professori e ricercatori universitari e organizzazioni impegnate nei diritti civili. I corsi si terranno in primavera ,sei appuntamenti nei weekend che saranno organizzati in modo che non ci siano difficoltà per eventuali partecipanti con disabilità , e con assistenza a bambini e interpreti per chi ne avrà bisogno. E 1200 euro come rimborso spese per ogni fine settimana per persona.

Jeanne  Perego                                                                                                                     

Italia senza eroi…

Ma chi è il personaggio più amato in Italia, o per dir meglio chi è la figura non divisiva che piace agli italiani di ogni risma e di ogni fazione e riesce in qualche modo a unificarli e a suscitare cordiale convergenza?  La rassegna, per ragioni istituzionali, deve cominciare dal presidente della repubblica che per definizione è la figura istituzionale super partes, l’espressione dell’unità nazionale. Sergio Mattarella può essere considerato il personaggio più amato e meno divisivo d’Italia? Spiace dirlo ma non è così. Mezza Italia non lo ama, non lo sopporta e non lo considera affatto super partes; e non ama la sua storia, la sua biografia, la sua collocazione politica di provenienza da cui non si è mai discostato. Nonostante l’omaggio quotidiano dei media, i peana dei tg e le ovazioni a ogni sua partecipazione e a ogni sua anche banale esternazione, nonostante l’ossequio cerimonioso di tutte le forze politiche e delle istituzioni, Mattarella non unisce gli italiani, ma li divide. Troppe volte è apparso giocatore più che arbitro, alcune sue posizioni sui governi in carica e sulla magistratura, sulla storia del nostro paese e sulle posizioni assunte a livello internazionale, alcuni interventi su temi sensibili e questioni nazionali e civili, hanno spaccato i giudizi su di lui. Sul piano politico Mattarella piace a una parte degli elettori di centro, una parte dei 5Stelle, larga parte della sinistra; ma non piace agli elettori che hanno mandato al governo Giorgia Meloni e che sono la maggioranza del paese. Suppongo che la stessa cosa si debba dire della mezza Italia che non va a votare: penso che larga parte dei non votanti sia refrattaria a Mattarella o comunque non si senta rappresentata da lui. Per la ragione simmetrica, anche la Meloni è amata da coloro che l’hanno mandata al governo ma non dagli altri. Magari nel corso di quest’anno e poco più di governo avrà perduto la fiducia e la simpatia di una parte dei suoi elettori per il suo inevitabile cambio di passo e avrà conquistato in compenso una fetta di chi non l’ha votata. Resta una figura divisiva, come Mattarella: ma a differenza del Capo dello Stato, è normale che il Capo del governo sia una figura divisiva che non ha il consenso generale della popolazione.  Ma anche altre figure istituzionali sono divisive: lo sono i presidenti del Senato e della Camera, lo sono naturalmente i leader di partito, I commissari europei, i sindaci e i governatori, i magistrati.   Qualcuno dirà allora che figura ecumenica per definizione è il Papa, che dovrebbe rappresentare per il suo ruolo di paciere e di figura super partes, un riferimento universale, anche per i non credenti. E invece sappiamo bene che Bergoglio suscita reazioni contrapposte, divide gli stessi cattolici e credenti. Dichiarazioni di ostilità, di antipatia, di dissenso sono all’ordine del giorno nel suoi confronti. Non meno divisive sono alcune figure che pure vengono sbandierate come istituzionali, super partes; come per esempio Liliana Segre, che al di là della sua storia e delle sue stesse intenzioni, è comunque “usata” da alcuni media e da alcune forze politiche, “contro” qualcuno, definito a torto o ragione fascista e nazionalista. Grandi vecchi considerati super partes, non sono riconosciuti in questi momento in Italia. Nemmeno grandi artisti o grandi autori, presentatori o attori, figure pubbliche o influencer; quasi tutti sono considerati controversi, di parte, e comunque non amati da tutti. Taluni personaggi assurti nel 2023 a fama e primato,  come Paola Cortellesi al cinema e il generale Vannacci col suo libro “contro”, sono divisivi. Anche nel regno della tv, è difficile trovare personaggi che suscitino condivisione e simpatia universale; c’è chi ha un bacino anche largo di consenso ma senza suscitare simpatia trasversale, unanime e super partes. Bisognerà piuttosto accontentarsi di qualcuno che sia extra partes, non partigiano.   Alla fine dei conti chi suscita questa corrente di simpatia, pur nelle lievità del suo personaggio, è prima di tutti Fiorello. E’ lui il personaggio che unifica i versanti o meglio li attraversa con la sua leggera permeabilità, con la sua ironia e la sua satira che non ferisce mai nessuno, fuori da ogni schieramento. La bravura e la simpatia di Fiorello resistono nonostante l’abuso di Fiorello che viene fatto dalla Rai e da Amadeus in funzione della religione civile e istituzionale di Sanremo. Sulla stessa lunghezza d’onda si possono ritrovare altre figure non divisive nel regno dello spettacolo, come Renzo Arbore o Andrea Bocelli, comici come Nino Frassica o Checco Zalone, campioni sportivi (l’ultimo è Sinner).  Ma sconforta pensare che dobbiamo scendere al livello dell’intrattenimento, della tv leggera, giocosa, sportiva o simpaticamente cazzara per trovare figure non divisive del nostro Paese, ben accettate da tutti. Ci sono poi alcune icone del passato, e ci sono le vittime, anche recenti, di tragici fatti di cronaca, su cui anche volendo non ci si può dividere. Ma non ci sono figure morali, civili e intellettuali universalmente riconosciute, non ci sono santi, geni, eroi o maestri ritenuti tali da tutti sopra le parti. Italia senza eroi, titolava alla fine degli anni settanta, un saggio di Ludovico Garruccio (pseudonimo del diplomatico Incisa di Camerana), che occhieggiava nel titolo al Risorgimento senza eroi di Piero Gobetti. Quest’Italia senza eroi, maestri e riferimenti riconosciuti da tutti, la dice lunga sullo stato di salute mentale e morale del nostro Paese. Un paese diviso ma anemico, senza passioni civili e ideali.

