Per chi tifa il Papa (e perché è importante)…

Ero davanti alla tv assieme a mio figlio e a mio padre, in attesa della fumata bianca.

Mio figlio stava facendo i compiti per arte/tecnologia, disegnava un albero. È da quel giorno che mi scervello su quale significato possa assumere la circostanza per la quale, mentre il mondo attendeva il nuovo pontefice, lui era indaffarato nel tratteggiare l’emblema della vita, un albero con le sue radici.

Invece di stare in camera sua era venuto in salotto, a portata di televisione, perché voleva partecipare a quell’attesa. I ragazzi la sentono, la vita, ma fanno finta di nulla, hanno già capito che il segreto della felicità è non dare nell’occhio.

La fumata bianca arriva e con essa il nome di Papa Leone XIV, «Robert Francis Prevost» scandisce la voce del commentatore mentre arriva sulla balconata.

In quel preciso istante il mondo si è diviso in due categorie; da un lato tutte le persone serie che hanno iniziato a compulsare google per saperne di più su questo cardinale poco «gettonato» nel toto Conclave. Tutti a ricostruire la sua vita, la sua formazione e l’influsso delle radici agostiniane.

Dall’altro lato del mondo, nella stanza dei cretini, c’ero io col mio inconfessabile segreto: «… è di Chicago – ripetevo fra me e me spulciando in rete – vediamo se tifa per i Cubs o i White Sox».

Facciamola corta, il fatto è che non riesco a farne a meno, ogni volta che qualcuno viene eletto ad una carica importante voglio sapere per chi tifa.

Ho sempre l’impressione che, in qualche modo, la squadra che tifi dica qualcosa di te, soprattutto di te bambino. E se dice qualcosa di te bambino dice la verità. È solo una teoria, devo lavorarci sopra, ma per esempio Papa Bergoglio era perfetto per amare il San Lorenzo a Buenos Aires, non il River, nemmeno il Boca, il San Lorenzo era il suo posto.

Abbiamo tutti un buon motivo per aver scelto la squadra del nostro cuore e lei ne ha uno per essersi fatta trovare. Un motivo nascosto nei vestiti di un padre, negli autobus con una nonna, nei sellini corti della bici di un amico o magari in una manciata di sguardi che (una volta seduti su quegli spalti) ci hanno fatto capire che non tifavamo quel club bensì eravamo quella cosa lì, quella gente; una «comunità di destino» direbbero quelli che sanno parlare.

Qual è quel motivo? Appena lo so ve lo dico.

Credete che sia pazzo, lo capisco, eppure mi sembra di vederli nei loro tinelli i tifosi dei Chicago Cubs (una delle due squadre di baseball di Chicago) anche loro, un pò come a casa mia, radunati davanti alla tv in attesa della fumata bianca. Mi sembra di sentirlo, quell’uomo di mezza età col telecomando in mano e le gambe allungate sul divano; «Vieni Jennifer – grida sgomento richiamando l’attenzione della moglie – hanno fatto un Papa dei White Sox…». (Ah giusto, avete ragione, quando devo ragionare dell’americano medio non so mai dargli un nome, per qualche misterioso motivo invece, nella mia testa, sua moglie si chiama sempre Jennifer. Certo, non è più una ragazzina ma i jeans le stanno ancora bene).

Il cardinale Robert Prevost è nato nei dintorni di Chicago e tifa White Sox. Crosstown Classic, The Windy City Showdown, Chicago Showdown, North–South Showdown, City Series, Crosstown Series, Crosstown Cup, o Crosstown Showdown sono solo alcune delle definizioni della rivalità che coinvolge le due squadre di baseball in città.

I White Sox sono generalmente collocati nella zona sud della città mentre i Cubs (forse in maggioranza) popolano la parte a nord. Volete un’idea che renda efficacemente il polso della loro rivalità? C’è una vecchia canzone dal titolo «The ballad of the south side irish» che dice: se si parla di baseball io tifo per due squadre, i White Sox e chiunque giochi contro i Cubs.

Entrambe le squadre hanno affondato il piede nell’immaginario collettivo di Hollywood, se è vero infatti che uno dei due protagonisti dei Blues Brothers (Elwood) usa l’esatto indirizzo di Wrigly Field, lo stadio dei Cubs (1060 West Addison) per falsificare la sua patente (come scopriranno i tragicomici nazisti dell’Illinois) è altrettanto vero che il cinema non si è scordato dei White Sox.

È toccato a Kevin Costner con «L’uomo dei sogni» reincontrare i protagonisti di una losca vicenda che ha riguardato i White Sox del 1919 e le World Series di quell’anno. Giocavano contro i Cincinnati Reds e passarono alla storia per lo scandalo che coinvolse otto giocatori di Chicago, sospesi a vita dopo che un tribunale stabilì che si erano accordati con due giocatori d’azzardo per perdere intenzionalmente la finale, dietro pagamento di compenso.

Una rivalità che, silenziosamente, ha riguardato anche la Casa Bianca; il presidente Obama infatti è un tifoso dei White Sox, mentre sua moglie Michelle segue i Cubs.

Una spaccatura che, allargando lo specchio alle cosiddette celebrità, vede da un lato (White Sox) simpatizzanti come lo stesso Obama appunto, e poi Michael Jordan, Jenny McCarthy, Snoop Doog, Lonzo Ball, Thomas Lennon ed altri, dall’altro lato (quello Cubs) fanno capolino volti come Bill Murray, Elizabeth Moss, Jim Belushi, Vince Vaughn, John Cusack, Eddie Vedder, Hillary Clinton, Billy Corgan e altri.

Due anime diverse, due storie diverse con alcuni snodi che però sembrano accomunarle. Per esempio le due squadre di Chicago sono entrambe segnate da un destino di lunghissima attesa, di gioie rimandate. Se è vero infatti che i Cubs hanno dovuto attendere ben 108 anni (dal 1908 al 2016) per vincere la loro ultima world series, anche i White Sox, in quanto a pazienza non scherzano. Sono 88 infatti le stagioni nelle quali hanno dovuto attendere il loro ultimo titolo nel 2005 (un’attesa che durava dal 1917).

