Bollingen (Svizzera) 27 settembre 1913 – Quando Carl Gustav Jung piangeva prima di diventare se stesso

Mi è piaciuto molto quest ‘articolo. Ci viene raccontato un momento della vita di Jung, dove questo medico scienziato, al quale si deve la nascita della psicanalisi, insieme a Freud, ci viene presentato con tutte le debolezze, le paure, le angoscie degli uomini. Evidentemente i suoi tormenti l’hanno aiutato in quegli studi, che oggi sono a disposizione di chiunque abbisogni di aiuto nel conoscere se stesso . L’autore è Cesare Catà, blogger di HP.

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Perché, nella modesta casa canonica a Kleinhüningen, dove suo marito è pastore, Emilie Preiswerk, sposata Jung, volga improvvisamente lo sguardo altrove dai suoi ricami e scoppi a piangere a dirotto, in un qualsiasi martedì pomeriggio del 1880, non è chiaro; anzi, al suo bimbo di cinque anni, Carl Gustav – che è l’unico in tutto il cosmo ad accorgersi dello zampillo assurdo di quelle lacrime – si scatena un terrore dentro al cuore quando la vede. Il bambino guarda la madre intensamente, senza dire niente, indagando con i piccoli occhi chiari la stanza, per capire cosa sia successo, chi le abbia fatto così male. Ma non c’è nulla: nessuno. Non ha radice, quel dolore. C’è solo un vasto silenzio nell’aria, che detona in un’eco di ansie mute. Quando Emilie riconosce la paura negli occhi del figlio, si asciuga le lacrime con il grande fazzoletto rosa che tiene sempre in tasca e gli sorride, come a dirgli: “non è niente, mamma sta bene”. Anche Carl Gustav sorride, d’istinto, di rimando, ma il terrore provato gli resta dentro. Quel terrore che non capiva il soffrire della creatura che più amava. Torna ai suoi giochi solitari con un’angoscia nuova.

Anche se è un medico, un filosofo, impegnato a Burghozli in uno dei maggiori centri di cura psichiatrica svizzera, lo sguardo di Carl Gustav Jung, alla fine dell’estate del 1904, non è molto diverso quando una diciannovenne strillante, di nome Sabine Spielrein, varca le porte del sanatorio. Geme, ride, urla come se fosse penetrata da lame, si lamenta e dice cose apparentemente senza senso. Il dottor Jung la prende in cura.

Seduta nella stanza bianca, contorta da ondate di tic che le sfigurano il volto, il dottore la percepisce piena di un’energia che non comprende appieno. È come se le sue strilla provenissero da una camera di tortura chiusa dentro la sua mente, di cui si è perduta la chiave. Ora lui vuole ritrovare quella chiave.

Poche settimane prima, nel suo taccuino, Jung aveva scritto di un immaginario caso clinico denominato “Sabine S.”. Ed ora, eccola lì: Sabine Spielrein. Sembrerebbe una incredibile coincidenza. Ma il giovane dottore non crede nelle coincidenze. Crede che le cose accadano dispiegandosi dalla nostra anima, come segni di un libro che dobbiamo imparare a decifrare. Crede che tutto accada con significato. Se ora quella donna è lì, è perché il destino gli sta parlando: Carl Gustav Jung ne è certo. Lo dice anche a sua moglie Emma; e le confida che, stavolta, vuole abbandonare le cure inefficaci della psichiatria contemporanea, per sperimentare un nuovo metodo, creato da un suo collega viennese, un tipo che lui non ha mai visto, che alcuni considerano un genio, altri un ciarlatano. Un tipo di nome Sigmund Freud. Quello che Jung non racconta a sua moglie è il fremito alle gambe che sente quando Sabine lo guarda, nei suoi rari sprazzi di lucidità non assediata da incubi. La trova bellissima come una tempesta. In lei, intravede pianeti perduti della propria interiorità. Come se Sabine fosse venuta a lui, per indicargli chi potrebbe ancora essere. Come se lei, mentre lui la cura, lo stesse curando.

I risultati medici sono straordinari: nel 1911, Sabine Spielrein somiglia alla ginnasiale promettente che era stata. Sembra uscita dall’inferno in cui era piombata durante le sue crisi, sembra avere un’armatura nuova. Si laurea brillantemente in medicina, vuole diventare psicanalista. Jung l’ha curata. L’ha curata con il metodo di Freud.

