A scuola mancano i maestri..

 

 

Se pensate che l’istruzione sia costosa, provate con l’ignoranza. Credo che la più efficace argomentazione in favore della scuola e della pubblica istruzione sia dell’americano Derek Bok, rettore di Harvard: l’istruzione costa ma l’ignoranza costa di più.

Tra pochi giorni si riaprono le scuole, e quell’enorme bestione malato, ormai da decenni, riprende a muoversi con le difficoltà di sempre. Il problema non sono i ministri, che passano come meteore e lasciano poche tracce sul corpo ferito della scuola, ma i maestri. Già i maestri. Un tempo appena dicevi scuola dicevi maestri. Oggi non più; termine obsoleto, valido ai tempi di de Amicis.

Al maestro, anzi al Magister, dedica sin dal titolo un appassionato pamphlet (edito da Laterza) Ivano Dionigi, latinista e saggista che rivendica la centralità insostituibile del Maestro nella scuola. Già, ma è possibile avere maestri in una società senza eredi, come ho definito la nostra epoca in un recente saggio, in una società e in una scuola che si crogiolano nell’attualità tecno-economica, liberandosi di ogni maestro e di ogni eredità ricevuta e da trasmettere?

Dionigi parte da una citazione di Pascoli che consacrava la scuola a tempio dell’età nuova, fonte della religione della patria e dell’umanità. Una citazione che appartiene non solo a un’altra storia ma anche a un’altra umanità e a un’altra visione ideale della vita e del mondo. Dionigi si appoggia ai classici, integrati da qualche moderno, per rilanciare il ruolo essenziale della scuola in una società in cui vacillano la famiglia e la chiesa, e anche altre agenzie pubbliche – si pensi pure ai partiti – che non sono più in grado di guidare i giovani. La scuola non dovrebbe inseguire la modernità e la tecnologia ma esserne il contrappeso, dice giustamente Marc Fumaroli e da anni lo sosteniamo pure noi.

La scuola non insegna un lavoro ma la capacità di imparare, l’attenzione, i criteri e la visione, e dunque ciò che precede e motiva il lavoro. E il verbo essenziale del maestro resta quello che oggi è espulso dalle scuole e rigettato da molti docenti: educare. E poi insegna a parlar bene per pensare bene, nutrire il senso critico, distinguere i mezzi dai fini, superare il provincialismo del tempo di cui parlava Eliot, ossia lo sguardo limitato solo al nostro presente.

Dionigi ritiene che sia insensato lasciare la politica fuori dalla scuola, perché compito della scuola è fare la polis, formare cittadini. E il guaio dei nostri anni è la separazione tra cultura e politica, tra sapere e potere. Giusto, ma non possiamo dimenticare l’abuso di politica che si è fatto nella scuola, dai tempi del “tutto è politica” alla somministrazione ideologica che ancora perdura nei nuovi catechismi woke e politically correct. Dionigi che proviene dal comunismo ed è stato parlamentare a fianco del Pci, non considera la nefasta politicizzazione della scuola dei decenni scorsi che l’ha peggiorata assai. Sarebbe da distinguere tra l’ideale regolativo di una scuola che formi anche alla politica, e la prassi di questi anni, dove l’ideologia ha mortificato la cultura, l’apertura, il senso critico e ha imposto canoni e censure dettati dal suo spirito partigiano.

Anche l’auspicio di portare il mondo dentro la scuola è ambiguo, può voler dire incontrare la vita, la realtà, la varietà del mondo ma può appiattire la scuola in una goffa imitazione di ciò che accade fuori, o peggio in una subordinazione della scuola allo spirito del tempo e alle questioni del momento che tradirebbe proprio quei compiti educativi e compensativi della scuola rispetto al prorompere dell’attualità e della vita pratica.

Il maestro, è vero, non dev’essere un istruttore e un istitutore ma qualcosa di più, però poi impietosamente domandiamoci: si, dev’essere, ma lo è davvero? Dove sono i maestri che vanno oltre quei compiti e quelle mansioni? Dove si formano, chi li si seleziona? Ci sono maestri dei maestri? Si può prescindere dalla qualità reale e dal livello medio effettivo degli odierni docenti?

Dionigi tocca anche questioni esistenziali e temi filosofici per poi planare nella realtà della scuola assediata dall’Intelligenza artificiale, che può essere – inutile dirlo – una grande e benefica opportunità come una sciagurata sostituzione dell’umano. Dipende come governi la tecnologia, e soprattutto se la governi.

E ripropone la questione necessaria di ritrovare un armonioso equilibrio tra sapere scientifico e sapere umanistico, attraverso il loro reciproco beneficio, per spendersi infine in un elogio della tradizione, che ci pare indispensabile. Ogni scuola si fonda su una tradizione, ogni sapere è trasmissione e dunque tradizione, la cultura e la memoria si cibano di tradizione, la figura stessa del Maestro è colui che raccoglie una tradizione e la consegna ai suoi discenti. Ma anche la massima con cui poi si congeda dal lettore è bella e pericolosa al tempo stesso: voglio che “tu sia quel che vuoi essere” dice Dionigi. Capisco il senso che lui ne dà, di seguire la propria vocazione, avere l’opportunità e la libertà di farlo, riuscire nella vita a realizzare il proprio compito, seguire il proprio demone. Il maestro è colui che dovrebbe metterti in condizione di farlo. Ma oggi quella massima è rivolta esattamente a contrario: a perdere l’io sono nell’io voglio, a non accettare i propri limiti e a coltivare l’egocentrica autoprescrizione: voglio star bene con me stesso. Poi del mondo, degli altri, della tradizione e dei maestri chi se ne frega. L’ego è il nemico della scuola e dei maestri.

