“Chi dovrebbe parlare di sesso, il prete o il docente”: Paolo Crepet demolisce la sinistra.

Educazione sessuale a scuola: l’intervento di Paolo Crepet

“I docenti sono pagati per fare altro”
In un’intervista, Paolo Crepet smonta la sinistra sul dibattio dell’educazione sessuale obbligatoria nelle scuole medie.
Paolo Crepet contraria la sinistra sul tema dell’educazione sessuale obbligatoria nelle scuole medie. In un’intervista a Il Tempo, lo psichiatra, sociologo, educatore e saggista di fama internazionale pone una raffica di domande che mettono in crisi la proposta.
Nell’intervista a Il Tempo, Paolo Crepet resta fuori dalla polemica e mette in discussione l’impostazione stessa del dibattito. “Se va bene o va male questa cosa dell’obbligatorietà o meno dell’educazione sessuale-affettiva alle scuole medie non lo so, non lo capisco. Rispondo: boh“, ha dichiarato. Le sue parole sono una critica netta alla confusione generale: “Faccio tanta fatica, in questo senso, nel seguire chi la propone“.Il vero punto, secondo lui, è che non esiste una risposta concreta alla domanda centrale: “Chi lo deve fare? In quali orari? Chi va dai ragazzi avendo cognizione di causa? Con quali competenze?“. Il problema non è solo organizzativo, ma educativo: “Per dire: nei temi c’è un titolo e poi c’è uno svolgimento. Qual è lo svolgimento? […] L’educazione di questo tipo ai ragazzi la fa il prete? Oppure l’insegnante di biologia? O un altro? Chi? Non lo sanno, talmente la superficialità di questo discorso“.

“I docenti sono pagati per fare altro”
Paolo Crepet entra anche nel merito del ruolo degli insegnanti, aggiunge a Il Tempo, troppo spesso caricati di responsabilità che esulano dal loro ambito: “I docenti che lavorano tutte le mattine con loro sono pagati per fare altro, non educazione sessuale“.
E incalza con una domanda retorica ma pungente: “Insegnanti lo si diventa facendo un concorso. Al concorso ai candidati per diventare docenti fanno domande sul sesso? Non credo, non lo so“. Il suo ragionamento si allarga poi al contesto in cui vivono i ragazzi di oggi: “Gli stimoli sono anche troppi, non so se i parlamentari conoscono i ‘giri’ dei giovani. C’è oggi un’anticipazione di età: quello che un tempo succedeva alle scuole superiori adesso accade alle scuole medie“.

Paola Pennisi

Crepet, amare per un genitore è anche il coraggio di farsi odiare da un figlio.

 

l giovani devono desiderare fortemente qualcosa per poter conquistare e realizzare i loro sogni…

Il ruolo dell’educatore è anche questo, fornire l’essenziale necessario affinché possano, figli o studenti, da soli arrivare a scoprire se stessi…
Il concetto di “sottrarre” spesso utilizzato da Paolo Crepet, esperto psichiatra e sociologo, viene spesso associato ai bambini e agli adolescenti. In un suo recente intervento però il sociologo lo applica ad una platea più ampia nella quale include anche gli adulti.
A tal proposito afferma: “Ho sempre pensato che la cosa fondamentale per i bambini, per la loro crescita, ma anche per la nostra crescita, non solo quella dei bambini, era quella di desiderare un qualcosa”. Secondo Crepet è il desiderio che tiene in vita grandi e piccini, quell’appiglio nella vita di tutti i giorni che ci dona emozioni positive e a volte grandi delusioni ma di cui non possiamo farne proprio a meno, e continua : “Per desiderare però ci deve mancare qualcosa”. Per l’esperto il concetto del desiderio va al di là dell’educazione dei minori, della loro formazione e preparazione.
Le generazioni precedenti alla nostra erano generazioni che conoscevano, quasi implicitamente, il vero significato di desiderare fortemente qualcosa. Qualsiasi conquista richiedeva impegno e sacrificio, valori da riscoprire anche in questa generazione che vive di superficialità, di facilità e a volte troppo permissivismo.

L’esperto a tal proposito fornisce un prezioso consiglio agli adulti ed afferma: “Se voi incontrate un ragazzo intelligente aiutatelo, per favore, in che modo? Non facendo niente”, queste le parole dell’esperto per dirci che se un genitore o un insegnante si accorge delle peculiarità, delle potenzialità, delle unicità di un giovane non occorre un aiuto ulteriore, di un potenziamento ulteriore perché in lui ha già tutto ciò che serve. L’unico elemento che potrebbe mancare in questi casi è semplicemente il tempo, serve pazienza affinché avvenga la sua maturazione completa, affinché raggiunga (da solo) delle consapevolezze, continua l’esperto: “Lasciatelo che faccia, “olio e limone”, ha talento? lo tirerà fuori, sicuro”.

L’espressione “olio e limone”, è un’ espressione forte, per dirci che a volte occorre essere “crudi” nella vita dei nostri figli o allievi. Amare è anche il coraggio di farti odiare da chi ami perché senza quell’ “odio”, senza quel dolore non potrà esserci la loro realizzazione, proprio come “la fenice risorge dalle ceneri”, conclude Crepet: “ perché ci vuole un sano coraggio anche per non fare”. Come afferma e conclude l’esperto può essere molto difficile non fare nulla o fare poco, ma il ruolo dell’educatore è anche questo, fornire l’essenziale necessario affinché possano, figli o studenti, da soli arrivare a scoprire se stessi.