E, proprio per raccontargli di questo straordinario successo clinico, Jung lo incontra. I due parlano incessantemente, dal pranzo al thé, alla cena, al whiskey, per quattordici ore. Sarà un dialogo che durerà anni, un corpo a corpo tra due menti straordinarie. Freud avrebbe riconosciuto nel giovane Jung il suo delfino, il suo erede; e lui, a sua volta, avrebbe trovato in Freud il proprio maestro. Prima della rottura insanabile tra i due, che avrebbe diviso in due anche la psicanalisi. Perché Jung era convinto che dovessero esserci altri cardini nell’universo, oltre la libido; che la sessualità non potesse spiegare tutta la mente umana, perché la psiche è piena di miti che le preesistono, che noi siamo chiamati a riconoscere; che la cura psicanalitica non consiste soltanto nel mostrare al paziente i traumi del suo passato, ma le sue potenzialità future. Ogni sintomo ha a che fare con un destino irrisolto. Si guarisce davvero solo quando comprendiamo chi siamo. L’inconscio è un fattore collettivo, in cui l’essere umano si trova ad abitare. Ma Freud era quanto mai distante dalla direzione che Jung, a pochi anni dal loro incontro folgorante, voleva imprimere alla psicanalisi.

La spaccatura tra loro è fortissima; lascia poche tracce dell’entusiasmo con il quale Jung aveva raccontato a Freud di quel caso clinico “zero”, di quella giovane ebrea russa dalla straordinaria intelligenza, nei progressi della quale il metodo freudiano poteva riconoscere la sua efficacia. Ciò che Jung, allora, non disse a Freud, fu come quella ragazza l’avesse rapito nel profondo; come lui, medico, avesse ceduto a una passione brutale e irrefrenabile. Lei fu ammaliata selvaggiamente da Jung, che le appariva divino come un eroe wagneriano, moderno Sigfrido che si univa a lei, bruna semitica, suo opposto alchemico, per la realizzazione di un’assoluta crasi mistica. Anche Jung rispose alle voci di quel richiamo erotico, karmico, atavico, esplorando i più reconditi confini della mente, quelli che si possono sfiorare solo quando si è completamente posseduti dall’amore.

Di tutto questo, Jung, a Freud, non avrebbe detto mai nulla. Ma quando la moglie di Jung si accorse di quanto stava accadendo, spedì una lettera anonima alla madre di Sabine denunciando il fatto. Lo scandalo fu pubblico, e raggiunse Freud. Che dapprima difese il suo allievo, per poi deprecarne gli atti, dopo il loro distacco.

Lei, guarita e innamorata, ora sognava una vita con il suo Sigfrido. Ma le ore delle giornate scarnificano la sostanza dei miti, e Jung tornò dalla moglie. Tornò dalla moglie come un uomo che avesse affrontato una catabasi; era un eroe sconfitto che, attraverso gli occhi di lei, aveva compreso quali abissi di terribilità si portava dentro. Tornava dalla moglie come un uomo distrutto. Cadde in una depressione profonda, per riprendersi dalla quale sarebbero occorsi anni. Ma da cui sarebbe riemerso come il più carismatico e geniale psicanalista del suo tempo.

Sabine, novella Arianna sedotta e abbandonata, intessé per il suo Jung-Teseo le nere vele del castigo. Seguì Freud e il suo metodo, rifiutando quello di Jung, e divenendo una delle più brillanti psicanaliste del Novecento, rivoluzionaria pedagogista, pioniera del metodo freudiano in Russia. Quegli orrori che aveva conosciuto da ragazza e da cui era evasa attraverso il supplizio dell’amore paradisiaco per il Dottor Jung, ora erano vinti. Ma il suo non era un destino di quiete. Dopo essersi legata in un matrimonio turbolento con il medico russo Pavel Šeftel’, da cui avrebbe avuto due figlie, dovette vedere i suoi tre fratelli ammazzati dalle purghe staliniane. Per poi morire lei stessa, insieme alle sue bambine, nel massacro di prigionieri ebrei perpetrato dai Nazisti nell’agosto del ’41.

Anni prima, il ventisettesimo giorno di settembre del 1913, mentre l’Europa stava per essere squartata dalla più grande delle guerre, e una terribile guerra interiore fustigava l’anima di Jung, perso e deragliato nella sua devastazione psichica – lei tornò a trovarlo. In uno strano pomeriggio di sole. Ora lei era un’amata donna incinta, un medico, una libera pensatrice. Sabine sembrava divenuta se stessa, mentre il dottor Jung pareva perduto nella lunga notte dei propri incubi. Ora, è come se i ruoli si fossero invertiti. Il dottore è paziente. Ma lei non può curarlo. Sono stati troppo vicini, perché ora possano essere altro che abissalmente distanti. Lei lo guarda intensamente. Lui scoppia in un pianto irrefrenabile, invincibile. Apparentemente, non ha radice quel dolore. Ma Sabine sa che non è così. Lei comprende esattamente la natura di quel pianto. Ne sa la scaturigine. Perché ha amato, ha sofferto come lui. Insieme a lui. Jung si toglie gli occhiali. Si mette il volto tra le mani. Sabine gli carezza dolcemente la nuca. Lui si tira su, con gli occhi chiari gonfi di lacrime. Lei lo bacia lungamente sulle labbra, e lo lascia solo di fronte al grande, silente lago della sua casa. In compagnia dei suoi incubi peggiori, nel suo inferno. È tremendo diventare se stesso.