 Marcello  Veneziani             

Crepet e la «generazione perduta»: «I ragazzi vivaci sono sempre esistiti. I bulli girano armati perché sanno che non avranno conseguenze»

 

Lo psichiatra l’11 luglio a Villafranca (Verona): «Non mettiamo l’ideologia nell’educazione»

Paolo Crepet e il caso della maestra «stufa di correggere gli errori»: «I genitori smettano di fare i sindacalisti dei loro figli»

Paolo Crepet

Pensare non è un reato. Invece il prossimo 11 luglio alle 21,15 Paolo Crepet, al Castello Scaligero di Villafranca (Verona), nell’ambito dell’omonimo festival in scena dal 10 al 26 luglio, con la sua nuova conferenza «Il reato di pensare», confuterà questo dogma. Nel corso della serata tratterà di civiltà e libertà di espressione, troppo spesso limitate da ideologie dogmatiche, nuovi vocaboli e schemi che non contemplano contraddittorio.
Nell’intervista che Crepet ha rilasciato al Corriere non sono mancati gli argomenti che hanno portato Verona sulle pagine della cronaca nazionale, in particolare l’episodio del ragazzino che si è rifiutato di percorrere la scala arcobaleno, le sempre più frequenti scorribande delle baby gang che assalgono la città e i veronesi.

«No all’ideologia nell’educazione»

«Un bambino deve essere creativo – ha commentato Crepet in merito alla vicenda della scala arcobaleno – se quel bambino si è rifiutato di salirla era un suo diritto, purché l’abbia pensato lui e non sia stato spinto dai genitori» e ha aggiunto «non mettiamo ideologia dentro l’educazione». Il sociologo ha poi caldamente consigliato alla scuola, teatro della vicenda che conosce e rispetta, di preoccuparsi dell’educazione al tempo dell’intelligenza artificiale «perché sarà la fine della pedagogia». Sul versante «baby gang» l’opinionista ha le idee chiare: «I ragazzi vivaci sono sempre esistiti. Il bullo è tale perché è stato creato da qualcuno e banalizzare una bravata o rimanere inermi dimostra che quella di oggi è una generazione perduta».

«L’idea di comunità è venuta meno»

La soluzione per questa «generazione perduta», secondo Crepet, è «l’autoregolazione» perché per chi va a spasso con un coltello di 22 centimetri in borsa o un teaser – entrambi minorenni i ragazzi noti alle cronache per girare armati – è libero di fare il bello e il cattivo tempo perché sa che non andrà incontro a conseguenze. Con una buona dose di realismo lo psichiatra sentenzia: «l’idea stessa di comunità è venuta meno» anche se «esistono due realtà contrapposte: ci sono i ”figli di papà” come ci sono giovani che hanno conquistato con impegno e fatica ogni esame superato e ogni successo ottenuto. Peccato che questi ultimi, spesso, scelgano di lasciare l’Italia perché – spiega Crepet – l’Italia è un paese morto». Imbeccato sul concetto di mondo liquido – coniato da Bauman nel secolo scorso – lo psichiatra ha risposto secco: «Molto liquido», il che significa essere schiavi del consumismo e mercificare ogni aspetto della vita, sentimenti compresi.

 Cristian Gaole

Massarenti: più laboratori di pensiero critico per salvare i figli dell’AI.

Massarenti: più laboratori di pensiero critico per salvare i figli dell’AI.
Int. Armando Massarenti
Dall’IA alla difficoltà ad affrontare l’Invalsi, da Armando Massarenti una proposta per allontanare gli studenti dalla stupidità a cui li relegano i social.
Dall’odio e dalla stupidità dei social media, che non risparmiano né docenti né discenti, all’intelligenza artificiale usata con poca intelligenza; dal QI in discesa ai test Invalsi; dagli eccessi del politicamente corretto alle reazioni uguali e contrarie, il pensiero critico e la buona educazione sembrano in crisi.
Ma non tutto è perduto. Lo spiega Armando Massarenti, filosofo della scienza, saggista e autore del libro provocatorio ma costruttivo, Come siamo diventati stupidi. Una immodesta proposta per tornare intelligenti (Guerini, 2024).

In questa conversazione, gli abbiamo chiesto qualche spunto per ripensare la scuola. E per non smettere mai di pensare.

I test Invalsi e l’analfabetismo funzionale ci parlano di studenti che faticano a comprendere i testi e a far di conto. È un segno di stupidità diffusa?

Nel libro non uso il termine “analfabetismo funzionale”, ma parlo di qualcosa di ancora più profondo: la difficoltà di distinguere tra opinione e conoscenza, tra informazione e pregiudizio. È questo il cuore della stupidità contemporanea: non la mancanza di capacità cognitive, ma la mancanza di strumenti critici per usarle. Ecco perché serve una scuola che non si limiti a trasmettere contenuti, ma che educhi a pensarli.

La proposta?