Da___A scuola , oggi-

Crepet e la «generazione perduta»: «I ragazzi vivaci sono sempre esistiti. I bulli girano armati perché sanno che non avranno conseguenze»

 

Lo psichiatra l’11 luglio a Villafranca (Verona): «Non mettiamo l’ideologia nell’educazione»

Paolo Crepet e il caso della maestra «stufa di correggere gli errori»: «I genitori smettano di fare i sindacalisti dei loro figli»

Paolo Crepet

Pensare non è un reato. Invece il prossimo 11 luglio alle 21,15 Paolo Crepet, al Castello Scaligero di Villafranca (Verona), nell’ambito dell’omonimo festival in scena dal 10 al 26 luglio, con la sua nuova conferenza «Il reato di pensare», confuterà questo dogma. Nel corso della serata tratterà di civiltà e libertà di espressione, troppo spesso limitate da ideologie dogmatiche, nuovi vocaboli e schemi che non contemplano contraddittorio.
Nell’intervista che Crepet ha rilasciato al Corriere non sono mancati gli argomenti che hanno portato Verona sulle pagine della cronaca nazionale, in particolare l’episodio del ragazzino che si è rifiutato di percorrere la scala arcobaleno, le sempre più frequenti scorribande delle baby gang che assalgono la città e i veronesi.

«No all’ideologia nell’educazione»

«Un bambino deve essere creativo – ha commentato Crepet in merito alla vicenda della scala arcobaleno – se quel bambino si è rifiutato di salirla era un suo diritto, purché l’abbia pensato lui e non sia stato spinto dai genitori» e ha aggiunto «non mettiamo ideologia dentro l’educazione». Il sociologo ha poi caldamente consigliato alla scuola, teatro della vicenda che conosce e rispetta, di preoccuparsi dell’educazione al tempo dell’intelligenza artificiale «perché sarà la fine della pedagogia». Sul versante «baby gang» l’opinionista ha le idee chiare: «I ragazzi vivaci sono sempre esistiti. Il bullo è tale perché è stato creato da qualcuno e banalizzare una bravata o rimanere inermi dimostra che quella di oggi è una generazione perduta».

«L’idea di comunità è venuta meno»

La soluzione per questa «generazione perduta», secondo Crepet, è «l’autoregolazione» perché per chi va a spasso con un coltello di 22 centimetri in borsa o un teaser – entrambi minorenni i ragazzi noti alle cronache per girare armati – è libero di fare il bello e il cattivo tempo perché sa che non andrà incontro a conseguenze. Con una buona dose di realismo lo psichiatra sentenzia: «l’idea stessa di comunità è venuta meno» anche se «esistono due realtà contrapposte: ci sono i ”figli di papà” come ci sono giovani che hanno conquistato con impegno e fatica ogni esame superato e ogni successo ottenuto. Peccato che questi ultimi, spesso, scelgano di lasciare l’Italia perché – spiega Crepet – l’Italia è un paese morto». Imbeccato sul concetto di mondo liquido – coniato da Bauman nel secolo scorso – lo psichiatra ha risposto secco: «Molto liquido», il che significa essere schiavi del consumismo e mercificare ogni aspetto della vita, sentimenti compresi.

 Cristian Gaole

Massarenti: più laboratori di pensiero critico per salvare i figli dell’AI.

Massarenti: più laboratori di pensiero critico per salvare i figli dell’AI.
Int. Armando Massarenti
Dall’IA alla difficoltà ad affrontare l’Invalsi, da Armando Massarenti una proposta per allontanare gli studenti dalla stupidità a cui li relegano i social.
Dall’odio e dalla stupidità dei social media, che non risparmiano né docenti né discenti, all’intelligenza artificiale usata con poca intelligenza; dal QI in discesa ai test Invalsi; dagli eccessi del politicamente corretto alle reazioni uguali e contrarie, il pensiero critico e la buona educazione sembrano in crisi.
Ma non tutto è perduto. Lo spiega Armando Massarenti, filosofo della scienza, saggista e autore del libro provocatorio ma costruttivo, Come siamo diventati stupidi. Una immodesta proposta per tornare intelligenti (Guerini, 2024).

In questa conversazione, gli abbiamo chiesto qualche spunto per ripensare la scuola. E per non smettere mai di pensare.

I test Invalsi e l’analfabetismo funzionale ci parlano di studenti che faticano a comprendere i testi e a far di conto. È un segno di stupidità diffusa?

Nel libro non uso il termine “analfabetismo funzionale”, ma parlo di qualcosa di ancora più profondo: la difficoltà di distinguere tra opinione e conoscenza, tra informazione e pregiudizio. È questo il cuore della stupidità contemporanea: non la mancanza di capacità cognitive, ma la mancanza di strumenti critici per usarle. Ecco perché serve una scuola che non si limiti a trasmettere contenuti, ma che educhi a pensarli.

La proposta?

Introdurre laboratori di pensiero critico, in cui si impari a ragionare, argomentare, dubitare. E anche, o soprattutto, a sbagliare con intelligenza.

Lei parla di “pappagalli stocastici”, riferendosi all’intelligenza artificiale. Ma non rischiamo di formare anche degli studenti-pappagallo?

Infatti. Se l’IA imita senza capire, molti studenti fanno lo stesso: ripetono formule senza comprenderle. Colpa di una scuola che troppo spesso premia la memorizzazione invece del ragionamento. La mia proposta è semplice: insegnare meno, capire di più. Valutare i processi, non solo i risultati. E coltivare il dubbio come virtù.

Internet ci ha resi più informati o più stupidi?

Entrambe le cose. Abbiamo più accesso ai dati, ma meno tempo per riflettere. I social premiano la reazione istintiva, non il pensiero lento. È per questo che servirebbe un’educazione alla lentezza: saper leggere un articolo, verificare una fonte, analizzare un’informazione. Io proporrei un’ora settimanale di educazione all’informazione: imparare a usare internet senza esserne usati. Troppe informazioni o troppi dati non si trasformano automaticamente in conoscenza se non sono elaborate dal pensiero e dal giudizio. Un pensiero che oggi può beneficiare degli strumenti messi a disposizione da un’immensa letteratura che io cerco di mettere a disposizione di tutti nel mio libro.

Lei scrive anche della polarizzazione culturale. Come riguarda i giovani e la scuola?

La polarizzazione nasce da un bisogno di appartenenza che cancella il pensiero. Si aderisce a una tribù e si smette di discutere. Si odia e ci si instupidisce. Ma pensare criticamente significa saper cambiare idea. A scuola insegniamo troppo poco il disaccordo. Il confronto. Il dialogo. Eppure sono queste le competenze fondamentali del cittadino democratico. Serve un’educazione al disaccordo ragionato: capire prima di giudicare, rispondere invece di reagire.