Di quelle finali del 2005, fra White Sox e Houston, c’è una piccola clip, un video di dieci secondi, nel quale possiamo sentire quel misterioso ronzio del «motivo» di cui parlavamo prima, quella cosa che ti prende il cuore e gli dice questa è casa tua. E tu sei bambino fino alla fine.

A due strike di distanza dalla vittoria di gara 1 per la squadra di Chicago, la regia inquadra la tribuna coi tifosi dei White Sox in trepidante attesa. Un papà rassicura suo figlio piccolo, pietrificato dalla paura: “«due strike – gli dice – due strike e abbiamo vinto». Di fianco a quel bambino c’è un uomo di mezza età, anche lui col cuore in attesa e la speranza di rompere la maledizione dei White Sox.
A guardarlo sembrava un po’ solo ma quella sera è andato a casa felice.
Ecco qualcosa che si avvicina al misterioso motivo di cui parlavamo prima, un posto nel quale lui e altri sconosciuti temono e sperano la stessa cosa e non sono più soli.

Dimenticavo, quell’uomo oggi fa il Papa.

Cristiano  Governa

 

  Illustrazione di Salvatore Liberti

papa

Cuor di Leone.

 

Un giovedì da Leone. E così, a sorpresa, è stato eletto un papa americano; non un papa delle periferie, un papa asiatico o africano, cioè un rappresentante degli ultimi in ordine di tempo e di povertà; e non un papa italiano di quelli sostenuti dalle tifoserie nostrane, bergogliani e cattoprogressisti. Un papa americano, dunque, anzi statunitense, di Chicago persino, città che sembra essere agli antipodi della fede, con una fama di città dei gangster o capitale del maiale, come scriveva negli anni trenta Berto Ricci. Ma un papa franco-ispianico e un po’ italiano, dunque latino ed euroamericano. Chi vede l’Americano che si sceglie quel nome ruggente, lo immagina come il Leone della Metro Goldwin Mayer, un papa da film e da fiction holliwoodiana, ma deve ricredersi; due figure emergono dal suo esordio e dalla sua storia personale e che hanno ben altra storia: Sant’Agostino, Padre della Chiesa, Santo e Filosofo, e Maria, la Madonna di Pompei, a cui si è rivolto con devozione anche perché è stato eletto proprio nel giorno dedicato a lei (ovunque io fossi l’8 maggio, mia madre mi raccomandava di recitare la supplica alla Madonna di Pompei, a cui poi fui legato da qualcosa che mi segnò la vita).

Per cominciare, un Papa così non nasce nel segno di Bergoglio o di Trump. Molti indizi ce lo dicono. Nei due partiti veri o presunti della Chiesa, i conservatori e i progressisti, questo Papa non figura; dunque un papa mediano e di mediazione, un papa saggiamente scelto per non generare in partenza divisioni ed esclusioni.

Di lui possiamo raccontare oltre il passato, solo quei pochi minuti in cui è apparso affacciandosi su San Pietro e parlando ai fedeli, con un testo scritto. Dunque, per primo ha voluto chiamarsi Leone e la scelta dice moltissimo. Non solo e non tanto per i predecessori che ebbero quel nome, da san Leone Magno, che fermò i barbari e gli eretici, all’ultimo Leone XIII che fu gran papa e gran fautore, tra l’altro, della dottrina sociale della Chiesa; ma perché ha voluto attingere dalla tradizione della Chiesa e non dai nomi degli ultimi papi venuti dopo il Concilio Vaticano II. Se avesse voluto sottolineare la sua continuità onomastica con Bergoglio avrebbe dovuto chiamarsi Francesco II o Giovanni XXIV, come suggerì il papa argentino, pensando a Papa Roncalli e al Concilio Vaticano II. Ha invece voluto lanciare già nel nome un preciso messaggio: la mia Tradizione è la Chiesa e non la storia contemporanea, è la storia tutta della Chiesa e non solo il pur eccelso poverello d’Assisi. In secondo luogo ha voluto vestirsi da Santo Padre, ovvero come si vestivano i Papi e non come vestiva Bergoglio, ossia secondo liturgia e tradizione; dalla mozzetta di porpora alla stola con le immagini dei Santi Apostoli Pietro e Paolo, alla croce che è tornata a splendere perché aurea e non ferrea, come fu invece quella del suo predecessore. È un messaggio preciso di continuità con la tradizione millenaria della Chiesa, pur nelle sue evoluzioni. Oso pensare che la ritrosia di Bergoglio a usare i paramenti sacri e a risiedere in San Pietro sia dovuta anche alla compresenza di Papa Benedetto XVI (e tralascio le più spinose questioni di legittimità e simbologia).

Del resto invocare la continuità assoluta con Francesco era già una contraddizione in termini: se si apprezza di Francesco la sua discontinuità con i papi precedenti, non vedo perché non si debba apprezzare la stessa discontinuità del nuovo papa rispetto al suo predecessore. Ma il criterio va al di là della figura di Francesco, è una questione di principio, significa abbracciare la Santa Madre Chiesa e non le ultime novità e le ultime presenze. Nel festival di Sanremo a cui la tv riduce il totoPapa, nell’attesa della fumata bianca, abbiamo sentito la gente dire le solite banalità prefabbricate che le somministra la stessa televisione: speriamo che sia come Francesco, che faccia ponti non muri, sia inclusivo, accogliente, dialogante, ecologista, pacifista, innovatore in parole e opere, anzi in parolin e opere (una pupona col microfono dava voce in piazza a una discreta tifoseria o clacque). Ma, al di là delle idee di Bergoglio, la chiesa non può ridurre la sua tradizione al corto raggio del papa precedente, riducendo la tradizione al mese precedente; deve avere un respiro più ampio, sul piano storico e geografico.

A proposito del frasario obbligato che tutti auspicavano, vorrei ricordare che quando Leone XIV ha ripetuto la parola Pace si è riferito a Cristo Risorto e non ai pacifisti; quando si è rivolto al mondo intero non ha fatto la solita menata green; quando ha citato i ponti ha precisato che primo compito per un Pontefice, come non ci siamo stancati di scrivere prima della sua elezione, è costruire ponti tra l’umano e il divino, e non solo ponti tra popoli e migranti. Leone XIV è agostiniano, viene cioè dalla tradizione più antica dei Padri della Chiesa, la prima tradizione di pensiero cristiano che precede la Scolastica, che verrà poi con S.Tommaso d’Aquino. Agostino d’Ippona o di Tagaste, a cui si ispira l’ordine da cui proviene il nuovo Papa, fu dedito alla fede e all’interiorità, alla scoperta dell’anima, a S.Paolo e a Platone.