Introdurre laboratori di pensiero critico, in cui si impari a ragionare, argomentare, dubitare. E anche, o soprattutto, a sbagliare con intelligenza.

Lei parla di “pappagalli stocastici”, riferendosi all’intelligenza artificiale. Ma non rischiamo di formare anche degli studenti-pappagallo?

Infatti. Se l’IA imita senza capire, molti studenti fanno lo stesso: ripetono formule senza comprenderle. Colpa di una scuola che troppo spesso premia la memorizzazione invece del ragionamento. La mia proposta è semplice: insegnare meno, capire di più. Valutare i processi, non solo i risultati. E coltivare il dubbio come virtù.

Internet ci ha resi più informati o più stupidi?

Entrambe le cose. Abbiamo più accesso ai dati, ma meno tempo per riflettere. I social premiano la reazione istintiva, non il pensiero lento. È per questo che servirebbe un’educazione alla lentezza: saper leggere un articolo, verificare una fonte, analizzare un’informazione. Io proporrei un’ora settimanale di educazione all’informazione: imparare a usare internet senza esserne usati. Troppe informazioni o troppi dati non si trasformano automaticamente in conoscenza se non sono elaborate dal pensiero e dal giudizio. Un pensiero che oggi può beneficiare degli strumenti messi a disposizione da un’immensa letteratura che io cerco di mettere a disposizione di tutti nel mio libro.

Lei scrive anche della polarizzazione culturale. Come riguarda i giovani e la scuola?

La polarizzazione nasce da un bisogno di appartenenza che cancella il pensiero. Si aderisce a una tribù e si smette di discutere. Si odia e ci si instupidisce. Ma pensare criticamente significa saper cambiare idea. A scuola insegniamo troppo poco il disaccordo. Il confronto. Il dialogo. Eppure sono queste le competenze fondamentali del cittadino democratico. Serve un’educazione al disaccordo ragionato: capire prima di giudicare, rispondere invece di reagire.

Il QI è ancora una misura valida dell’intelligenza?

Misura qualcosa di importante, ma non tutto. Il QI valuta abilità astratte, logiche, ma non la creatività, l’empatia, la capacità di lavorare con gli altri. Nella scuola e nella vita contano anche le intelligenze “minori”, spesso trascurate: emotiva, sociale, argomentativa. Soprattutto però si è scoperto che il QI non misura la razionalità. Ecco perché persone intelligenti fanno e pensano spesso cose stupide.

Ancora: cosa propone?

La mia proposta è duplice: non abolire i test, ma affiancarli a strumenti che misurino competenze più ampie, come la capacità di porre buone domande o di ragionare su problemi complessi. Quelle che definiscono il pensiero critico. Il libro propone ed estende i venti concetti chiave proposti da James Flynn che possono rendere una mente feconda e padrona del nostro tempo.

Cos’è la “stupidità accademica” di cui parla?

È quella che nasce dall’eccesso di conformismo, o di politicamente corretto, non dalla mancanza di studio. Quando ci si adegua alle mode culturali si scrivono articoli oscuri per dire cose ovvie, o si rinuncia al dubbio per paura di essere “sbagliati”. La scuola può cadere nella stessa trappola: quando trasmette verità preconfezionate, quando si chiude nella ripetizione. Per evitarlo, servono docenti coraggiosi, capaci di mettere in discussione anche i libri di testo. E studenti liberi di dire: “Non ho capito” o “Non sono d’accordo”.

Lei cita spesso John Stuart Mill. Perché è ancora attuale?

Mill ci ha insegnato che anche le idee giuste possono morire, se non vengono difese con buone ragioni. Una verità non argomentata è una verità spenta, fragile, pronta a essere rovesciata. Non riusciamo più a farla brillare tra le mille sciocchezze che ci tocca sorbire ogni giorno. A scuola dovremmo allenare gli studenti a difendere le proprie idee con rispetto e rigore. È il cuore del pensiero critico: non basta avere ragione, bisogna anche saperlo dimostrare. E saper ascoltare le ragioni dell’altro. Anche se le sue idee ci sembrano strane.

Il suo libro si chiude con un decalogo del libero pensatore. Quali sono le virtù da coltivare?

Prima fra tutte, il dubbio. Poi il coraggio, la curiosità, l’onestà intellettuale. Ma senza ironia, tutto questo può sembrare pesante. Savinio ci ricordava che la stupidità ha il suo fascino ipnotico, da non sottovalutare neppure se si è intelligenti. Il film Inside Out 2 mostra che tra le isole del carattere che formano la personalità della protagonista, l’isola della stupidera è fondamentale come le altre. La stupidità maggiore in realtà è quella che viene dalla saccenza, da una cultura e da un’educazione mal digerite e poco armoniche.

Come ci si difende?

L’ironia è una forma di resistenza. È la capacità di ridere di sé, di non prendersi troppo sul serio, di vedere il mondo in prospettiva. Io proporrei di introdurre all’università una cattedra sulla stupidità e a scuola una materia nuova: autoironia applicata. Non salverà il mondo, ma ci renderà più liberi. Per questo il libro ha uno stile insieme serio e ironico, ed è costellato di citazioni sagaci. Del tragicomico decalogo liberale, scritto da Bertrand Russell, ricordo due precetti seri e uno ironico: “Non provare invidia per la felicità di coloro che vivono di illusioni, perché solo uno sciocco può pensare che in ciò consista la felicità”. L’altro serio: “Trova più gusto in un dissenso intelligente che in un consenso passivo, perché, se apprezzi l’intelligenza come dovresti, nel primo caso vi è una più profonda consonanza con le tue posizioni che non nel secondo”.