Il QI è ancora una misura valida dell’intelligenza?

Misura qualcosa di importante, ma non tutto. Il QI valuta abilità astratte, logiche, ma non la creatività, l’empatia, la capacità di lavorare con gli altri. Nella scuola e nella vita contano anche le intelligenze “minori”, spesso trascurate: emotiva, sociale, argomentativa. Soprattutto però si è scoperto che il QI non misura la razionalità. Ecco perché persone intelligenti fanno e pensano spesso cose stupide.

Ancora: cosa propone?

La mia proposta è duplice: non abolire i test, ma affiancarli a strumenti che misurino competenze più ampie, come la capacità di porre buone domande o di ragionare su problemi complessi. Quelle che definiscono il pensiero critico. Il libro propone ed estende i venti concetti chiave proposti da James Flynn che possono rendere una mente feconda e padrona del nostro tempo.

Cos’è la “stupidità accademica” di cui parla?

È quella che nasce dall’eccesso di conformismo, o di politicamente corretto, non dalla mancanza di studio. Quando ci si adegua alle mode culturali si scrivono articoli oscuri per dire cose ovvie, o si rinuncia al dubbio per paura di essere “sbagliati”. La scuola può cadere nella stessa trappola: quando trasmette verità preconfezionate, quando si chiude nella ripetizione. Per evitarlo, servono docenti coraggiosi, capaci di mettere in discussione anche i libri di testo. E studenti liberi di dire: “Non ho capito” o “Non sono d’accordo”.

Lei cita spesso John Stuart Mill. Perché è ancora attuale?

Mill ci ha insegnato che anche le idee giuste possono morire, se non vengono difese con buone ragioni. Una verità non argomentata è una verità spenta, fragile, pronta a essere rovesciata. Non riusciamo più a farla brillare tra le mille sciocchezze che ci tocca sorbire ogni giorno. A scuola dovremmo allenare gli studenti a difendere le proprie idee con rispetto e rigore. È il cuore del pensiero critico: non basta avere ragione, bisogna anche saperlo dimostrare. E saper ascoltare le ragioni dell’altro. Anche se le sue idee ci sembrano strane.

Il suo libro si chiude con un decalogo del libero pensatore. Quali sono le virtù da coltivare?

Prima fra tutte, il dubbio. Poi il coraggio, la curiosità, l’onestà intellettuale. Ma senza ironia, tutto questo può sembrare pesante. Savinio ci ricordava che la stupidità ha il suo fascino ipnotico, da non sottovalutare neppure se si è intelligenti. Il film Inside Out 2 mostra che tra le isole del carattere che formano la personalità della protagonista, l’isola della stupidera è fondamentale come le altre. La stupidità maggiore in realtà è quella che viene dalla saccenza, da una cultura e da un’educazione mal digerite e poco armoniche.

Come ci si difende?

L’ironia è una forma di resistenza. È la capacità di ridere di sé, di non prendersi troppo sul serio, di vedere il mondo in prospettiva. Io proporrei di introdurre all’università una cattedra sulla stupidità e a scuola una materia nuova: autoironia applicata. Non salverà il mondo, ma ci renderà più liberi. Per questo il libro ha uno stile insieme serio e ironico, ed è costellato di citazioni sagaci. Del tragicomico decalogo liberale, scritto da Bertrand Russell, ricordo due precetti seri e uno ironico: “Non provare invidia per la felicità di coloro che vivono di illusioni, perché solo uno sciocco può pensare che in ciò consista la felicità”. L’altro serio: “Trova più gusto in un dissenso intelligente che in un consenso passivo, perché, se apprezzi l’intelligenza come dovresti, nel primo caso vi è una più profonda consonanza con le tue posizioni che non nel secondo”.

E quello ironico?

È il mio preferito: “Non cercare di scoraggiare la riflessione perché è sicuro che ci riuscirai”. Nel mondo degli odiatori da social media è forse quella che merita la maggiore attualizzazione, insieme a Leo Longanesi, che scriveva: “Uno stupido è uno stupido. Due stupidi sono due stupidi. Diecimila stupidi sono una forza storica”. Ma attenzione! Nel libro dimostro, dati alla mano, ma sempre con un po’ di distacco ironico, che anche l’intelligenza è, o può tornare a essere, una forza storica.

Tiziana Pedrizzi

 

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Quando la cura fa bene non solo al malato…

 

 

Nelle tracce per l’esame di maturità, che quest’anno erano piuttosto azzeccate, è apparsa un po’ a sorpresa una canzone famosa di Franco Battiatola Cura. Una delle più belle in assoluto, uno splendido manifesto d’amore e di attenzione per la persona amata che oltrepassa i limiti e le condizioni terrene: “Supererò le correnti gravitazionali, lo spazio e la luce per non farti invecchiare”; una sfida epica e metafisica oltre la mortalità, la vecchiaia, la gravità, il buio. La traccia è stata curiosamente affidata ai maturandi del Liceo Artistico.

Per uno dei casi strani della vita, all’indomani di quelle tracce, mi è stato assegnato il compito di una lectio all’Università di Grosseto, sull’amore come prendersi cura dell’altro; lezione rivolta agli studenti di scienze infermieristiche. La mia competenza in materia è naturalmente nulla dal punto di vista professionale, tecnico-scientifico: mi avevano chiesto di parlare del mio saggio sull’amore necessario nella chiave del prendersi cura dell’altro. A ben pensarci, è un errore ritenere che curare sia solo una questione professionale, di abilità tecnico-scientifica. Il limite della cura oggi è proprio questo: la sostituzione dell’umanità con la tecnica. Che poi equivale a sostituire il malato con la malattia, concentrandosi sulla diagnosi, la degenza e la terapia, prescindendo dalla persona, dalla sua vita e dalla sua sensibilità affettiva. Curare in questo modo è un curare a metà, e un curare l’effetto (localizzato), trascurando la causa. Il malessere va invece riportato alla sua radice, contraria non solo al benessere ma avversa all’essere, a tutto l’essere. Nella cura è preziosa una visione olistica e non atomistica del paziente.

