Rasatura e rivoluzione- breve storia dei peli.

 

Non hanno peli sulla lingua. Ma hanno i peli sotto le ascelle. E se ne vantano. La lotta contro la depilazione è l’ultima frontiera della #BodyHairPositivity: partita dalle ragazze, ora sta conquistando schiere di donne di ogni età, sempre più decise ad abiurare la religione della ceretta. Perché vedono nella rivendicazione della libertà tricologica un’arma per combattere quegli standard di bellezza che sono da sempre croce e delizia delle donne, due facce di una stessa medaglia. Che ha sul dritto l’appeal e sul rovescio il body shaming.

A guidare questa lotta di liberazione è sceso in campo lo star system: modelle, attrici, influencer che gettano nella battaglia tutto il loro peso mediatico. Da Sophia Loren a Julia Roberts, pioniere della hairy revolution. Dalla pop star Rihanna a Cara Delevingne, la top model (e molto altro) britannica. Da Lourdes Maria Ciccone Leon a Paris Jackson, figlie rispettivamente di Madonna e di Michael Jackson.

Anche il fronte di casa nostra conta esponenti di primo piano. Come la cantante Veronica Lucchesi, del duo La Rappresentante di Lista, che a Sanremo 2021 ha esibito i suoi cespuglietti ascellari provocatoriamente dipinti di fucsia, per passare un colpo di evidenziatore sulla sua scelta. Sostenuta da Paola Maugeri, giornalista e conduttrice radiotelevisiva, che ha raccontato di aver cancellato dalla sua agenda il giorno della ceretta.
Perché questa sofferenza cui le donne si sottopongono, volenti o nolenti, è in realtà una forma di sottomissione, vissuta come un fatto naturale: è una scelta imposta e accettata per aderire a un format estetico che vuole il corpo femminile glabro, levigato, adolescenziale, anche a sessant’anni.
Sulla stessa linea è schierata Giorgia Soleri, influencer multifollower, che ha per compagno Damiano, la voce dei Måneskin. Giorgia considera il corpo femminile come un terreno di scontro tra i generi. Che oggi si può combattere anche rimettendo in discussione quel totalitarismo della bellezza alla base della sottomissione, e dell’autosottomissione, delle donne al giudizio maschile.

Ma se il rifiuto del rasoio diventa un gesto politico, è perché peli e capelli sono uno dei più antichi linguaggi umani. Un modo per farsi riconoscere e classificare al primo sguardo, disegnandosi sul corpo l’identità. Territoriale, nazionale, di genere, di censo, di rango, di credo religioso, di fede politica. Tagli, lunghezze, rasature, tonsure, acconciature, velature, piegature, arricciature, cotonature, scriminature, depilazioni, colorazioni, estirpazioni, sono altrettante parole di una lingua universale, i cui significati cambiano continuamente con i tempi, i popoli, le culture.
Se oggi l’Occidente pullula di centri di depilazione frequentati da credenti e non credenti, una volta la Chiesa considerava ascelle e cosce glabre un peccato. Grave per le donne, ree di vanità. Ma mortale per gli uomini. Che rinunciando a toraci villosi e gambe boscose, andavano contro natura. Perché se Dio avesse voluto l’uomo liscio come la donna – bacchettava san Clemente – non gli avrebbe dato la barba come ai leoni. E proprio non gli avrebbe fatto crescere tutti quei peli. Che peraltro, sentenziavano i teologi, servono soprattutto a nascondere quelle parti che il peccato originale ha reso vergognose. Questa idea era talmente radicata che, quando nel Cinquecento gli Europei conquistano le Americhe, i missionari affermano che i nativi sono senza peccato. Non per ragioni evangeliche, ma semplicemente perché non avevano l’ombra di un pelo. Paradossalmente la pensava così anche lo psicoanalista Charles Berg, autore nel 1951 di un libro che ha fatto epoca come The Unconscious Significance of Hair (Routledge) in cui sostiene che chiome e villi sono sostituti visibili e ostentabili di organi sessuali invisibili e non ostentabili. Secondo Berg, ai capelli lunghi corrisponderebbe una sessualità sfrenata. Mentre quelli corti o legati sarebbero il segno di una propensione controllata, come nel caso dello chignon. O addirittura negata, come la tonsura dei monaci o la rasatura integrale delle monache. E persino delle ebree ortodosse che, dopo il matrimonio, indossano la parrucca sulla nuca depilata. E se i ragazzi tradizionalmente avevano nella barba il contrassegno della virilità, la peluria femminile poteva diventare segno di castità. In certi casi, addirittura, simbolo di una diga contro gli effetti indesiderati della bellezza. Come insegna il caso di Santa Liberata cui, secondo la leggenda, il Signore fece crescere una folta barba per salvarla da un matrimonio combinato dal padre. Inutile dire che il prodigio ebbe l’effetto di far dileguare il pretendente.

In altri casi, quelli che da noi si chiamano ancora peli superflui, sono addirittura necessari per riaffermare la propria superiorità sociale e razziale. Come nell’America Latina dove tradizionalmente le signore di origine ispanica non depilano ascelle e gambe per distinguersi dalle donne indie che sono naturalmente glabre.
Al contrario, nel mondo islamico gli uomini sono tenuti a portare la barba, che un proverbio iraniano definisce il “velo maschile”. Mentre il resto del corpo va rigorosamente depilato. Perché come stabilisce il Fitrah, decalogo dell’igiene quotidiana, i peli – dalle ascelle alle parti intime – sono impuri.

Ma oltre la religione e l’estetica, a far perdere il pelo è anche il vizio della moda. Quando nel 1680 il Re Sole, Luigi XIV di Francia si rade la barba ormai ingrigita, il viso liscio diventa un trend europeo. Pietro il Grande, Zar di tutte le Russie, nel 1698 impone addirittura una tassa sulla barba per convincere i sudditi riluttanti all’europeismo pilifero. Chi voleva tenersi l’onor del mento, doveva pagare un’imposta ed esibire a richiesta la quietanza di pagamento. Da allora i rivoluzionari di tutto il mondo si riconoscono dal barbone, da Karl Marx a Fidel Castro. Come i capelloni (senza distinzione di sesso) nel Sessantotto che trasformano peli e capelli in simboli della contestazione e dell’autodeterminazione contro ogni forma di capitalismo e di patriarcato. In una prova generale della rivoluzione. Insomma, ieri come oggi, le grandi battaglie si vincono o si perdono per un pelo.

Marino Niola

 

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