Naturalmente, è del tutto prematuro azzardare giudizi e previsioni.

Sottolineo solo una divergenza insorta di recente tra l’allora cardinale Prevost e il vice di Trump, il neo-cattolico Vance. Questi aveva detto che l’amore per l’umanità intera ha una naturale gerarchia: prima ami tua madre, i tuoi figli, chi ti è caro e vicino, quindi il tuo popolo, infine l’umanità intera. È una concezione che ripeto da tempo, e che considero naturale e umana: non puoi amare dello stesso amore la persona più cara che ti è accanto e lo straniero più remoto e sconosciuto. C’è una una predilezione che non ha nulla di esclusione o di discriminazione; anzi la parola stessa prossimo indica la prossimità come primo criterio. Il cardinal Prevost contestò questa concezione dicendo che l’amore non fa graduatorie, e in questo, lo riconosco, fu coerentemente cristiano, così come Vance era stato coerentemente umano. L’idealismo cristiano del prelato e il realismo naturale e affettivo di Vance. La tradizione cristiana comprende entrambi: Gesù Cristo predica la forza di distaccarsi dai propri affetti naturali, andare oltre la propria famiglia, amare il prossimo a partire dagli ultimi e da chi sta peggio. Ma la cristianità intera si è edificata poi realisticamente a immagine e somiglianza della Sacra Famiglia, ponendo l’unione familiare al centro dell’universo affettivo, religioso, educativo della cristianità.

Un giorno da leoni è troppo presto per capirne i prossimi cento, e mille e mille ancora. Ma il fatto che nessuna “fazione” abbia rivendicato il nuovo papa, il fatto che nelle sue parole si siano riconosciuti tutti o non si sia sentito respinto nessuno, è una incoraggiante premessa, dopo un papato divisivo. Sperando che il nuovo Papa abbia davvero un coraggio da Leone per attraversare l’epoca che ha voltato le spalle a Dio, alla fede, ai legami religiosi e familiari. Che Dio lo assista e il Santo Padre assista noi.

Marcello Veneziani

Il libro indispensabile di Rosa Matteucci.

“Cartagloria” è utilissimo per chi desidera conoscere qualcosa della messa in latino, per chi la frequenta e vorrebbe osservarsi dall’esterno, o per chi semplicemente è interessato alla lingua italiana. Ma anche per chi deve votare in un Conclave. L’autrice è coltissima, divertente e seria allo stesso tempo-

Libro indispensabile: 1) per chi non ha mai partecipato alla messa in latino e desidera saperne qualcosa; 2) per chi frequenta la messa in latino e vorrebbe, per una volta, osservarsi dall’esterno; 3) per chi non è minimamente interessato alla messa in latino ma è fortemente interessato alla lingua italiana. Si intitola “Cartagloria”, lo pubblica Adelphi, lo ha scritto Rosa Matteucci, la nostra miglior prosatrice. E’ il racconto di una vita di ricerche spirituali ed è uno spasso perché in pratica è un libro di avventure fra Genova e l’India, fra Roma e Lourdes.

Rosa Matteucci in qualche momento sembra la nuova Cristina Campo siccome colta, mistica, cattolica ma più spesso è il contrario di Cristina Campo siccome tragicomica, grottesca, farsesca. Divertentissima e al contempo serissima. Non teme di prendere in giro se stessa e di stroncare l’induismo, il buddismo, il bergoglismo: “L’ignota divinità Pachamama fu intronizzata in San Pietro, e con lei un’amazzonica piroga, zucche ornamentali e mangerecce, funghi psicotropi, liane psichedeliche dalle proprietà visionarie, e innumerevoli altri feticci dei quali ho perso il conto”. Libro utilissimo anche per chi deve votare in un Conclave.

Camillo Langone      

rosa metteucci

L’omelia di Re “cancella” Papa Francesco.

“Papabili, iteMissa pro eligendo est”. Nel giorno del Conclave, che si apre alle 16.30 con l’ingresso dei 133 cardinali elettori nella Cappella Sistina, il ragionamento su chi sarà il 267esimo Pontefice si fa più chiaro. Uno tra i 133 cardinali elettori in marcia verso l’altare della basilica vaticana di San Pietro diventerà il successore di Pietro, non di Francesco. Già. L’eredità di Papa Bergoglio che tanti rivendicano di voler difendere sembra essere sparita dall’omelia del Decano del Collegio cardinalizio Giovanni Battista Re, così come lo stesso Francesco, mai nominato neanche una volta.

In attesa di capire se sarà «buona la prima» votazione, attesa dalle 19 in poi quando dovrebbe uscire la prima fumata (servono almeno 89 voti, due terzi dei votanti) e se l’inno «Veni creator spiritus» per invocare la discesa dello Spirito santo avrà dato subito i suoi effetti, la sensazione è che non ci sia un accordo blindato né un nome su cui far convergere da subito i consensi. «E soprattutto non è detto che i “bergogliani” siano un unico corpaccione», ci dice una fonte vaticana che ricorda come – se è vero che i cardinali nominati da Papa Francesco siano più di cento – ci sia molta differenza di vedute tra quelli nominati nel 2013 e quelli appena un mese fa. Su Islam, immigrazione, gay e divorziati, rapporti con America, Asia e Africa non c’è un «idem sentire» né una linea di pensiero condivisa. «In questi 12 anni il mondo è cambiato, sono cambiati gli interlocutori. C’è il cattolico Trump, non più l’abortista Biden, le parole del cardinale Zen sulla Cina hanno lasciato il segno rispetto alla diplomazia vaticana con Pechino, orchestrata dal Segretario di Stato Pietro Parolin», ci dice un vaticanista off the record, che smentisce ogni dietrologia dietro i «doppi auguri» di Re allo stesso Parolin, quasi come fosse una sorta di investitura.