Viviamo in una società largamente sotto cura, medicalizzata se non ospedalizzata, in cui tutto – dalla nascita alla morte – passa dal nosocomio. E tutto, dall’alimentazione allo sport, dal modo di vivere al modo di pensare, passa sotto la sorveglianza della cura. Un tempo c’erano cose che andavano fatte perché giuste, perché vere, doverose o da farsi per fede e spirito di sacrificio; oggi l’unico vero assoluto è quello salutista, devi farlo perché ti fa bene: non c’è più l’idea del Bene ma del mio bene. Non c’è un’etica della cura ma solo autoconservarsi, a cui corrisponde un curare per prestazione professionale. Ma la società della cura si caratterizza per il suo contrario, come società dell’incuria, in cui il verbo più diffuso nella pratica di vita è trascurare. Cura vuol dire attenzione, premura, dedizione verso gli altri, a partire dai più vicini: e verso il mondo, a partire da quel che ti circonda. Ovvero, partendo da tua madre e dalla pianta sul balcone di casa.

Un filosofo tacciato di essere troppo astratto, troppo oscuro e anche oscurantista e perfino nazista, Martin Heidegger, si dedicò alla Cura (Sorge) e la ritenne il perno dell’esistenza. Heidegger distingueva la cura, come la vita, tra autentica e inautentica: la cura è autentica se aiuta l’altro a curare se stesso, è inautentica se lo tratta da malato e da oggetto, lo lascia passivo, privo di libertà e di coscienza. La prima forma della cura è dunque per Heidegger un’arte maieutica come quella di Socrate e di sua madre, levatrice: tirar fuori dalla persona che hai davanti l’energia, la voglia, la coscienza di curarsi.

Qual è l’origine mitologica della cura? La racconta uno scrittore romano di duemila anni fa, Igino. Cura, una divinità minore, ai bordi di un fiume modella un essere dal fango e chiede a Giove di alitargli dentro il fiato della vita. Ma poi sorge una vertenza: Giove rivendica a sé l’essere a cui ha dato la vita, la Terra a sua volta reclama a sé l’essere perché il suo corpo è fatto di terra. E il giudice supremo, in questo caso Saturno, più che salomonicamente tripartisce l’uomo-humus: alla sua morte la sua anima tornerà a Giove e il suo corpo tornerà alla Terra. Ma in vita di lui si occuperà lei, Cura. Dunque vivere è aver cura, prendersi cura. Ma non solo degli altri. Un filosofo dei nostri tempi, Pierre Hadot, esortò a compiere esercizi spirituali che avevano come scopo primario la cura di sé. Non si tratta di ribadire il primato egoistico; aver cura di sé è la premessa per aver cura degli altri e del mondo. Chi cura sé stesso cura anche gli altri, e viceversa. E comunque, l’uno non va scisso dall’altro. Molte cose non ho condiviso di don Lorenzo Milani ma la sua insistenza sul motto I care, io mi prendo cura, costituisce sicuramente la cosa più bella che abbia detto e fatto il parroco ribelle della Barbiana. Poi si può tradurre quell’I care in retorica altruista, in assistenzialismo parassitario, in giustificazione di ogni crimine ed errore se compiuto da chi era bisognoso. Ma la radice generosa, non solo evangelica, di quel principio resta esemplare nell’ambito della carità e dell’agape, come la chiamavano i greci.

Tra le definizioni greche dell’amore che presi in esame in quel libro, c’era pure la Storge, che somiglia anche alla Sorge, la cura heideggeriana, e che riguarda proprio il prendersi cura, aver tenerezza. Il suo ambito originario e primario è l’amore per i propri famigliari, della madre per suo figlio, del figlio per il suo vecchio padre. A conferma che la matrice della cura e il modello a cui riferirsi resta per così dire a conduzione familiare. Da lì dovrebbero trarre esempio il medico e l’infermiere. Alla richiesta di consigli “di pratica filosofica” nella cura, da parte di alcuni operatori sanitari, mi sono permesso di suggerire tre o quattro piccole cose. La prima, lo dicevo all’inizio, è quella di non avere davanti un malato ma una persona, è lui che va curato, non la malattia. È importante. Questo comporta di non limitarsi a osservare i protocolli sanitari e usare con loro metodi standard e linguaggi prestampati: ma bisogna cercare di entrare nella loro vita, conoscerli e commisurare il trattamento al loro stato e alla loro sensibilità. Chiedetegli, ho detto loro, non solo le cose attinenti la malattia, ma qualcosa della loro vita, della medaglia che portano al collo, dei loro famigliari; per farli sentire a casa, per creare fiducia in voi e sentirsi accuditi e forse un po’ amati. E ai malati incurabili non usate procedure standard, valide per tutti, adattate le parole al loro stato emotivo: siate rassicuranti e placebo con chi non vuole sentirsi terminale; siate più diretti, con verità e dolcezza, a chi esige il vero. A proposito del rapporto col paziente, ho detto qualcosa a proposito dell’abitudine di alcuni infermieri e medici a dare il tu al malato: se c’è quell’attenzione alla sua vita e alla sua sensibilità, allora va bene usare il tu, sapendo che anche lui si sente, come con un amico, di dare il tu a voi. Ma se il tu denota una superiorità e un disprezzo, una noncuranza per la sua vita fuori e prima di finire ricoverato; se lo fa sentire un numero in balia di un altro o di un arcigno mostro anonimo, l’Ospedale, allora nuocete al malato e non lo aiutate ad aiutarsi, cioè a collaborare con voi per la cura.

A volte bisogna prendere lezioni dal passato: prendete ad esempio tanti medici condotti di una volta, con la loro umanità e spesso anche con la loro formazione umanistica, la loro cultura non solo medica; capivano di avere avanti un uomo, ne conoscevano la storia e la famiglia, e loro si, pur disponendo di poveri mezzi medici, rispetto ad ora, si prendevano cura di lui. Andate a lezioni di umanità da loro. Così curerete meglio lui e curerete anche voi stessi; vi motiverà, vi darà più risultati e alla fine farà bene anche a voi. Il bene è contagioso, almeno quanto il male.

