Pensieri stellari nella notte di San Lorenzo…

Come si diventa filosofi da bambini? Guardando le stelle. Era una sera d’estate e noi bambini passeggiavamo davanti ai grandi in campagna, a poca distanza dal mare, quando scoprimmo in cielo un arazzo grandioso di stelle. Alla meraviglia di quello spettacolo che a casa, in città, non avevo mai visto, udì la voce di mio padre che citava il suo Kant: “Due cose riempiono l’anima di ammirazione e di venerazione, il cielo stellato sopra di me, la legge morale dentro di me”. Senza capirla coglievo con mente puerile la straordinaria bellezza perché sentivo combaciare il mio essere al mondo, la visione delle stelle e il fremito che suscitavano dentro di me. Fu la prima percezione dell’armonia, della simmetria tra microcosmo e macrocosmo. Quella citazione mi spinse ad amare sin d’allora quella cosa strana che insegnava mio padre, e che era al tempo stesso la sua gioia e il suo lavoro, la sua missione e la sua professione. L’iniziazione alla filosofia partì da quella citazione e dalla connessione tra lassù e quaggiù.
Col tempo del disincanto quella citazione della Ragion Pratica apparve una didascalia dell’ovvio, un po’ manierista. Anzi, col tempo, parve lacunosa, perché contemplava il cielo stellato e l’anima, cioè la trascendenza e l’interiorità, ma non c’era nel mezzo il mondo, la storia, la terra, i legami comunitari, la famiglia, le eredità: era la fondazione metafisica, cosmica e morale dell’individuo solitario.
Però a ripensarci nelle sere d’agosto, davanti a un arazzo brillante di stelle, ti accorgi della sconfinata bellezza di quella massima che riesce a far collimare finito e infinito, coscienza e universo, estetica e morale, umano e celeste in armonioso equilibrio.
Il cielo stellato fu il primo altro regno, la prima figurazione dell’Aldilà, il luogo remoto dove abitano gli dei o dimora l’Essere. Le stelle sono la fonte luminosa del mistero, l’origine celeste della religione e della meraviglia da cui scaturisce il pensiero. Ma i cieli stellati cambiano se li vedi da Konigsberg, dove Kant nacque, visse e morì, o se li vedi dal Mediterraneo, dove il cielo stellato non è una rarità, ma è familiare nei cieli sgombri del sud.
Cosa ci attira del cielo stellato? La siderale distanza, la luce che brilla nel buio, la perenne fissità. Sono gli elementi costitutivi del Mito. Nietzsche lo chiamò Amore per il lontano ed è quella forza misteriosa che ti porta ad amare la lontananza e a fondare su quell’amore ogni proiezione spirituale ed elevazione morale. Il romantico s’innamora della loro distanza e patisce l’incanto; ma il saggio, come Plotino, ci spiega che in quell’amore del lontano c’è la nostalgia di lassù, perché la parte migliore di noi, non caduca, abita nei cieli e infine vi torna. Plotino dà forza e teoria a una percezione antica. In Patagonia le ultime tribù ancora pensano che le stelle siano le anime dei morti che vegliano nei cieli e praticano la caccia nella via lattea. Per Plotino le stelle sono dei a vista d’occhio, anime beate che vivono nella perfezione, contemplando il mondo intelligibile, superiori al tempo, al ricordo e all’attesa. Per noi che le vediamo da quaggiù sono il ponte col passato e con l’avvenire, conservano la memoria del mondo e insieme custodiscono le speranze del futuro, stanno lì da sempre. Che le stelle siano il ponte col passato ce lo spiega proprio la loro lontananza: distano anni luce, e quella misura iperbolica, spazio-temporale, ci dice che noi vediamo delle stelle il passato, è il loro ricordo che giunge a noi dopo anni di distanza. Lo spazio e il tempo si fondono nella lontananza. La spiegazione astrofisica combacia con la visione poetica: le “vaghe stelle dell’orsa” suscitano le Ricordanze leopardiane. Fiorisce la nostalgia, che è il dolore della distanza. Ma le stelle sono anche il calice delle nostre speranze. Nel De bello gallico, Giulio Cesare usò l’espressione de sideribus riferendosi ai soldati che aspettavano sotto le stelle il ritorno dei loro commilitoni dal campo di battaglia. Quell’attesa speranzosa era affidata alle stelle, il ponte che li collegava ai loro fratelli al fronte: quell’attesa fu chiamata desiderio.
Da dove scaturiscono le stelle? Gli astrofisici hanno le loro risposte. Gli umanisti si accontentano di almeno un paio: quella dantesca, “L’amor che move il sole e le altre stelle” che allude a un’energia originaria, e quella nietzscheana “E dal caos nacque una stella danzante” che evoca il magma iniziale e il big bang. Non a caso con le stelle si concludono le tre cantiche della Divina Commedia.
Ci incanta la stella cometa, guida del cammino verso il divino, luce regina dei presepi domestici con le volte stellate di carta, i nostri cieli in una stanza. Vedere la cometa è concesso forse una volta nella vita. Ernst Junger scrisse in un denso libretto del suo privilegio di aver visto “Due volte la cometa”, a 75 anni di distanza. L’incanto delle stelle cadenti nella notte di San Lorenzo nasce dal contrasto tra la fissità perenne e remota delle stelle e la loro spettacolare caducità semel in anno.
Prezioso il consiglio di Pavel Florenkij inviato dal gulag ai suoi figli: “Quando provate dolore nell’anima guardate le stelle. Quando vi sentite tristi, quando qualcuno vi offende, quando non vi riesce qualcosa o vi sovrasta la tempesta interiore, uscite fuori e rimanete a tu per tu con il cielo”. Ci sono tante cose in cielo e in terra oltre il nostro piccolo ego. Male è trascinare le stelle in terra e farne utopie per stravolgere il mondo. Restituiamo le stelle alla loro siderale, inerme lontananza, tra sovrumani silenzi, interminati spazi e profondissima quiete. Il naufragare è dolce, nel mare di stelle. Il cielo stellato è nostalgia allo stato puro, non per un tempo passato o per un luogo remoto, ma per un’origine dimenticata. Come stelle filanti noi passiamo, il cielo resta.

MV