 Nello smarrimento generale, con pochi interventi a toccare davvero l’animo dei cardinali durante le Congregazioni, serve una scossa. Non a caso il cardinale Re, che a 91 anni non parteciperà al Conclave, invoca la scelta di «un Papa che risvegli le coscienze». D’altronde, «l’elezione del nuovo Papa non è un semplice avvicendarsi di persone, ma è sempre l’Apostolo Pietro che ritorna», ricorda Re. È dunque di Pietro l’eredità da portare avanti, confortati in questo dallo Spirito santo e dalla presenza di Dio «al cui cospetto ciascuno dovrà presentarsi un giorno per essere giudicato», con «l’incombente immagine michelangiolesca di Gesù giudice (nella Cappella Sistina, ndr) a ricordare a ciascuno la grandezza della responsabilità di porre nelle mani giuste le “somme chiavi”», dice Re citando Dante e una frase di Giovanni Paolo II.

L’obiettivo del nuovo Papa è «risvegliare le coscienze e mantenere l’unità della Chiesa voluta da Gesù, nel solco tracciato da Cristo agli Apostoli» dal rischio dello scisma, mai così concreto dopo gli sbandamenti e le ambiguità su gay, divorziati e Islam. «È tra compiti di ogni successore di Pietro quello di far crescere la comunione di tutti i cristiani con Cristo, dei Vescovi col Papa e fra di loro. Non una comunione autoreferenziale – ricorda il Decano – ma tutta tesa alla comunione fra le persone, i popoli e le culture, avendo a cuore che la Chiesa sia sempre “casa e scuola di comunione”». Ma «unità non significa uniformità, ma salda e profonda comunione nelle diversità, purché si rimanga nella piena fedeltà al Vangelo. Ogni Papa continua a incarnare Pietro e la sua missione e così rappresenta Cristo in terra; egli è la roccia su cui è edificata la Chiesa».

Il prossimo Pontefice, come Autorità morale a cui tutti guardano, per usare le parole dell’ex banchiere Ior Ettore Gotti Tedeschi al Giornale ha il compito di «risvegliare le coscienze di tutti e le energie morali e spirituali nella società odierna, caratterizzata da grande progresso tecnologico, ma che tende a dimenticare Dio». Ecco perché è fondamentale che i cardinali, bergogliani o meno, lascino fuori dal Conclave assieme ai telefonini anche «le proprie considerazioni personali e avere nella mente e nel cuore solo il Dio di Gesù Cristo e il bene della Chiesa e dell’umanità» di fronte a «un atto di massima responsabilità umana ed ecclesiale», anzi «una scelta di eccezionale importanza», è il ragionamento finale di Re. Chi sa leggere meglio tra le righe capisce già oggi che Papa uscirà da questo complicatissimo Conclave.

 Felice Manti                                

Ci vorrebbe un papa credente.

 

Ma tu chi vorresti come Papa? È un toto-scommessa globale, l’Italia si scopre un popolo di vaticanisti della domenica; impazzano pronostici, dietrologie e papalipomeni, per parafrasare il titolo di un poemetto ironico di Giacomo Leopardi. I criteri per la scelta sono sommari e somatici, facciali e vocali; basta una battuta, una diceria su di uno o contro l’altro, o semplicemente la schedatura dei media, il papometro, per promuovere o bocciare un papa. Al vaticanista del terzo piano piace la sinistra perciò vuole un papa progressista, non è importante che sia cattolico; e sui media impazza l’offerta di due papi dem e italiani al prezzo di uno. Al vaticanista del piano di sotto, invece, piaceva Ratzinger, piacciono quelli della Tradizione, e via a cercare il papa giusto, magari un po’ meloniano. Ce ne sono anche qui un paio, di papi neri ma in questo caso si dovrebbe dire proprio negri per non confondere con un papa gesuita o addirittura un papa fascista. E altri più defilati. Poi c’è il papa sorteggiato alla Fiera campionaria, che risponde a quesiti etnico-turistici: per qualcuno stavolta ci vorrebbe un bel papa asiatico, magari cinese, quantomeno coreano. No, meglio africano, perché loro stanno peggio di tutti; eppure sarebbe un bel colpo un papazzo americano, magari anti-Trump, che scomunica chi mette i dazi e reputa peccato mortale baciare i deretani dei potenti, così il mainstream è contento. C’è chi la butta sull’anagrafe e chiede un Papa giovane, in salute, aitante, che guidi la sua papamobile e giochi a tennis con le guardie svizzere, in modo da non vivere più tra pontefici cagionevoli, assistiti e malridotti; un papa palestrato più che ospedaliero. Già, ma poi la Chiesa che fine fa, se il papa dura in carica mezzo secolo? Si riduce a una Monarchia Assoluta e Perpetua, diventa ereditaria, il Vicario diventa Titolare?

C’è chi invece punta sulla competenza e la specializzazione, un papa al passo dei tempi, magari indicato da Chat gbt prima che dallo Spirito Santo. Che so, un papa scienziato, un papa influencer, un papa manager, un papa partigiano, un papa attore globale o artista di strada, un papa trans o simili, come suggeriva il film…

Per taluni anche il papa se vuol essere davvero universale, cioè di tutti, deve seguire l’alternanza tra un credente e un laico, o magari dev’essere un fantasista eclettico e sincretico, ebreo-musulmano, con ascendente luterano e segno zodiacale buddista, cuspide shintoista e in transito un po’ induista. Un Papa arcobaleno, basta col bianco o il nero, che sia arancione come i guru, verde come i green, rosso e giallo, insomma di tutti i colori. Pace.