Marcello Veneziani                                 

Per educare i giovani bisogna lasciarli liberi di sperimentare il peso della vita .

“Come ci racconta Crepet i genitori moderni preferiscono che i propri figli restino a casa, in una comfort zone…”
“Una volta si diceva: ‘Questa casa non è un albergo’. Oggi, invece, diciamo ai figli: ‘Rimanete qui con noi, per favore’”. Le parole di Paolo Crepet tracciano un quadro lucido e provocatorio su come sia cambiato nel tempo il rapporto tra genitori e figli. Una riflessione che, con forza, ci porta a chiederci: stiamo davvero aiutando i nostri ragazzi a crescere?
Come ci racconta Crepet i genitori moderni preferiscono che i propri figli restino a casa, in una comfort zone, che non consente ai ragazzi di forgiarsi, di creare una loro corazza per vivere in maniera autonoma la propria vita, queste le sue parole: “I nostri genitori ci dicevano: ‘Questa casa non è un albergo’. Adesso, invece, diciamo ai nostri figli: ‘Questa casa è un albergo. Rimanete qui con noi, per favore. Non andate via’. La parola libertà è diventata una chimera. Nel dopoguerra c’era tantissima voglia di fare, quello è stato il tempo dei capolavori del cinema arditi e provocatori. Oggi, al contrario, insegniamo ai ragazzi a vivere in comfort zone, in comodità: divano, maschera, vision pro, Playstation, ‘stai tranquillo amore mio’. Quando sentite ‘amore mio’, scappate”.

Una riflessione amara ma significativa: stiamo abituando i giovani a evitare le difficoltà, privandoli della possibilità di costruirsi una “corazza”, come dice Crepet. E questo si traduce anche nei piccoli gesti quotidiani, come il portare lo zaino dei figli. Ormai i genitori si sono sostituiti ai figli a tal punto da portare il loro zaino di scuola, quasi come a dire ‘QUESTO PESO LO PORTO IO’ ma come ci spiega l’esperto per raggiungere grandi cose servono sacrifici, serve fatica, serve che i ragazzi inizino a provare cosa significa portare un peso sulle spalle già da piccoli: “Ormai è diventato insopportabile anche il peso fisico dei libri.  Ma portare il peso dei libri è una chiara metafora: se vuoi vivere davvero, farai fatica. La vita è faticosa. Ci sono tantissimi genitori che accompagnano i figli a scuola anche durante gli anni della scuola superiore. Mio padre non sapeva neanche dove fosse il mio liceo. Secondo lui, il liceo era una cosa mia, era il mio lavoro. Lui faceva il medico e io non entravo nelle sue questioni lavorative, così io andavo a scuola e lui non si intrometteva nelle mie faccende”.

Viviamo in un’epoca in cui tutto corre veloce, in cui la comunicazione si è fatta sempre più immediata ma, paradossalmente, sempre meno profonda. In questo contesto, diventa fondamentale recuperare il valore della quotidianità e della fatica, elementi che un tempo costituivano la base dell’educazione e dei rapporti umani. A tal proposito, l’esperto sottolinea quanto sia importante “tornare ai valori di un tempo, far capire ai giovani che ogni cosa ha un valore, partendo già dalla semplice quotidianità”.  Per esempio possiamo dare spazio ad un semplice dialogo mentre si pranza o si cena insieme ai propri figli, per voler riconoscere un’importanza alla loro libertà di opinione e questi piccoli gesti, queste piccole conversazioni, apparentemente prive di significato in realtà nascondono un senso profondissimo che col tempo si radica nella loro mentalità. A tal proposito Crepet aggiunge : “Una volta ti insegnavano che la scuola è fatica, che il lavoro è fatica, che l’amore stesso è una fatica. Se non insegniamo ai più giovani che ogni cosa ha un peso, un prezzo, che comporta una parte di sudore, come possiamo pretendere che loro stessi diano valore alle cose e alle persone?  Chiediamoci tutti quanto è durata l’ultima cena che abbiamo fatto insieme a nostro figlio o/a nostra figlia. Tredici minuti? E magari con lo smartphone acceso? Fare domande profonde richiede coraggio, anche quello di sentirsi rispondere con riluttanza, ma fa parte del gioco: saperli ascoltare vuol dire mettersi in gioco ogni giorno. ”

Bisogna insegnare ai propri figli il coraggio, la responsabilità partendo da gesti semplici ma che hanno un significato profondo, ecco perché, come ci suggerisce l’esperto: “per educare è necessario togliere, non aggiungere. Solo così si allena al desiderio”.

 

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Noi il bene, loro il male. Così l’umanità sta peggio.

