Giardino d’infanzia …

 

 

Ma com’erano i bambini quando nascevano in branchi e non in campioni unici e irripetibili, e in casa anziché in ospedale? Provo a rinfrescarvi la memoria con graffiti di preistoria ripescati dall’infanzia. Piccoli quadretti di scarso valore rubati all’oblio, per raccontare, tramite storie minime, la dolce fatuità del passato.

*Passa l’angelo e dice amen. Da bambino appena facevi una smorfia, una boccaccia o peggio imitavi uno storpio, genitori e adulti ti ammonivano: non farlo, sennò passa l’angelo e dice amen; ti fa rimanere per sempre così. C’è pure una canzone di De Gregori sul tema. Ho sempre pensato con apprensione a quest’angelo feroce, veloce e privo di senso dell’ironia che ti faceva restare per sempre con la boccaccia, il viso mostruoso e la gamba zoppicante. La faccia d’angelo, i modi celestiali, e poi, con quella purezza divina, con una parolina ti rovina per sempre…Amen, così sia. Ma perché questa tempestiva ed esagerata punizione per uno scherzo da bambini? Rovesciai la teologia che considerava i diavoli come angeli decaduti, convincendomi al contrario che gli angeli fossero diavoli progrediti, dalle buone maniere e dalla carnagione bianca, ma terribili quanto i loro più abbronzati colleghi del piano inferiore. E mi convinsi che gli handicappati fossero in origine bambini dispettosi che erano stati puniti per la loro disobbedienza. Cave signatos, si diceva crudelmente allora, altro che inclusione per i diversamente abili. (Risvolto da non rimpiangere).

*Perché le figurine dei calciatori, associate nella memoria infantile agli album Panini, ebbero grande successo da noi? Si, perché il calcio era lo sport più popolare, perché ogni bambino sognava di essere campione in erba e si giocava dappertutto. Ma c’è una ragione in più, e più profonda, che sfugge: perché il nostro era il paese dei santi e dei santini, la figura del santo era il passepartout del paradiso, lo scudo di protezione, la carta d’indentità patronale di un paese, l’eredità degli dei pagani lasciata alla civiltà cristiana. Non divinità discese dal cielo, non angeli venuti a soccorrerci e a custodirci, ma umanità salita al cielo, gente come noi che aveva compiuto il cammino di fede, opere e dedizione ed era diventata intermediaria col divino. La nostra era la civiltà dei santi e le figurine erano la continuazione dell’agiografia in ambito sportivo; così come i santini dei candidati erano la promessa elettorale, lo scambio tra voto e protezione, preferenza e raccomandazione, tra credenti e potenti. Ogni bambino aveva il suo patrono nel calcio, il suo santino preferito, il suo modello. Santi, santini e figurine erano le icone degli influencer di quel tempo.

*La mia play station dell’infanzia fu un agnello vero, adottato per capriccio in casa. Fui accontentato fino a quando pretesi di mangiare con lui sul pavimento, a quattro zampe, dalla stessa scodella. Non volevo umanizzare l’agnello ma ovinizzarmi io, in una fraternità evangelico-zoologica. Mi tolsero l’agnello per non farmi aderire al gregge. Dissero che se n’era voluto andare lui, per tornare da sua madre. Anche tu avresti fatto la stessa cosa.

*In quel tempo ero buono e volevo alleviare le fatiche domestiche di mia madre. E siccome era uscita, come quasi mai faceva, mi intrufolai in cucina e vidi un cartoccio traboccante di merluzzi che mia madre avrebbe pulito al suo rientro. Pensai di fare cosa utile lavando i merluzzi con il detersivo. Salii sulla sedia e li lavai nel lavandino con Olà, confezione blu con strisce bianche e rosse. Diventarono brillanti le squame dei merluzzi nella schiuma, sembravano pezzi d’argenteria. Sapevano di bucato. Mostrai orgoglioso la mia opera a mia madre. Notai però, con sorpresa, un segno d’ingratitudine in lei. Quel giorno, stranamente, mangiammo per secondo uova al tegamino. Che fine avranno fatto i pesci?