Il mainstream suggerisce ai condomini vaticanisti una parola magica: continuità. L’importante è che sia come Bergoglio, che la pensi come lui e segua la sua scia; e confidano sui vagoni di cardinali che Papa Francesco ha scaricato sul Conclave per garantire proprio quella continuità, che poi vuol dire pure – non dimenticatelo – polizza per la sua santificazione. Vogliono un Papa come Bergoglio che piace più ai non credenti che ai credenti, che sia inclusivo e accogliente, anche se le chiese si svuotano, non accolgono nessuno e i cattolici della tradizione e dell’ordo missae sono esclusi. Un papa green, femminista fino a un certo punto, aperto ai gay (ma non in chiesa, precisava Francesco), che sia neutrale sui temi sensibili e sensibile ai temi ideologici. Che dica pure le sue menate pacifiste, ecologiste e pauperiste, tanto non fermano i guerrafondai, gli avvelenatori del pianeta e i capitalisti; faccia pure le sue critiche a Israele, chi se lo fila, e perfino i suoi affondi sull’aborto e temi sconcertanti, che passeranno anche stavolta inosservati. Un papa così sta bene nel presepe globale, è un personaggio conforme al quadro generale; poi quando dice qualcosa di difforme rispetto allo Spirito del tempo, tutti fanno finta di non sentire. Guai a cambiare, squadra che perde non si cambia, è funzionale all’ateismo galoppante sulla terra, al relativismo, al nichilismo gaio e alla fluidità.

Già, ma tu chi vorresti come papa? Non li conosco abbastanza, i cardinali, per indicarne uno adatto al compito, mi auguro che stavolta lo Spirito Santo faccia la sua parte, venga ascoltato e ben interpretato. Posso solo dirvi come vorrei che fosse.

Innanzitutto vorrei un papa che creda davvero in Dio e se qualcuno pensa che io stia continuando a scherzare, avverto: no, il contrario, da qui in poi sono serio. Non è affatto scontato quel che ho detto; serpeggia una vena di scetticismo e di miscredenza anche in seno alla Chiesa. E la parola serpeggia mi sembra la più adatta. Certo, se uno la fede la perde, o vacilla, non può darsela né può fingere di averla. Ma il primo assoluto requisito che si richiede a un papa è dire, anzi gridare al mondo: Cari voi tutti, Dio esiste, anzi meglio: Dio è. (punto) Tutto ciò che è, è in Dio, Intelligenza dell’Essere. E poi via a rendere chiaro e semplice quel Principio, con le sue Implicazioni e conseguenze. Poi dal Padre scenderà al Figlio e da questo risalirà allo Spirito Santo, che è per un credente-pensante in Dio, la forza che muove l’Universo, spira e ispira.

Vorrei che il papa scommettesse tutto su Dio; poi il resto, l’amore, la santità, la bontà, la carità, la misericordia, il catechismo, vengono di conseguenza, alla Sua luce. Vorrei un papa che esprimesse il Pensiero più Forte e Potente che si possa pensare e dicesse: sono qui per Amor di Dio, ben sapendo che ogni tradizione ha la sua scala per andare verso di Lui. E poiché amo Dio amo tutto ciò che ne discende, ogni essere, in una gerarchia degli esseri e dei beni che va dall’uomo all’animale, dal regno vegetale al regno minerale; o che discende dal cielo alla terra, dal sole alla luna, dalla miriade di stelle ai miliardi d’anni luce.

Vorrei un papa che parlasse nel nome di Dio, senza pretendere di disporre della Verità, inconoscibile per intero anche a lui; e parlasse poi al mondo nel nome della Madonna e dei Santi, e solo dopo nel nome degli uomini, a partire dai poveri e dai malati, ma senza fermarsi a quelli. Il papa dei poveri, almeno nel nostro mondo italiano, europeo e nordoccidentale, sarebbe un papa per la minoranza, perché qui da noi i poveri sono la decima parte della popolazione; e degli altri nove decimi che ne facciamo? Così come il papa dei migranti, rispetto al mondo intero, sarebbe un papa per la minoranza dell’umanità, perché – non mi stancherò mai di dirlo – i migranti sono milioni, i restanti sono miliardi sulla faccia della terra. Cioè chi vive dove è nato, chi resta a casa, nella sua terra, sono la stragrande maggioranza degli otto miliardi di abitanti del pianeta.

Vorrei un Santo Padre che parlasse il linguaggio del sacro, e dunque parlasse attraverso i riti, i simboli, la liturgia, la tradizione, prima che attraverso i discorsi, le battute e i viaggi. Un papa che esprimesse il suo ruolo ieratico e pontificale, cioè di ponte tra l’umano e il divino, e i significati annessi a quel carisma e a quel soglio. Un papa cosciente di parlare a un mondo indifferente, cioè peggio che ostile, refrattario, sordo, cieco e indaffarato, che non sta ad ascoltarlo. Ma il papa non maledirà mai l’umanità distratta, li aspetterà al largo della loro vita, nutrendo fiducia che come tutti i nodi vengono al pettine, così tutti gli esseri tornano all’Essere.

Un papa così non si commissiona su Amazon né nasce dai magheggi dei cardinali maneggioni; lo trova solo lo Spirito Santo. Amen.

Marcello  Veneziani                  

Il Papa che verrà vada oltre Francesco-

 

 

E adesso, quale compito avrà il successore di Bergoglio alla guida della Chiesa? Dovrà muoversi nel suo solco o in quello dei suoi predecessori Ratzinger e Woytjla; dovrà proseguire sulla linea dell’apertura al presente o dovrà tentare di riannodare il filo della Tradizione all’avvenire? Stavolta c’è una situazione che non ha precedenti: 110 cardinali su 138 che hanno diritto di voto al Conclave, sono stati nominati da Bergoglio, per cui la prima cosa da aspettarsi è che venga fuori un Francesco II, in tutti i sensi. E non solo: c’è da aspettarsi che esprimano il loro debito di gratitudine aprendo la via alla santificazione di Bergoglio. Ma l’elezione del Papa, secondo Tradizione, è suggerita dallo Spirito Santo, ed è soggetta a tante valutazioni pratiche e strategiche; dunque non si può dire in partenza quale sarà l’esito, anche se è probabile che sarà in continuità col papato di Bergoglio.

Allora proviamo a ragionare. Quale Chiesa ha lasciato Papa Francesco? Innanzitutto una Chiesa profondamente divisa, tra conservatori e progressisti, tra fautori della civiltà cristiana e innovatori sociali, tra chi dice di tornare alla Tradizione e chi dice che si deve tornare al cristianesimo delle origini, povero e poverista, privo di riti, gloria e liturgia, tutto rivolto al mondo d’oggi, a partire dagli ultimi e dagli esclusi. Ma il dato di fatto da cui partire è che il Papa dell’inclusione e dell’accoglienza ha generato molte esclusioni all’interno della chiesa e tra gli stessi fedeli, e molte fratture, come non era capitato ai suoi predecessori.