Qui il Bene, là il Male. Noi siamo il Bene, loro sono il Male. Quanto male può fare una divisione così drastica, perentoria, manichea, stabilita da una parte contro l’altra; quanti danni pubblici e privati, generali e particolari. Quanto razzismo si nasconde dietro quell’irrimediabile demarcazione tra i due regni. Dopo la settimana santa di Pasqua, è venuta la settimana manichea: da qui c’è il Bene, di là c’è il Male, solo il Male.
Non solo fascismo e antifascismo per il 25 aprile, ma anche la sfilata dei grandi ai funerali di Bergoglio è tutta una classifica tra il bene e il male: il bene è chi sta dalla parte di Bergoglio, il male è chi sta dalla parte di Trump o di Musk. E poi, in generale, il bene è femmina, il male è maschio; anzi il bene è trans e il male è la natura, con le sue differenze. Il bene è migrante, il male è restante. Il bene è straniero, il male è nostrano. Il bene è woke, il male è chi si attiene alla realtà. E via favoleggiando di bene in male, di male in peggio. Non si tratta di relativizzare e confondere il bene e il male, o di andare al di là del bene e del male; il problema è che qualcuno ritiene di avere il monopolio del bene e la facoltà di assegnare il male a chi gli si oppone, a prescindere dalla verità e dalla realtà.
Ad esempio la radice assurda del manicheismo applicato al fascismo e all’antifascismo è nella convinzione che il fascismo e il male si identifichino; sono la stessa cosa. Non a caso si definisce il fascismo come male assoluto ed eterno, come un tempo si definiva solo il Diavolo. Ergo, è sempre ora di antifascismo. In realtà il male non è nato con il fascismo, ma è purtroppo connaturato all’uomo, da quando esiste; esattamente come la vocazione al bene. Il male è nella storia dell’umanità, da sempre, e non appare solo in un angolo del Novecento o in una sola forma; il male ha varie forme. Analogamente, il male esiste anche oggi ed esisterà pure domani, e non ha senso chiamarlo ancora fascismo, non c’entra, è un’altra cosa; come era un’altra cosa il male che ha accompagnato l’umanità prima che spuntasse il fascismo. Ogni epoca ha le sue croci e le sue delizie. Eternizzare il fascismo, universalizzarlo, significa uscire dalla realtà e uscire di senno: è come definire fascista Gengis Khan o le invasioni marziane.
In secondo luogo, nessuno ha diritto innato di stabilire a suo insindacabile e unilaterale giudizio ciò che è bene e ciò che è male, decretando condanne e punizioni, inclusioni ed esclusioni. Men che meno le parti politiche e sociali, che sono appunto parziali; non a caso si chiamano partiti. La presunzione di una parte della cittadinanza di giudicare in permanenza l’altra parte, e di stabilire chi rappresenta il male e chi il bene, è il vero male radicale della nostra democrazia e della nostra società. Genera odio, esclusione, razzismo; esattamente quel che si imputa a priori alla parte avversa.
Lo schemino del bene e del male funziona però a pieno regime, e arriva a capovolgere la realtà. Ho davanti agli occhi il pronunciamento di 150 università e college americani contro “l’ingerenza dell’amministrazione Trump” che mina “l’indipendenza dell’istruzione superiore negli Stati Uniti”. Tutto nasce dall’azione giudiziaria avviata dall’Università di Harvard contro la decisione della Casa Bianca che ha congelato 2,2 miliardi di dollari di fondi pubblici federali, che a loro dire mira a “cancellare l’autonomia accademica e piegarla a fini ideologici”. Siamo davanti a un caso perfetto di scuola orwelliana. I fatti sono semplicemente a contrario: le università americane, come Harvard, in preda al delirio ideologico woke e alla sua tirannide, usano i fondi pubblici, cioè di tutti i cittadini, anche di coloro che votano Trump o non si riconoscono in nessuna ideologia, per imporre a docenti e studenti un’asfissiante cappa politically correct, e un corso intensivo di auto-mortificazione collettiva: l’Occidente bianco e cristiano deve vergognarsi della sua storia e dei suoi valori, della sua civiltà e delle sue tradizioni civili e religiose, e deve accogliere il lessico, il comportamento, l’ideologia woke e la sudditanza afro-asiatica. Se non lo fa, viene penalizzato, emarginato, additato al pubblico disprezzo e infine escluso.
Questa situazione genera disagio e rigetto nella popolazione, tra gli studenti e i prof che vogliono semplicemente insegnare, studiare e far studiare e non propagandare messaggi ideologici e moralistici. Se non volete credere a noi, leggete quel che scrive da tempo Federico Rampini a proposito di questo rigetto popolare, che è stato una delle cause che ha determinato il successo di Trump alle elezioni presidenziali. Coerentemente col suo programma elettorale con cui ha chiesto e ottenuto i voti per tornare alla Casa Bianca, Trump è di parola e ora con i fatti vuole ripristinare il buon senso comune, la realtà dei fatti e la mission dell’istruzione superiore e delle università. In America, la lotta all’ideologia woke non è solo un modo di dire o un comizietto per acchiappare consensi, come da noi, ma un impegno preciso, concreto. Così Trump subordina il finanziamento pubblico all’osservanza di questi requisiti elementari, a garanzia di tutti e non solo a sostegno di una parte. Non censura, non cancella, non perseguita, semplicemente dice loro: se volete continuare a svolgere corsi partigiani e ideologicamente orientati, fatelo da voi, trovatevi gli sponsor e fatti vostri; ma i soldi pubblici no, non potete usarli per somministrare le vostre prediche ideologiche, la vostra intolleranza e le vostre censure. Esattamente il contrario di quel che viene raccontato: Trump non censura ma rimuove le censure; non orienta ideologicamente ma si oppone a chi lo fa, e rende esplicito un criterio: se vuoi fare catechismo della tua parte, lo fai con i soldi della tua parte, non con quelli di tutti i cittadini. Perdi anche le agevolazioni fiscali, le esenzioni riconosciute per l’istruzione; perché non è istruzione pubblica ma propaganda di parte.
Naturalmente la setta intellettuale è insorta: il filosofo progressista Michael Sandel parla di minaccia reale alla democrazia, e paragona Trump a Orbàn e Erdogan (manca Putin, strano). Lo considera un attacco ai media, alla cultura e alle università. Ma lui stesso poi ammette che negli Usa «la fiducia nell’istruzione superiore è calata dal 57% nel 2015 al 36% nel 2023. Tra i repubblicani è crollata al 19%». Ci sarà un motivo? Poi Sandel se la prende con la meritocrazia, rispolverando vecchi argomenti egualitari e pauperisti, fallimentari alla prova dei fatti.
Certo, Trump è ruvido e grezzo, non ama la cultura, preferisce gli affari, detesta l’Europa e impone odiosi dazi; ma in fondo è omeopatico, reagisce all’intolleranza, alla discriminazione ideologica e al manicheismo in modo adeguato, cioè rude ma efficace. Per dirla in una battuta: la destra dei valori, la destra colta, civile e umanista non merita di essere rappresentata da uno come Trump, tutto muscoli, cresta e soldi; ma la sinistra manichea, classista e intollerante si, merita Trump in tutto il suo brusco splendore, con tutte le sue trumpate. Non tutti i mali vengono per nuocere, soprattutto se nuocciono a chi fa del male, e dice pure di farlo a fin di bene.

