La deriva autoritaria di Giorgia Meloni…la nuova parola d’ordine.

 

Dal mese di giugno è partita una nuova moda pret-a-porter: la deriva autoritaria. Si porta così, come uno scialle trasversale, tra i fianchi e il collo, e avvolge tutto; si sfila con la mano alzata in segno di saluto romano, il passo dell’oca, e sono botte da Orban per giudici, corte dei conti, stampa e gay pride. Sullo sfondo i cadaveri appesi di Fazio, Littizzetto e Annunziata, che si sono suicidati preventivamente per accusare il regime di strage.
Me la sono vista, la regina de noantri, la Giorgia de Melonis, andare spedita verso la deriva autoritaria mano nella mano a Joe Biden, l’altra manina che tocca il Papa, l’agenda Draghi sotto il braccio, gli abbracci appassionati a Zelenskij, gli stivaloni da vecchio regime che gli ha donato il ducesco Bonaccini per guadare il fango e gli occhioni minacciosi fuori dalle orbite e dall’orbace, come la Buonanima. Il battesimo del regime è annunciato urbi et orban dai quotidiani dei proletari italiani, fino a ieri del compagno lavoratore Carlo De Benedetti e oggi del compagno lavoratore John Elkann, operaio della Fiat, esule all’estero con la sua botteguccia, per amor di libertà e di fisco.
Se la Meloni proroga le norme introdotte da Mario Draghi sulla Corte dei Conti in quel tempo si chiamava efficientamento e modernizzazione, oggi si chiama ducettismo e svolta autoritaria. Se a finanziare le armi in Ucraina lo fa la Meloni col suo feldmaresciallo Crosetto, è guerrafondaia, se lo fa Draghi, la sinistra, e ampi paraggi è per la pace e la democrazia contro il tiranno. E poi se la Regione Lazio nega il patrocinio al gay pride perché sostengono gli uteri in affitto, che è reato, la deriva autoritaria si colora di omofobia, persecuzione dei trans, negazione della libertà e del diritto d’opinione. Non capiscono la differenza elementare tra il diritto di manifestare – che nessuno tocca, lede o minaccia – e il dovere degli enti pubblici di unirsi a manifestare per il gay pride, sottoscrivendo le loro battaglie senza battere ciglio.
Se un ente locale desse il patrocinio a una processione religiosa, griderebbero all’oscurantismo, alla deriva autoritaria. Invece il patrocinio al gay pride va dato, e se non lo dai sei liberticida. E’ un’Ideologia di Stato da osservare. Questa è la protervia della sinistra italiana guidata dallo Zan Alessandro: la libertà non è il tuo diritto di sfilare, comiziare  e manifestare, ma è l’obbligo della Repubblica di essere dalla tua parte, dare un carisma di ufficialità e di protocollo al tuo corteo e ai tuoi slogan. Ma non ho fatto in tempo a pensare che la decisione della Regione Lazio dovrebbe essere estesa a tutti gli enti locali, che la stessa Regione Lazio, impaurita dalle reazioni, ha fatto retromarcia, ed è pronta a dare il patrocinio purché non si faccia campagna sulla maternità surrogata. Il sindaco di Roma, Gualtieri, si è affrettato a dare il patrocinio. Avesse la stessa solerzia per pulire una città che è riuscito nel miracolo di peggiorarla rispetto ai tempi della Raggi… Perché non dare il patrocinio anche a chi sostiene tesi e visioni opposte, come Pro Vita e altre associazioni in difesa della famiglia e delle nascite?
La svolta autoritaria ha ormai quasi trent’anni, se non vogliamo risalire ai governi democristiani (vi ricordate ad esempio il fanfascismo?) Da quando arrivò Berlusconi al governo si gridò alla dittatura, alla svolta autoritaria, all’epoca sudamericana anziché polacco-ungherese. Berlusconi andò tre volte al governo con libere e democratiche elezioni, accettò i verdetti elettorali che lo davano per sconfitto e l’ultima volta andò via senza resistenza anche quando fu fatto fuori da un mezzo golpetto bianco, rosso e merdone; votò perfino a favore del suo successore tecnocrate e poi addirittura per la conferma al Quirinale del suo mandante. E nel mezzo, durante i suoi governi, fu attaccato come mai nessuno da magistrati, stampa e poteri grossi su tutti i fronti, persino dentro le mutande. Insomma questa fu la dittatura di Berlusconi, che semmai può essere accusato del contrario, di aver cambiato davvero poco. Il suo difetto non era l’autoritarismo semmai il contrario, la compiacioneria.
Ma a fronte di tutto questo, impunemente, gli stessi che ieri gridavano alla dittatura berlusconiana oggi gridano alla dittatura meloniana (che il mio correttore automatico, chissà per quale allergia ai cocomeri o ai conservatori, traduce in melanzana). E tutti sanno bene che una cosa del genere non la vuole nessuno, nessuno è in grado di instaurarla e a nessuno sarebbe permesso farlo, nel contesto interdipendente e subalterno in cui viviamo. Se c’è una cosa da notare del governo Meloni è il suo essere del tutto allineato alla Nato, agli Usa, alla Ue, alla linea Draghi, a Mattarella e all’establishment che contestava dall’opposizione. Di tutto la si può accusare, inclusa l’abdicazione alla sovranità, meno che di instaurare un regime dittatoriale (o per i comici della sinistra radicale, il fascismo). Ma la denuncia di un governo “d’estrema destra” che scivola verso l’Ungheria, dopo la fatwa lanciata dal vecchio ayatollah Romano Prodi, diventa subito parola d’ordine: deriva autoritaria. Ecco pronto il kit della collezione partigiana primavera-estate che l’indossatrice Elly Schlein, consigliata dall’armocromista, lancerà nel campo della moda politica. E pubblicherà il suo manifesto su un altro organo dei lavoratori, detenuti nella Ztl, Vogue, con tanto di sue foto in posa mentre con un décolleté libero, uguale e transessuale partirà eroicamente per la guerra di liberazione cantando fieramente: Orchetta nera, belva missina. E i vecchi neofascisti così pochi, così sconfortati, sentendo la vaga assonanza con Faccetta nera bell’abissina, si sveglieranno dal loro antico, mesto torpore e sogneranno per un momento che stia davvero tornando il Duce. A Elly, e ai suoi compagnucci della stampa e propaganda, sono affidati ormai i loro sogni nostalgici.

  MV