In secondo luogo, si è registrato un ulteriore passo avanti verso lo spopolamento e lo svuotamento delle chiese: meno fedeli nelle funzioni, meno vocazioni, meno presenza cristiana ovunque. Un processo che marcia con la secolarizzazione e la scristianizzazione della nostra società e che nessuno è in grado di fermare e d’invertire; ma nei dodici anni di pontificato di Bergoglio, nonostante la sua apertura al nostro tempo, o forse a causa di quella, si è ancor più acuita. Bergoglio ha raccolto simpatie tra i non credenti; ma simpatie personali, che non si sono tradotte in conversioni alla fede e in avvicinamento alla Chiesa. Sono simpatie di laicisti e di atei che tali restano, fuori da ogni motivazione religiosa.

E se la strada da percorrere non fosse quella di inseguire il proprio tempo e di compiacerlo ma di richiamare l’esempio, la testimonianza, la presenza del mistero di Dio, del sacro, della santità e della fede? Se mimetizzarsi nell’oggi per rendersi più vicini e più disponibili non fosse il rimedio ma fosse invece parte della stessa malattia di cui patisce la cristianità e la chiesa cattolica? Se la missione pastorale della Chiesa non fosse quella di dimostrarsi accondiscendente allo spirito senza spirito del nostro tempo ma capace di suscitare l’apertura al cielo, al divino, alla Provvidenza e al messaggio cristiano?

Queste ragioni ci portano a dire che il Papato che verrà dovrà piuttosto tentare un’altra via rispetto a quella di Bergoglio. Dovrà ripartire dal nichilismo della nostra epoca, dal silenzio di Dio, dalla diffusa correlazione tra disperazione e lontananza da ogni fede, tra depressione e mancanza di senso religioso. E dovrà cercare un linguaggio efficace, un linguaggio non solo di parole ma anche di atti, di simboli, di atteggiamenti, di esempi, per riaccendere nella gente la curiosità verso la scommessa di Dio, la tentazione di provare quella via, restituendo fiducia e speranza agli uomini e al mondo. La prima missione della Chiesa dovrebbe essere quella: il risveglio religioso, la rinascita della preghiera, l’attesa di Dio, la scommessa del sacro. E la difesa della civiltà cristiana in pericolo. Poi le altre missioni, umanitarie e sociali, verranno al seguito, ma saranno conseguenze coerenti della prima e non autonome strade verso una filantropia umanitaria.

Ci vorrebbe un Papa che fosse Santo Padre più che Fratello, che si caricasse cioè sulle sue spalle l’enorme peso della responsabilità di guidare il cammino verso la fede, verso Dio e non di porsi come “uno di noi”, in mezzo alla gente, dalla parte degli ultimi e degli esclusi. Che sia pastore e non uno del gregge.

Non si tratta di sconfessare il precedente pontificato, o di porsi in polemica con Francesco; si tratta piuttosto di riprendere la vocazione pastorale ed ecumenica e abbracciare l’intera cristianità, riaprendo i ponti con le altre chiese cristiane, a partire da quella più vicina, la greco-bizantina, ortodossa. Si tratta di ricucire il dissidio tra conservatori e innovatori, fra tradizionalisti e progressisti, dicendo che c’è posto per tutti in Chiesa, sono tutti figli di Dio, e che tutti possono concorrere con la loro spiccata sensibilità su un versante piuttosto che in altro, all’opera divina.

Chi si occupa di poveri e di migranti, di ambiente e di esclusi ha un ruolo prezioso nella Chiesa; ma anche chi ritiene più urgente occuparsi di risvegliare la fede in Dio, e le vie del rito, del simbolo, della liturgia, la partecipazione alle messe e alla vita religiosa, la coerenza tra il credere e il pensare, tra il vivere e il pregare, è necessario alla Chiesa e fa bene a sé e agli altri. Chi ama i lontani accoglie Cristo ma chi si cura di sua madre e di suo padre, dei vecchi e dei suoi figli e pratica la fratellanza a partire dai suoi fratelli, vive nel segno di Cristo. E non dimentichiamo che i poveri a cui si è evangelicamente rivolto Bergoglio, sono in Italia e in Europa solo il dieci per cento della popolazione, migranti inclusi. Se il verbo che Bergoglio ha portato nella chiesa è stato cambiare, è giusto che ora il suo successore cambi rispetto al suo stesso predecessore.

Marcello Veneziani                   

Che sia un Papato minimo…

 

Limitato ai suoi compiti essenziali. Il capo della Chiesa non è il Papa, ma Cristo. Che il motto del nuovo Pontefice siano le parole di Giovanni Battista su Gesù: “Lui deve crescere, io diminuire”

Sia un Papato minimo. Un Papato come lo Stato minimo teorizzato dal filosofo superliberale Robert Nozick, ossia limitato ai suoi compiti essenziali. Poche cose ma fatte bene. Non soltanto perché il vano fracasso di un Papato strabordante, e di una papolatria latrante e non credente, disturba le mie orecchie. Soprattutto perché “capo della Chiesa è Cristo, non il Papa” (Papa Giovanni XXIII). Perché “la figura del Papa è troppo lodata. Si rischia di cadere nel culto della personalità” (Papa Giovanni Paolo I). Perché “il Papa non è un oracolo, è infallibile solo in rarissime occasioni” (Papa Benedetto XVI). Si ricominci dal bellissimo titolo gregoriano “Servus servorum Dei”.
Sia un Papato di servizio quello del prossimo Papa. Basta personalismi, narcisismi, dispotismi. Il servo dei servi di Dio si metta al servizio della ripresa del cattolicesimo, in Francia e anche altrove ormai evidente, o almeno eviti di ostacolarla. I 18 mila francesi (in gran parte adulti, un boom sacramentale) che si sono fatti battezzare la notte di Pasqua non l’hanno fatto per Bergoglio, l’hanno fatto nonostante Bergoglio che ad Abu Dhabi firmò la dichiarazione indifferentista in cui si palesava l’inutilità del battesimo. Il motto del nuovo Papa siano le parole di Giovanni Battista su Gesù: “Lui deve crescere, io diminuire”.