Marcello  Veneziano

Per chi è convinto che conoscere il latino sia cosa inutile, ecco alcune parole bellissime di Don Milani,scritte al tempo in cui il latino ancora veniva insegnato, ma non a tutti…

Sono otto anni che faccio scuola ai contadini e agli operai e ho lasciato ormai quasi tutte le altre materie. Non faccio più che lingua e lingue. Mi richiamo dieci, venti volte per sera alle etimologie. Mi fermo sulle parole, gliele seziono, gliele faccio vivere come persone che hanno una nascita, uno sviluppo, un trasformarsi, un deformarsi. Nei primi anni i giovani non ne vogliono sapere di questo lavoro perché non ne afferrano subito l’utilità pratica. Poi pian piano assaggiano le prime gioie. La parola è la chiave fatata che apre ogni porta. L’uno se ne accorge nell’affrontare il libro del motore per la patente. L’altro fra le righe del giornale del suo partito. Un terzo s’è buttato sui romanzieri russi e li intende. Ognuno di loro se n’è accorto poi sulla piazza del paese e nel bar dove il dottore discute col farmacista a voce alta, pieni di boria. Delle loro parole afferra oggi il valore e ogni sfumatura. S’accorge solo ora che esprimono un pensiero che non vale poi tanto quanto pareva ieri, anzi pochino. I più arditi han provato anche a metter bocca. Cominciano a inchiodar il chiacchierone sulle parole che ha detto.

Don Lorenzo Milani

OIP (1)

Bentornati Maestri…

 

 

Torna la storia, torna la geografia, torna l’Italia, torna il latino nelle scuole italiane. Insomma torna un’idea di civiltà, di cultura e di educazione umanistica nella scuola italiana; non solo istruzione, formazione, tecnologia e attualità. È questo il succo dell’annuncio del ministro della Pubblica Istruzione, Giuseppe Valditara, e non possiamo che essere d’accordo con le intenzioni del ministro e dei suoi esperti. E speriamo che i fatti siano all’altezza delle intenzioni.

La storia, è verissimo, è necessaria per formare cittadini “consapevoli e responsabili” e la rimozione della memoria storica nel nostro paese (con la sola eccezione di fascismo, razzismo e antifascismo, come se il mondo fosse nato con la seconda guerra mondiale) è una perdita incommensurabile per ogni paese. Ma ancor più per il nostro paese che sulla grande tradizione civile, umanistica, linguistica e storica ha fondato la sua ricchezza e il suo primato mondiale. Giusto anche il criterio della prossimità territoriale: è giusto che la storia e la cultura italiana vengano prima di quelle internazionali, ed è giusto che la storia europea e occidentale abbia la precedenza sulla storia del mondo e del terzo mondo, verso cui propende una certa ideologia dell’inclusione, dell’accoglienza e dell’amore per il lontano, con l’ignoranza e l’indifferenza per tutto ciò che è a noi più vicino. È un criterio che vale per la storia come per la geografia, per il pensiero come per l’arte e la musica, giustamente potenziata nelle intenzioni della riforma, per un paese così versato nel canto e nell’opera.

Il tema di fondo da affrontare è il ruolo della scuola nella società presente: la scuola non deve andare a rimorchio di quel che fa tendenza oggi; la sua missione e la sua ricchezza è quella di dare ai ragazzi una visione generale, una chiave di lettura, un sapere critico che consenta poi di governare e cavalcare i flussi della nostra via moderna. Non un sapere contro la società, ma un sapere come contrappeso che bilanci una società interamente schiacciata sulla tecnica, sul web, sull’economia e sulla finanza. La scuola, arrivai a dire in passato, deve seguire la lezione di Dante, che elogiava il suo maestro Brunetto Latini perché “Voi m’insegnavate come l’uom s’etterna”. Ovvero la scuola, soprattutto i licei, deve fornire al ragazzo le chiavi per abitare altri mondi oltre il presente: il passato, il futuro, la cultura, il senso dell’eterno, ovvero ciò che non passa, è permanente. Deve insegnare cioè a una società interamente presa dalla connessione on line, anche la connessione verticale, con le epoche e le generazioni passate e con quelle che verranno.

In una parola, la scuola deve riprendere il senso dell’eredità, il rispetto e la lezione dei maestri, degli autori e delle autorità, il dialogo con le altre epoche, premesse indispensabile anche a dialogare con le altre società e con gli altri mondi presenti. Lo dico anche da autore di un libro, Senza eredi che è incentrato proprio sulla denuncia di un’epoca che cancella eredità, maestri e memoria storica. A partire dai classici e dallo studio del latino, che si riaffaccia seppure in chiave facoltativa – come era ai miei tempi – anche nella scuola media dell’obbligo. Riconciliamoci con la nostra lingua madre e con la civiltà da cui proveniamo. Verrà incoraggiata, apprendo, anche la lettura della Bibbia, le poesia a memoria, i testi epici della letteratura classica. E di questo dobbiamo esser grati anche ai tanti esperti che hanno sostenuto queste tesi e al ministro che non ha avuto il timore di sostenerle. Non abbiamo risparmiato critiche e perplessità in passato a Valditara, non amiamo i cedimenti, le compiacenze e le piacionerie di chi crede di salvarsi assecondando la demagogia e l’egemonia ancora imperante; ma quando una cosa ci sembra giusta, coraggiosa e pertinente, anzi necessaria, e quando ci pare che giovi alla scuola, agli studenti e anche ai docenti, ripristinando il ruolo, la missione e la dignità della scuola, mi pare che vada sostenuta senza indugi. Poi, certo, quando dovrà calarsi nella realtà vedremo come si riuscirà a farlo, con quale personale, con quali reazioni, con tutti i dubbi che abbiamo su larga parte dei docenti, e nel clima d’epoca con la pressione ideologica e mediatica che scatterà per annacquare, boicottare o avvelenare i propositi. Intanto, siamo soddisfatti per gli annunci, per le intenzioni e per la visione che li ispira.