E quello ironico?

È il mio preferito: “Non cercare di scoraggiare la riflessione perché è sicuro che ci riuscirai”. Nel mondo degli odiatori da social media è forse quella che merita la maggiore attualizzazione, insieme a Leo Longanesi, che scriveva: “Uno stupido è uno stupido. Due stupidi sono due stupidi. Diecimila stupidi sono una forza storica”. Ma attenzione! Nel libro dimostro, dati alla mano, ma sempre con un po’ di distacco ironico, che anche l’intelligenza è, o può tornare a essere, una forza storica.

Tiziana Pedrizzi

 

scuola_studenti_classe_1_ansa1200-750x375

Crepet, per educare bisogna credere nei ragazzi e pensare che un giorno riusciranno a camminare con le loro gambe

Il progetto educativo si fondava su alcune regole basilari: la speranza era che i figli nascessero in salute, avessero cibo sufficiente per sopravvivere… Dal boom economico in poi tutto è cambiato…Con il passare del tempo le modalità con le quali ci si è dedicati ai giovani ed alla loro educazione sembrano essere profondamente mutate e così ci si è ritrovati a declinare il verbo “educare” in varia maniera.

A tal proposito il sociologo e psichiatra Paolo Crepet pone l’accento proprio sull’atteggiamento strabico, ambiguo e contraddittorio degli adulti nei confronti dell’educazione delle nuove generazioni.

Da un lato vi è chi considera tale impegno come un peso, una responsabilità eccessiva, sperando che gli anni dell’infanzia e dell’adolescenza possano passare in fretta e senza lasciare cicatrici. Si tratta di un atteggiamento «pedofobico», tipico di chi non riesce ad identificarsi in ciò che si attribuisce all’età evolutiva: gioia, purezza, incanto e creatività libera ed incondizionata. Si tratta di soggetti che considerano i primi anni di vita come un percorso da accelerare, «adulto-centrici», che ritengono fondamentale unicamente cercare di semplificare il più possibile il raggiungimento dell’età successiva. Ciò genera spesso grandi sensi di colpa generati da scarsa disponibilità o forse da un senso di inadeguatezza. Al contrario c’è invece chi pensa che l’educazione sia diventata un’impresa difficilissima, una sorta di prova da superare per gli adulti: i genitori si sentono così costantemente impreparati ad esercitare il ruolo genitoriale, ad assumersi le proprie responsabilità. Nel mezzo vi è chi crede ancora in un progetto di crescita, chi ama la sfida educativa per diventare adulti migliori.

In realtà la relazione tra genitori e figli e le modalità con le quali approcciarsi a svolgere la funzione di educatore sono completamente mutate. Prima, infatti, il progetto educativo si fondava su alcune regole basilari: la speranza era che i figli nascessero in salute, avessero cibo sufficiente per sopravvivere, vestiti per coprirsi ed i genitori dovevano sperare di avere denaro abbastanza a garantire loro l’istruzione necessaria per un lavoro migliore del proprio. Quindi occorreva rispettare chi garantiva la sopravvivenza e proteggeva la famiglia. Sussisteva una forte cooperazione fra genitori, nonni ed altri educatori mentre i bambini e gli adolescenti non avevano un ruolo proprio ma erano estremamente grati a chi li aveva messi al mondo e aveva permesso loro di non morire troppo presto. “La struttura familiare non poteva che fondarsi su un modello educativo piramidale, autoritario, proprio in quanti tali regole basilari non potevano e non dovevano essere messe in discussione, pena la perdita del controllo dell’intera impalcatura domestica, pilastro portante dell’intera comunità famiglio-centrica”, queste le parole di Paolo Crepet.Con il boom economico, invece, tutto è cambiato: il benessere economico raggiunto ha avuto delle ripercussioni anche sulle stesse regole educative. “Molti genitori hanno interpretato la più ampia circolazione del denaro, il maggior benessere percepito dalle famiglie come un inaspettato segnale di cambiamento che avrebbe dovuto coinvolgere anche il proprio ruolo educativo e il grado delle loro responsabilità: per la prima volta nella storia il loro mestiere non avrebbe più dovuto essere incentrato sulla preoccupazione di garantire migliori condizioni materiali ai figli”, così ci spiega lo psichiatra in maniera chiara e dettagliata. Si passò ad un’educazione liquida, dove ciò che era fondamentale è quanto i genitori potessero donare ai loro figli: una profusione di denaro per concedere il superfluo, passando dall’insegnamento del dovere al diritto di pretendere, soprattutto ciò che non è essenziale. Dall’autoritarismo si giunse a quello che Paolo Crepet definisce «permissivismo educativo». Tale new deal educativo ha visto da un lato la crescita di genitori con grandi sensi di colpa, sentendosi in difetto rispetto al ruolo di «datori», dall’altro i figli non sono più in grado di creare, di costruire senza il loro sostegno, proprio perché cresciuti con l’idea che i genitori dovessero essere sempre presenti, disponibili e generosi. Ciò determinò conseguenze estremamente negative divenendo i giovani incapaci di affrontare la cruda realtà, che presuppone capacità autonome di sopravvivenza e progettazione. Più che a degli educatori i genitori somigliano a dei bancomat: il genitore liquido preferisce e ritiene più semplice donare denaro al figlio piuttosto che garantire la sua vicinanza, il suo tempo, in quanto guida e punto di riferimento. L’apprensione genitoriale è quella di «non far mai mancare niente» ai propri figli: bambini ed adolescenti devono essere colmi, sazi anche di sciocchezze, di cose futili e di libertà non essenziali. D’altronde sono davvero pochissimi i genitori che offrono ad i loro figli tempo, dedizione, fungendo da esempio, piuttosto che denaro, oggetti o libertà non essenziali. Tuttavia Paolo Crepet, in maniera significativa, ci fa comprendere come occorra riscoprire il coraggio di educare, che risiede nella capacità di togliere, non di aggiungere.“Possedere il coraggio di educare significa essere capaci di credere nei ragazzi, di pensare che riusciranno a camminare con le loro gambe, esattamente come sono stati in grado di fare i loro genitori”, così conclude la sua riflessione lo psichiatra. Occorre, quindi, che gli adulti ritrovino l’audacia di saper rischiare sui propri figli, credendo fino in fondo nelle loro capacità e nel loro talento.