 Camillo  Langone__da___IL FOGLIO        

papa

Un selfie con la salma di Papa Francesco dopo ore di fila, l’orrore sui social dei fedeli a San Pietro: “Vi spiego perché lo fanno”.

 

Oltre alle immagini delle interminabili code dei fedeli che hanno raggiunto Città del Vaticano per omaggiare la salma di Papa Francesco, stanno circolando sui social fotografie e video che mostrano persone intente a scattarsi selfie una volta arrivati di fronte al feretro del Pontefice. Un gesto che ha suscitato polemiche e indignazione, soprattutto sul web dove ha avuto larga diffusione. “Una gravissima mancanza di rispetto”, si legge tra i vari commenti su X. Secondo Alessandro Ricci, Consigliere Ordine psicologi Lazio e professore Istituto Psicologia Pontificia Università Salesiana, intervistato dal Messaggero, oggi “tutto si consuma velocemente a discapito del tempo della riflessione, della lentezza che serve a ponderare le cose per andare in profondità sui propri vissuti emotivi e sulla capacità di elaborarli – spiega – Siamo sempre più rapidi ma superficiali, si può facilmente passare da un gesto di raccoglimento e rispetto a qualcosa di più turistico o, ancor peggio, narcisistico”. Siamo sempre più “pervasi” dal desiderio “di essere visti”, ma “il bisogno diventa un’urgenza pervasiva amplificata dai social”, precisa.
Per il professore, il gesto non dovrebbe essere, però, vietato. “Penso che non sia giusto vietarlo, ma soprattutto credo sia urgente educare, fin da piccoli, ad un uso consapevole dei social e al rimettere al centro delle nostre vite la capacità di entrare in contatto con le nostre esperienze e saperle ascoltare, rifletterci sopra e ponderarle”. Il Pontefice, nel suo pontificato “più volte ha messo in guardia dal culto dell’apparenza e dalla società dell’immagine – conclude Ricci -, e quindi credo sia importante in questo momento essere coerenti con il suo messaggio e sapersi decentrare dal proprio ego per sapersi ritrovare umani e reali e non virtuali a caccia di un like”. A questo fenomeno ha provato a dare una spiegazione anche la professoressa Daniela Villani, associato all’Università Cattolica di Milano in Psicologia Generale e docente di psicologia della religione. “Il fatto che molti fedeli si scattino dei selfie davanti alla salma di Bergoglio si spiega da un lato con la fruizione sempre più superficiale delle emozioni e dall’altro con la ricerca del consenso”, dice all’AdnKronos.

Alba Romano __da___ Open

 

selfie

Non Santo Padre ma Fratello

 

Papa Bergoglio è stato un papa umano, troppo umano. Ha fatto dell’umanità il senso e l’orizzonte del suo pontificato. Ha umanizzato il divino, ha desacralizzato la fede, ha socializzato la cristianità, ha tradotto la carità in filantropia. Non è stato Santo Padre ma Papa Fratello, e la sua fratellanza era un po’ come la fraternité sposata all’egalité. Il cristiano concepisce la fratellanza rispetto al Padreterno. Voleva abbattere muri e confini, aprirsi ai non credenti o ai credenti di altre fedi, ma ha eretto muri e solcato confini all’interno della cristianità, tra i cattolici della tradizione e i cattolici del progresso, ponendosi dalla parte di questi ultimi. Umano troppo umano è, come sapete, il titolo di un’opera di Friedrich Nietzsche; il filosofo dell’anticristo avrebbe ritrovato in lui esattamente quel che lui intendeva per cristianesimo e che avversava: la religione degli ultimi, la cristianità come preambolo religioso del socialismo, del pauperismo, il Vangelo come riscatto e denuncia sociale. In fondo la visione del cristianesimo in Nietzsche combacia con quella dei cristiani progressisti. Naturalmente è opposto il segno, negativo in Nietzsche e positivo in loro, ma la diagnosi è simile.

Non siamo nessuno per giudicare un papa, e la storia dirà qual è stata la sua impronta sulla Chiesa e sul mondo. Ma se è permesso esprimere in piena umiltà un sommesso parere sul suo papato, oltre le untuose ipocrisie che ci sommergono da due giorni, Francesco non è stato un grande Papa, o un Papa grande, come si dice nella Chiesa che intende la grandezza come presagio di santità. È stato, invece, un Papa Piccolo, che ha voluto rendere se stesso e la Chiesa all’altezza del mondo, dei tempi, della situazione sociale. Si è fatto piccolo per essere dentro questo tempo; umile se volete, anche se non di buon carattere.

Anche questa definizione di Papa Piccolo dovrebbe in fondo non dispiacere a chi ha esaltato in lui proprio questo suo aspetto di vicinanza all’umanità, a partire dagli esclusi. Il carisma è il segno di una raggiante paternità e di una luminosa presenza del divino in terra; Bergoglio ha invece scelto la via opposta, quella di umanizzare Cristo e il Vicario di Cristo in terra, fino a renderlo “uno di noi”. Non l’amore per il Lontano ma l’amore per i lontani, i più lontani dalla civiltà cristiana, dal nostro occidente, dalla chiesa, occupandosi largamente di migranti, cioè di coloro che venivano da altri mondi, da altre religioni. Non ha affrontato il nichilismo della nostra epoca, la desertificazione della vita spirituale, limitandosi a criticare legittimamente l’egoismo e la prepotenza. Ha cercato la simpatia, a tratti la piacioneria, più che la conversione e il mistero della fede.

È morto nel giorno del Sepolcro vuoto, il giorno che segue alla Pasqua, in cui l’Angelo annuncia alle donne che il Figlio è tornato dal Padre, non è più in terra, e anche questo – per chi crede ai simboli – è una coincideva significativa. Un giorno speciale, non solo perché lunedì dell’Angelo, ma perché quest’anno la pasqua cattolica coincideva con quella ortodossa; ed era il 21 aprile, il giorno del Natale di Roma, in cui il sole entra perfettamente nell’opaion del Pantheon, l’oculo aperto nella sommità del cerchio e trafigge il portone di bronzo e chi vi si pone alla soglia del tempo dedicato a tutti gli dei. Il suo papato è durato dodici anni, un tempo non lungo come quello di Giovanni Paolo II, né breve come quello dei papi meteore, come accadde a Giovanni Paolo I, Papa Luciani.