*A casa mia non avevamo ancora la tv e il frigorifero, per l’acqua fresca bastava farla scorrere dal rubinetto; primo segno di novità, era appeso al muro un topone nero a due teste, dotato di coda e guscio, che squittiva, chiamato telefono. 921585, il primo numero non si scorda mai. Era nel corridoio perché la telefonata aveva una valenza corale, famigliare e doveva essere breve, comunicare l’essenziale, come un ricetrasmittente militare. Passo e chiudo. In teleselezione, poi, ancora più brevi e si alza la voce, perché parla da remoto.

Una sera scoprì la modernità. Andai a trovare un mio amico, Maurizio, che aveva i genitori più giovani dei miei, era nato a Roma, aveva il televisore in casa, e pure il frigorifero e il termosifone. Coetaneo, abitante di fronte a casa mia, ma mille anni più avanti. A casa sua scoprì che c’era l’acqua minerale frizzante in bottiglie di plastica, c’erano le bustine di idrolitina e si poteva tracannare a cannella, prelevandola direttamente dal frigo, previo schiacciata di pedale del bestione bianco; senza miscelarla, come invece raccomandavano i miei genitori, con acqua a temperatura ambiente per evitare sicure morti per congestione. E alla fine della bevuta, visto il gas, era giustificato anche un rutto di adulta mondanità. C’era un riassunto epocale in quella bevuta, quante libertà in un solo gesto: acqua ghiacciata del frigo, gassata, bottiglia in plastica, bevuta a cannella, rutto incontenibile… Ammazza che modernità.

*A quattro anni sniffavo e cadevo in ecstasy olfattiva con turbe pseudoerotiche puerili. Lo spacciatore era il barbiere. Dopo lo spruzzo di un orrendo, bruciante profumo sulla nuca arrossata, donava sottobanco calendari profumati con donne dalle tette esagerate su vitini di vespa. Il calendario emanava un odore inebriante: il primo erotismo fu per via inalatoria, in sinestesia con la vista. Ma a 4 anni, le confondevo con le figurine Mira Lanza, quella eccessiva gibbosità anteriore e posteriore era ai miei occhi di bambino solo una monelleria del disegnatore e una caricatura femminile.

*Una di quelle sere di fine autunno in cui ti aspetti che dalla cucina ti chiami tua madre o tuo padre a mangiare castagne arrostite. Tu stai facendo i compiti e senti il profumo delle caldarroste impregnare la stanza e salire dalle narici. Felicità è quella pausa odorosa e quelle mani che liberano il frutto giallo e nero dalla buccia arrostita, quel goloso mangiare insieme, tra mani di carbone e punte fredde delle dita che frugano tra caldi frutti…Nostalgia delle castagne di casa. Dal tegame bucato entrano fiamme ed escono ricordi brucianti. La fiamma dei ricordi.

 Marcello Veneziani            

Il Gps iraniano disturbato da Israele e le carte che tornano utili…

Le carte che si chiamano carte appunto perché sono di carta. Quelle che nessuno può disturbare e che non si spengono mai. Mentre Israele impedisce ai missili iraniani di volare (e ci salva), il cervello impigrito dal digitale ricomincia a orientarsi.

Dagli Ebrei la salvezza. Non sono particolarmente filosemita, sono particolarmente interessato alla salvezza e dunque considero perennemente attuale Giovanni 4,22: “Salus ex Iudaeis est”. Osservo Israele e vedo che laggiù disturbano il sistema Gps per confondere gli incombenti missili iraniani. Quindi anche i navigatori satellitari sono una tecnologia fragile, buona quando le cose vanno bene. In Israele sanno meglio che altrove che le cose vanno tendenzialmente male e così dimostrano la perenne attualità delle carte stradali. Le carte che si chiamano carte appunto perché sono di carta. Quelle che nessuno può disturbare e che non si spengono mai. Ne avevo tantissime, quasi tutte del Touring Club, tante le ho buttate imprevidentemente (ipotizzando come un qualsiasi sciocco europeo un futuro di pace), qualcuna grazie a Dio l’ho tenuta e quando voglio capire davvero dove mi trovo o dove devo andare (non solo il percorso ma il contesto) le riguardo. Ogni volta sento la mente che mi si riapre, il cervello impigrito dal digitale che ricomincia a orientarsi. Si seguano le carte e gli Ebrei, per non perdersi.