Da Mondo Scuola            

Bentornati Maestri…

 

 

Torna la storia, torna la geografia, torna l’Italia, torna il latino nelle scuole italiane. Insomma torna un’idea di civiltà, di cultura e di educazione umanistica nella scuola italiana; non solo istruzione, formazione, tecnologia e attualità. È questo il succo dell’annuncio del ministro della Pubblica Istruzione, Giuseppe Valditara, e non possiamo che essere d’accordo con le intenzioni del ministro e dei suoi esperti. E speriamo che i fatti siano all’altezza delle intenzioni.

La storia, è verissimo, è necessaria per formare cittadini “consapevoli e responsabili” e la rimozione della memoria storica nel nostro paese (con la sola eccezione di fascismo, razzismo e antifascismo, come se il mondo fosse nato con la seconda guerra mondiale) è una perdita incommensurabile per ogni paese. Ma ancor più per il nostro paese che sulla grande tradizione civile, umanistica, linguistica e storica ha fondato la sua ricchezza e il suo primato mondiale. Giusto anche il criterio della prossimità territoriale: è giusto che la storia e la cultura italiana vengano prima di quelle internazionali, ed è giusto che la storia europea e occidentale abbia la precedenza sulla storia del mondo e del terzo mondo, verso cui propende una certa ideologia dell’inclusione, dell’accoglienza e dell’amore per il lontano, con l’ignoranza e l’indifferenza per tutto ciò che è a noi più vicino. È un criterio che vale per la storia come per la geografia, per il pensiero come per l’arte e la musica, giustamente potenziata nelle intenzioni della riforma, per un paese così versato nel canto e nell’opera.

Il tema di fondo da affrontare è il ruolo della scuola nella società presente: la scuola non deve andare a rimorchio di quel che fa tendenza oggi; la sua missione e la sua ricchezza è quella di dare ai ragazzi una visione generale, una chiave di lettura, un sapere critico che consenta poi di governare e cavalcare i flussi della nostra via moderna. Non un sapere contro la società, ma un sapere come contrappeso che bilanci una società interamente schiacciata sulla tecnica, sul web, sull’economia e sulla finanza. La scuola, arrivai a dire in passato, deve seguire la lezione di Dante, che elogiava il suo maestro Brunetto Latini perché “Voi m’insegnavate come l’uom s’etterna”. Ovvero la scuola, soprattutto i licei, deve fornire al ragazzo le chiavi per abitare altri mondi oltre il presente: il passato, il futuro, la cultura, il senso dell’eterno, ovvero ciò che non passa, è permanente. Deve insegnare cioè a una società interamente presa dalla connessione on line, anche la connessione verticale, con le epoche e le generazioni passate e con quelle che verranno.

In una parola, la scuola deve riprendere il senso dell’eredità, il rispetto e la lezione dei maestri, degli autori e delle autorità, il dialogo con le altre epoche, premesse indispensabile anche a dialogare con le altre società e con gli altri mondi presenti. Lo dico anche da autore di un libro, Senza eredi che è incentrato proprio sulla denuncia di un’epoca che cancella eredità, maestri e memoria storica. A partire dai classici e dallo studio del latino, che si riaffaccia seppure in chiave facoltativa – come era ai miei tempi – anche nella scuola media dell’obbligo. Riconciliamoci con la nostra lingua madre e con la civiltà da cui proveniamo. Verrà incoraggiata, apprendo, anche la lettura della Bibbia, le poesia a memoria, i testi epici della letteratura classica. E di questo dobbiamo esser grati anche ai tanti esperti che hanno sostenuto queste tesi e al ministro che non ha avuto il timore di sostenerle. Non abbiamo risparmiato critiche e perplessità in passato a Valditara, non amiamo i cedimenti, le compiacenze e le piacionerie di chi crede di salvarsi assecondando la demagogia e l’egemonia ancora imperante; ma quando una cosa ci sembra giusta, coraggiosa e pertinente, anzi necessaria, e quando ci pare che giovi alla scuola, agli studenti e anche ai docenti, ripristinando il ruolo, la missione e la dignità della scuola, mi pare che vada sostenuta senza indugi. Poi, certo, quando dovrà calarsi nella realtà vedremo come si riuscirà a farlo, con quale personale, con quali reazioni, con tutti i dubbi che abbiamo su larga parte dei docenti, e nel clima d’epoca con la pressione ideologica e mediatica che scatterà per annacquare, boicottare o avvelenare i propositi. Intanto, siamo soddisfatti per gli annunci, per le intenzioni e per la visione che li ispira.