Un tempo gli studenti contestavano la scuola voluta dai governi del centro-destra perché ritenevano che fosse succuba di un’idea “berlusconiana” di succursale dell’impresa, subalterna al commercio e al mercato; ricordate le polemiche contro le fatidiche tre i, impresa, internet e inglese. Anch’io ho più volte detto che i ragazzi lo spirito d’impresa, la capacità di usare il computer e di imparare l’inglese li apprendono più dalla vita, dall’esperienza reale di ogni giorno, insomma imparano più sul campo che nella grottesca, tardiva e impacciata caricatura scolastica, ad opera peraltro di un personale non attrezzato per quei tre compiti. La scuola non deve inseguire il mondo, l’attualità, le utilità più effimere, soprattutto in una società fondata sul commercio, i consumi, le performance tecnologiche; refrattaria al sapere umanistico, che reputa inutile e obsoleto. Ma, vedrete, ora contesteranno a Valditara l’esatto contrario di quel che contestavano ai governi Berlusconi e al ministro Letizia Moratti: di riportare la scuola al passato, a un versione reazionaria, nazionalista, anzi suprematista, tardo-umanistica, provinciale e italocentrica.

L’ignoranza avanza, la barbarie corrode ogni giorno pezzi di società, di scuola e di vita, l’incuria prevale e si fa menefreghismo più accidia. I prof diventano istruttori e intrattenitori, a volte le classi sono affollate d’insegnanti di sostegno, come in un suk di avventori, balie e animatori. Cercare di risalire la corrente, avere il coraggio di invertire la discesa, perlomeno provarci, è finalmente un buon segno di vita e di intelligenza. Bentornati maestri, docenti, anzi insegnanti, cioè persone che lasciano un segno.

Marcello Veneziani

Crepet: “bisogna crescere i figli con l’idea di dover conquistarsi la vita, meritarsela. Valorizzare il merito per progettare un’idea nuova e più severa di educare”

 

Viviamo nella società dell’appiattimento dove le nuove generazioni concepiscono sempre più l’idea che non vi sia più nulla di essenziale da desiderare, perseguire, cambiare, così da far venire meno un elemento fondamentale ed imprescindibile per la crescita e lo sviluppo personale: la rabbia.
Il sociologo e psichiatra Paolo Crepet ci spiega cosa intende per rabbia: “per rabbia non intendo certo la forza distruttiva che porta l’uomo a replicare la più cieca e stupida violenza, bensì quell’energia straordinaria che fa tenere la schiena orgogliosamente dritta («outstanding», dicono gli inglesi, cioè il collo mai piegato, dunque visibili nel proprio orgoglio di stare al mondo): ciò rende l’individuo capace di far fronte a ogni evento della vita – positivo o negativo- trasformandolo in occasione di crescita“, così ci spiega Crepet in maniera significativa ed offrendoci degli ottimi spunti di riflessione.L’ambizione esistenziale viene completamente soppiantata dall’idea di avere già molto più del necessario, così spegnendo ogni forma di progettazione o di creatività, all’insegna di nuove generazioni spesso demotivate, apatiche, ed ereditiere.”Nell’idea più intensa e forte di crescita dovrebbe, invece, essere contenuto anche – e soprattutto- l’impegno/dovere di modificare, creare: è necessario autorizzarsi a pensare che nel passaggio tra le generazioni non tutto ciò che hanno conquistato i padri dev’essere necessariamente consegnato ai figli. Occorre che crescano con l’idea di dover conquistarsi la vita, meritarsela”, queste la parole significative dello psichiatra.I genitori di oggi, onnipresenti ed estremamente servizievoli e accondiscendenti con i propri figli, hanno non solo perso la loro autorevolezza ma sembrano anche aver dimenticato cosa significhi davvero svolgere una funzione educativa, quella funzione guida che dovrebbe permettere una crescita sana e lo sviluppo della personalità di tanti giovanissimi. Ecco allora che sorge spontanea una domanda: garantire ai propri figli benessere e sicurezza per il futuro permetterà loro di crescere più forti e sereni? Lasciare loro in eredità soldi, appartamenti, macchine, può giovare o solo determinare conseguenze estremamente negative?A tal proposito Paolo Crepet, in maniera sempre molto originale e mai scontata, parla di «condono educativo».

“Il concetto è elementare e del tutto risolutivo. Se un figlio non ha voglia di far niente, nemmeno la fatica di studiare un giorno alla settimana, e corre il rischio di ripetere per la seconda volta l’anno scolastico, non bisogna perdersi d’animo: basta «condonarlo», ovvero disporre di qualche migliaia di euro, iscriverlo a uno dei tanti istituti privati che promette a chiunque – a prescindere da capacità o volontà – qualsiasi diploma senza il minimo sforzo”, così ci spiega Crepet a gran voce senza alcuna esitazione. Ecco allora che i genitori facilitano il percorso dei loro figli, annullando l’impegno e la fatica, ed insegnando loro che tutto può essere comprato e che con i soldi si può sempre rimediare. Sembra delinearsi un disinteresse nei confronti della scuola, nella quale non si investono risorse e per questo non si pretende neppure il conseguimento di risultati. Il messaggio educativo che viene trasmesso è che tutto deve essere semplice, raggiungibile, al di là del merito e della fatica. Questo è ciò che desiderano i genitori, deresponsabilizzandosi, ed anche ciò che desiderano i figli, rimandando all’infinito il confronto con la vita reale.”Da qui la necessità di progettare un’idea nuova di educare, in cui merito e fatica siano sinonimi nel determinare qualsiasi sbocco di vita; un’idea più severa di educare, che dia fiducia ai figli nella loro capacità di affrontare anche le sfide più difficili: un’idea che contenga un progetto di scuola fondata sulla valorizzazione del merito e non della furbizia. Una scuola senza scorciatoie, dove vai avanti solo se ti impegni a sapere, deve non contano i soldi per comprare i diplomi”, in tale maniera conclude la sua riflessione Paolo Crepet.