Lascerà un’eredità importante sul Conclave che dovrà eleggere il nuovo Papa e magari avviare la santificazione di Papa Bergoglio: ha eletto più cardinali di ogni altro predecessore, l’ottanta per cento del Conclave, lasciando così una larga maggioranza bergogliana. Per questo la sua eredità sarà davvero importante sul prossimo Conclave, a parte l’ispirazione dello Spirito Santo.

Non è riuscito a fermare l’emorragia della fede cristiana nel mondo, il calo senza precedenti di vocazioni in chiesa e nei conventi e di partecipazione dei fedeli ai sacramenti e alle messe; le chiese vuotate, la fede disertata.

Un processo lungo che dura da tempo, che si è accelerato almeno dai tempi del Concilio Vaticano II in poi e che i suoi predecessori non riuscirono ad arginare; con lui la scristianizzazione è stata ancora più vasta e veloce.

Papa Bergoglio raccoglieva simpatie di molti che cristiani e credenti non erano e che tali restavano; non ha convertito nessuno dei suoi simpatizzanti non credenti, mentre all’interno della cristianità, dicevamo, si è acuito il dissenso e la divisione tra i cattolici più legati alla tradizione e i cattolici più aperti ai tempi nuovi e al mondo sempre più scristianizzato. Ha dialogato più con i progressisti non cattolici che con i cattolici non progressisti; aperto ai primi, ostile ai secondi, la fede cattolica diventava una variabile secondaria rispetto alla posizione storico-sociale. Ha elogiato il dialogo intereligioso ma non a partire dai più vicini, come i cristiani ortodossi, di rito greco-bizantino, ma dai più lontani, come gli islamici e i più remoti nel mondo.

I suoi temi dominanti sono stati la pace, l’accoglienza, i migranti, l’ambiente, l’apertura alle donne con ruoli ecclesiali, il dialogo con gli atei. Ha denunciato le ingiustizie sociali, ha difeso i poveri, ha criticato il capitalismo e il consumismo, come è giusto che faccia un Papa. Ha tenuto fermi alcuni principi e alcune scelte di vita, in tema d’aborto, maternità, famiglia, lobby gay; ma i mass media hanno posto la sordina a questi suoi appelli in contrasto col mainstream. Anche in tema di pace ha fatto risuonare con forza la sua parola davanti alle guerre e ai genocidi senza distinguere tra gli uni e gli altri. Meno attento, invece, sulle persecuzioni dei cristiani nel mondo. È apparso refrattario ai riti, ai simboli, alla liturgia sacra.

Restano alcuni grandi e piccoli misteri, come il non essere mai tornato in dodici anni di pontificato nella sua Argentina; è stato in Brasile, ai suoi confini ma non ha mai varcato la soglia di casa, e su sui motivi di questa stranezza i media hanno sempre taciuto.

La chiesa che lascia è più fragile, disabitata e lacerata di quella, già in crisi, che raccolse dal suo predecessore, Papa Benedetto XVI. E gravata ancora da alcune ombre d’infamia, come la pedofilia e la corruzione, che funestano la chiesa, i sacerdoti, ormai da tanti anni.

Qualcuno per rispondere alla crisi di vocazioni e alla pedofilia, propone il matrimonio per i preti, ma non è un rimedio per nessuno dei due. Non entreremo nella spinosa questione della legittimità del suo pontificato, non ne abbiamo la competenza, ed è materia troppo delicata per affrontarla nel corso di un articolo. Siamo sempre stati combattuti tra l’ossequio al Papa, chiunque egli sia, per quel che comunque rappresenta e per la nostra inadeguatezza a giudicare, e la critica per alcune sue posizioni che erano in palese contraddizione con il magistero dei precedenti pontefici e con la lezione di santi, teologi e dottori della Chiesa.

La sua morte esige rispetto, pietà e preghiera per il suo ritorno al Padre. Bergoglio esercitò il suo ruolo di Pontifex innalzando ponti tra i popoli più che tra l’uomo e Dio. Non ha costruito ponti tra il tempo e l’eternità, ma tra la chiesa e il suo tempo, a senso unico. Infatti, la sua Chiesa si è aperta all’oggi ma l’oggi non si è aperto alla Chiesa.

Marcello Veneziani                         

L’ultimo esempio di Papa Francesco

 

Il Pontefice ci ha lasciato un ammonimento muto che riecheggia la “parabola delle mine” nel Vangelo di Luca: non conta quanto a lungo stringiamo la nostra vita, se la teniamo chiusa in un fazzoletto

Ho riletto la parabola delle mine, monete che un uomo di nobile stirpe consegna a dieci servi comandando loro di investirle. Si trova nel Vangelo di Luca (19, 12-27): ciascun servo investe la mina con alterna fortuna, ricavando chi tanto chi poco, ma l’unico col quale il padrone si arrabbia è quello che se la tiene riposta in un fazzoletto per timore di perderla. Non sappiamo nulla di quanto onestamente gli altri servi abbiano ottenuto il ritorno del proprio investimento, ma sappiamo che il padrone chiama malvagio soltanto il servo che, per paura, non ha combinato nulla. Papa Francesco aveva una mina, l’ultima, che gli era stata consegnata all’uscita dall’ospedale. Poteva conservarla gelosamente e riguardarsi, facendo la vita del ricoverato di lusso per vivere quanto ancora? Un’altra settimana, un altro mese? Invece, nei giorni di Pasqua, l’ha investita sforzandosi di onorare con la sua presenza viva un padrone che, stamane, è passato a riscuotere. Se n’è andato con lui mentre noi non ci pensavamo, e magari dormivamo ancora, lasciandoci però quest’ammonimento muto: non conta quanto a lungo stringiamo la nostra vita, se la teniamo chiusa in un fazzoletto.

Antonio Gurrado__da__IL  FOGLIO

 

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