Un tempo gli studenti contestavano la scuola voluta dai governi del centro-destra perché ritenevano che fosse succuba di un’idea “berlusconiana” di succursale dell’impresa, subalterna al commercio e al mercato; ricordate le polemiche contro le fatidiche tre i, impresa, internet e inglese. Anch’io ho più volte detto che i ragazzi lo spirito d’impresa, la capacità di usare il computer e di imparare l’inglese li apprendono più dalla vita, dall’esperienza reale di ogni giorno, insomma imparano più sul campo che nella grottesca, tardiva e impacciata caricatura scolastica, ad opera peraltro di un personale non attrezzato per quei tre compiti. La scuola non deve inseguire il mondo, l’attualità, le utilità più effimere, soprattutto in una società fondata sul commercio, i consumi, le performance tecnologiche; refrattaria al sapere umanistico, che reputa inutile e obsoleto. Ma, vedrete, ora contesteranno a Valditara l’esatto contrario di quel che contestavano ai governi Berlusconi e al ministro Letizia Moratti: di riportare la scuola al passato, a un versione reazionaria, nazionalista, anzi suprematista, tardo-umanistica, provinciale e italocentrica.

L’ignoranza avanza, la barbarie corrode ogni giorno pezzi di società, di scuola e di vita, l’incuria prevale e si fa menefreghismo più accidia. I prof diventano istruttori e intrattenitori, a volte le classi sono affollate d’insegnanti di sostegno, come in un suk di avventori, balie e animatori. Cercare di risalire la corrente, avere il coraggio di invertire la discesa, perlomeno provarci, è finalmente un buon segno di vita e di intelligenza. Bentornati maestri, docenti, anzi insegnanti, cioè persone che lasciano un segno.

Marcello Veneziani

Il latino non sia opzionale, ma obbligatorio. La saggezza non può essere facoltativa…

 

La scuola per essere davvero utile basterebbe che instillasse nei fanciulli una manciata di frasi, detti, versi dei nostri maggiori. “De gustibus”, “Homo homini lupus”, “Nulla dies sine linea” e la mia preferita: “Est modus in rebus”.

Opzionale il latino? Sia obbligatorio invece. Il ministro Valditara reintroduce la possibilità del latino alle medie (ammesso si chiamino medie) ma la saggezza non può essere facoltativa. Leggendo Cicerone, Orazio, Seneca si impara niente meno che a vivere, e gratis, e forse perfino con diletto estetico. La scuola per essere davvero utile basterebbe che instillasse nei fanciulli una manciata di frasi, detti, versi dei nostri maggiori. “De gustibus”: per capire che non va bene accapigliarsi su opinioni e visioni, e va malissimo imporre le proprie e vietare le altrui. “Homo homini lupus”: per evitare un bel po’ di truffe finanziarie, informatiche, romantiche. “Nulla dies sine linea”: per sapere che nella vita, nello studio e nel lavoro, la costanza non è tutto ma è tanto. Potrei andare avanti a lungo ma concludo con la mia frase latina preferita che ovviamente è oraziana. “Est modus in rebus”: per convincersi che si può fare tutto a condizione di avere misura e stile in tutto. Che poi questa sapienza antica ed eterna farebbe gioco anche ai grandicelli: di latino si organizzino corsi di recupero per adulti.

Camillo Langone        

statua      

“Sognare è il primo dovere che un uomo e una donna gentili dovrebbero imparare a difendere”, così evidenzi…

 

Crepet, genitori ed insegnanti devono rieducare alla creatività, alla gioia, alla felicità: “Alla fine, non credo sia ancora tempo di arrendersi, soprattutto se si è giovani. Bisogna avere coraggio…
“Sognare è il primo dovere che un uomo e una donna gentili dovrebbero imparare a difendere”, così evidenzi…