Marcello Veneziani                                                                                                                  

Se la sinistra si riduce a commentare la destra…

La segretaria del Pd Elly Schlein

 E davvero non si comprende cosa ci sia da gioire (a sinistra) se Elly Schlein, già in discussione di suo, non si impone come “sfidante” per forza propria ma perché “scelta” nel ruolo dalla presidente del Consiglio. Che l’ha invitata a candidarsi alle Europee, l’ha sfidata al duello televisivo, le ha sostanzialmente proposto di polarizzare, da subito, la lunga campagna elettorale, ovvero i prossimi sei mesi di chiacchiere (sempre meglio che governare): «Ho detto tutto», direbbe Peppino a Totò, perché da che mondo è mondo uno non si sceglie i leader che lo impensieriscono, ma si impensierisce solo quando si sente realmente sfidato. E allora questo racconta la trovata. Di una leader, Giorgia Meloni, che, sebbene sia venuta fuori in questo anno in tutta la sua modestia – tra un’incurabile ossessione complottista e una classe dirigente impresentabile – non si sente realmente minacciata (politicamente). Nemmeno quando, a favor di curva, fa un po’ di scena. E in fondo la minaccia non c’è visto che dall’altra parte sono gioiosamente impegnati ad assecondare il suo gioco: sempre schiacciati nella quotidianità, sempre di rimessa, come se all’opposizione ci fossero dei commentatori delle sue gesta (per quanto discutibili). E, quando non c’è una cronaca da commentare, c’è il sempreverde fantasma di Orban. La fa pure apparire una gigante agli occhi di chi l’ha votata sognando il “castigamatti”, così non si parla degli sbarchi fuori controllo. E’ perfetto: Giorgia Meloni, protagonista assoluta del commentificio nazionale che finisce per esaltarne il ruolo oltre le capacità, sceglie, per essere commentata, Elly Schlein, fragile interprete di un minoritarismo di segno opposto che non esce dalle Ztl. E, a sua volta, grazie alla cattedra gentilmente concessale, la ri-commenta, indossando i suoi abiti preferiti di “opposizione dell’opposizione”. E la preferisce a Giuseppe Conte che risulta meno gestibile: lei populista (con l’impiccio del governo), lui “populista e mezzo” con le mani libere e l’elettorato più contiguo. Vuoi mettere il balbettio quasi imbarazzato del Pd sull’Ucraina con uno che, fregandosene di Putin, ti risponde “i soldi delle armi metteteli sulla sanità”. E vuoi mettere uno che sull’immigrazione ha fatto i decreti sicurezza rispetto all’ “accogliamoli tutti”. Dal suo punto di vista Conte quantomeno ci prova a proporre un’altra idea, discutibile o meno è altro discorso. Populista, ma fa i conti col popolo. Mentre il limite del Pd, tutto politico, è quello di non incarnare, nell’iniziativa concreta, un altro racconto (popolare) che vada oltre i confini dei “moralmente indignati”: si contestano le frasi della favola melonicentrica, falsa e tranquillizzante, senza però mai riuscire a cambiare terreno, dall’opinione alla realtà, rovesciandole addosso, ad esempio, la crisi sociale (in buona compagnia del sindacato e del suo autunno tiepido). E se si gioca tra influencer Giorgia Meloni è la più forte di tutti.

Alessandro De Angelis