In un mondo in cui tutto sembra avere un prezzo e dove occorre sempre ostentare per poter vivere serenamente, in un mondo in cui è più importante l’apparire che l’essere, diventa sempre più difficile soffermarsi e riflettere su delle tematiche rilevanti, pertinenti alla nostra persona, al nostro animo, ma soprattutto alla nostra felicità.A tal fine Paolo Crepet, nel suo libro “Mordere il cielo”, pone l’accento proprio su tale aspetto. Lo psichiatra coglie l’occasione per rammentarci quando negli anni Settanta sul mercato farmaceutico fu inserito il Prozac, la cd “pillola della felicità”.Il principio farmacologico su cui si basava il Prozac era la fluoxetina: una molecola utile per combattere la depressione, l’ansia, attacchi di panico ma anche bulimia o condotte suicidarie. Si arrivò così ad una “commercializzazione del benessere”: l’idea di non aver più bisogno di un percorso con uno psicoterapeuta, lungo e costoso, e di poter vivere serenamente, raggiungere un proprio equilibrio psicofisico senza alcuno sforzo e senza alcuna perdita di tempo, cominciò a diventare predominante. Ciò che lascia basiti è come in poco tempo si diffuse la convinzione che bastasse una pillola per risolvere qualsiasi tipo di problema, era sufficiente solo un piccolo sforzo per preservare la salute e combattere le patologie che attanagliavano l’animo. Con il passare del tempo però questa “illusione” cominciò a svanire: gli effetti collaterali verificatisi ed un uso sconsiderato da parte dei giovanissimi creò un grande disorientamento.  L’aspetto più drammatico che iniziò a delinearsi fu proprio quello dell’utilizzo del farmaco, un antidepressivo, per poter curare disturbi alimentari, come la bulimia, nella convinzione, sviluppatasi fra migliaia di adolescenti, che ci si potesse “curare” solo con una pillola, senza sforzo, fatica e soprattutto senza alcuna responsabilità.

“L’aspetto è identità”, come sottolinea Crepet e ben presto ebbe ancora più successo e venne maggiormente utilizzato un farmaco nato originariamente per curare il diabete di tipo 2, l’Ozempic. Tale farmaco veniva utilizzato non solo per contrastare l’obesità ma anche un leggero sovrappeso, così da poter dimagrire velocemente. Si diffuse, infatti, la necessità di curare il proprio corpo, l’aspetto esteriore di una persona, si giunse ad una sorta di “terapia cosmetica”: la cura di se stessi non doveva determinare alcun aggravio, pena o preoccupazione. Attraverso la “pillola della felicità” ci si poteva deresponsabilizzare e pensare che una mera cura farmacologica potesse risolvere qualsiasi problema dell’animo: occorre essere perfetti esteticamente, il nostro corpo deve essere perfetto a tutti i costi, mentre si trascura l’aspetto interiore, quello psicologico. “La ricerca della felicità riposa nello stereotipo di un corpo che esige perfezione”, così sottolinea lo psichiatra Crepet.

Le nuove generazioni sembrano non fidarsi più del futuro, sembrano aver perso qualsiasi tipo di ambizione, aspirazione, desiderio ed allora ecco il ruolo fondamentale dei genitori e degli insegnanti: occorre rieducare alla creatività, alla gioia, alla felicità, occorre qualcuno che ci insegni a guardare il mondo dalla giusta prospettiva, con occhi disincantati, stupendoci, giorno dopo giorno, delle cose più semplici che però ci riempiono di felicità e di amore. La vita è davvero bellissima ed ognuno di noi ha diritto di viverla a colori, con le sue sfumature, godendosi quell’arcobaleno che contraddistingue la propria esistenza: ci saranno sicuramente giornate in cui potremmo anche intravedere alcune sfumature di grigio ma ce ne saranno altrettante in cui la felicità riuscirà a colorare la nostra vita e a renderla unica e speciale. “Alla fine, non credo sia ancora tempo di arrendersi, soprattutto se si è giovani. Bisogna rovesciare l’evidenza, sciogliere gli spasmi delle visioni più egoistiche, preparare le valigie per il viaggio verso le idee più impronunciabili. Non c’è differenza e non c’è giudizio”, queste le parole significative e pieno di pathos di Crepet. Ciò che occorre comprendere è che “il bello è riuscire a essere imprevedibili anche nella prevedibilità”.

Bisogna avere il coraggio di scombinare le cose del mondo.“Sognare è il primo dovere che un uomo e una donna gentili dovrebbero imparare a declinare, e a difendere”, così evidenzia il sociologo Paolo Crepet. Le nuove generazioni devono ricominciare a sognare, devono appassionarsi alla vita, vivendo ogni attimo intensamente, senza pause, interruzioni, soste: bisogna custodire gelosamente le proprie ambizioni ed i propri sogni perché solo vivendo appassionatamente, senza mai fermarsi, si potranno perseguire le proprie mete e raggiungere i risultati sperati. Non c’è tempo per omologarsi, per vivere anestetizzando le proprie emozioni, non c’è tempo per la noia e per l’ovvietà: bisogna vivere intensamente, assumendosi la responsabilità delle proprie azioni, portando avanti le proprie idee e convinzioni, senza ricercare mai il consenso di qualcun altro.

da__ A Scuola Oggi

 

Crepet11

Se la scuola insegna la bellezza di vivere.

 

C’era una volta a scuola il precetto pasquale. L’ultimo giorno di scuola prima delle vacanze di Pasqua le scuole coi loro docenti portavano i ragazzi in Chiesa per farsi la confessione e la comunione. Non era la preistoria, questa pratica era in uso nella scuola media unificata nel fatidico ’68. Poi la scuola si è evoluta, si è emancipata, non ha più precettato i ragazzi ad andare in Chiesa per la Santa Pasqua. Adesso, come sapete, indurre i bambini a pregare in classe è compiere atti osceni in luogo pubblico, corruzione, plagio e abuso di minori, istigazione alla prostituzione religiosa. Perché non si può spiegare diversamente la punizione di venti giorni d’allontanamento dalla scuola, con relativa decurtazione dello stipendio, per quell’insegnante sarda, Marisa Francescangeli che aveva recitato in classe un Ave Maria e un Pater noster con i suoi allievi, nei giorni che precedono la Pasqua. Con l’aggravante di aver fabbricato armi pericolose in classe, come il rosario. La maestra delinquente e corruttrice pensava di non aver fatto nulla di male, e tuttavia si era scusata con due mamme che avevano protestato per l’orrendo plagio dei loro bambini. Ma ciononostante, il preside, seguendo la protesta delle due inflessibili mamme, addette alla vigilanza democratica, l’ha punita come meritava… La nuova bestemmia in aula è nominare Dio e la Madonna, la nuova pornografia da punire è la preghiera in classe, perché offenderebbe i laici, i non credenti, i credenti in altre religioni e perché violenterebbe i minori, istigandoli alla fede e al rispetto delle tradizioni religiose. Che perversione, una porcheria… Se per sventura e superstizione sei credente, tieniti la fede per te, non esibirla, non contagiarla. Quel che un tempo si applicava alla sfera sessuale oggi si applica alla religione: puoi esibire le tue preferenze sessuali e anche praticarle in pubblico; devi invece nascondere la tua fede, praticarla in bagno, come un deplorevole onanismo, e comunque mai sotto gli occhi altrui, soprattutto se minori. Vai nelle catacombe, se proprio ti scappa di pregare.
Siccome siamo appena  poco dopo Pasqua, anziché indignarmi, vorrei vedere il lato positivo della vicenda, il bicchiere mezzo pieno: l’iniziativa di quell’insegnante e la solidarietà che poi ha avuto da molti genitori degli altri bambini, che non hanno ravvisato nulla di losco e di negativo nella preghiera in classe. E la convinzione che se si facesse un sondaggio tra la gente, nonostante il pressing ideologico intimidatorio, la maggioranza sarebbe con l’insegnante e non col picchetto cristofobico.
Ma a rendere migliore la Pasqua c’è anche l’esempio di un’altra insegnante. Un esempio laico, stavolta. Una maestra di Firenze, Morgana d’Ascenzo, nella scuola elementare Vittorio Veneto, nell’ultimo giorno di scuola prima delle festività pasquali, ha dato come compito per le vacanze ai bambini una lista lunghissima scritta a mano con bella grafia. Ha prescritto i seguenti compiti: “divertirsi e giocare, stare con le famiglie, approfondire le conoscenze delle tradizioni pasquali, fare qualcosa di bello e gentile, leggere libri e fumetti, cercare uova e mangiarne tante, osservare la bellezza del cielo e della natura, alzando di tanto in tanto gli occhi con profondo stupore; cantare e ascoltare musica, ricordarsi di dire spesso grazie e tante parole gentili: non abbiate mai paura di essere banali”. Ma questa non è la scuola, è la vita, direte voi. E se siete un po’ avanti negli anni riterrete che è un po’ la scoperta dell’acqua calda, sono ovvietà che non hanno bisogno di insegnanti e soprattutto di essere considerate come compiti a casa. Ma non avete fatto i conti, come invece li ha fatti la Maestra Morgana, con il presente. Alcune cose che ci sembrano scontate e naturali, non lo sono più affatto. Provate a far alzare gli occhi dagli smartphone e dai giochini ai bambini, provate a farli leggere, a contemplare la bellezza della natura, a guardare il cielo, a provare stupore, a conoscere addirittura le tradizioni religiose, a cantare, a essere grati e gentili, e ad apprezzare le cose che vi sembrano automatiche, di default, direbbero i ragazzini più grandi. Insomma, provate a farli rientrare nella realtà, a dare valore alle cose semplici e belle di ogni giorno, a cercare e mangiarsi un uovo di gallina. E’ un invito a riprendere l’ordinario gusto della vita, consono all’età di un bambino e alle sua curiosità. A capire il senso della bellezza, fare comunità, essere felici in famiglia, riconoscere il mondo della natura e non solo quello della tecnologia. A smanettare sui telefonini sono bravi tutti, i bambini; provate a riportarli alla natura, alle galline, al cielo e alla terra, ai legami veri, alla storia del passato, alla storia sacra e alle sue tradizioni. Una lezione di ritorno alla realtà, alla natura e alla vita vera. Quella vista a occhio nudo, a mente viva, a cuore aperto, con l’olfatto, il gusto e i sensi naturali di cui disponiamo e che rischiamo di atrofizzare nel giro di una o due generazioni.
Anche qui c’è qualcosa di offensivo verso la modernità e le minoranze? C’è razzismo, omofobia, discriminazione religiosa, oscurantismo? Si può amare la propria famiglia, anche se è composta da mamma e babbo, fratello e sorella, nonno e nonna, e perfino zie e zii? Il profumo della realtà, l’odore delle cose semplici e vere, da che mondo è mondo…Non ha fatto nulla di epico, di eroico, di sorprendente la Maestra Morgana, stavo per dire la Fata Morgana. Ha semplicemente detto ai suoi alunni di riprendere il loro mestiere di bambini. Che è il più bello, e il più difficile. Perché tocca loro capire la vita, conoscere chi sei, da dove vieni, cos’è il mondo che ti circonda, e vivere di conseguenza, dicendo grazie e sorridendo gentilmente a chi ti vuole bene, o anche a chi hai appena conosciuto. La vita è una sorpresa, bambini, e non sta dentro un uovo di cioccolata.

MV