 Camillo Langone__da __IL FOGLIO                                                                             

gps

Sacra o no, la libertà di coscienza non è più così ovvia in questo mondo..

 

Un concetto dato per scontato e condiviso troppo in fretta. Mentre per Kant la libertà era ancora la ragione d’essere della vita morale, a noi sembra essere diventata quella dell’indifferenza.

Il concetto di libertà di coscienza sembrerebbe tra i più ovvi e condivisi. “In coscienza sento di doverti dire questo”, “In coscienza sento di dover fare quest’altro”, “In coscienza non so che cosa fare” sono tante espressioni di uso comune, nelle quali l’appello alla coscienza rappresenta una sorta di ultima istanza rispetto alla quale il nostro interlocutore può dissentire, cercare di farci cambiare idea, ma alla fine deve chinare il capo, a meno che non voglia farci violenza. Questa la sostanza della libertà di coscienza. Basta però grattare un poco la patina di scontata familiarità che ricopre tale concetto per rendersi conto dei problemi che nasconde e che lo fanno diventare addirittura una vera e propria sfida.  Il fatto, a esempio, che una scelta venga compiuta “in coscienza” non vuol dire che si tratti di una scelta giusta. In coscienza ci si può anche sbagliare. L’inferno, si dice, è lastricato di buone intenzioni. Esiste insomma un criterio del giusto che non risiede soltanto nella nostra coscienza. E tuttavia dobbiamo anche sottolineare che nessuna azione giusta può avvenire “contro coscienza”. Di qui la responsabilità, non saprei come dirlo altrimenti, che ciascuno di noi ha di “farsi una coscienza”, una coscienza alla quale rispondere, per essere una persona veramente autonoma, uscita dallo stato di minorità di cui parlava Kant.  Per molti versi è strano, ma almeno fino a una ventina d’anni fa i diversi dizionari filosofici e politologici in circolazione non contenevano nessuna voce dedicata alla “libertà di coscienza”. Eppure il concetto l’avrebbe senz’altro meritata, considerato che la posta che con esso viene messa in gioco è niente meno che il riconoscimento dell’inviolabile dignità della coscienza dell’uomo, quindi della sua libertà di essere e di agire secondo ciò che egli ritiene il proprio dovere. Come si legge al n. 16 della Gaudium et Spes, “La coscienza è il nucleo più segreto e il sacrario dell’uomo, dove egli si trova solo con Dio, la cui voce risuona nell’intimità propria”.  Non so se gli uomini d’oggi, nel sacrario della loro coscienza, si trovino veramente “soli con Dio” o non piuttosto in una sorta di abisso senza fondo; in ogni caso mi pare che il brano appena citato contenga in nuce il senso più impegnativo del problema di cui stiamo parlando. Se la coscienza è il “sacrario dell’uomo”, allora niente che violi questo sacrario può essere detto buono o giusto. Di passaggio vorrei richiamare come la fonte di tutti i nostri diritti sia da cercare in ultimo in questa riconosciuta “sacralità” della coscienza. È qui che si misura l’inviolabile dignità, l’irripetibile unicità, la trascendenza di ciascuno di noi, diciamo pure, la nostra irriducibilità alle condizioni biologiche o socio-culturali della nostra esistenza. Tuttavia da questa “sacralità” non possiamo affatto dedurre ciò che mi sembra stia diventando una sorta di luogo comune del nostro tempo, e cioè che si possa considerare buono o giusto tutto ciò che viene fatto o pensato “in coscienza”. La coscienza, infatti, per stare alla citazione di cui sopra, non soltanto può non sentire più la “voce” di Dio, ma, lasciata a se stessa, non abituata a coltivarsi, può anche ridursi a mero riflesso dei nostri istinti e dei nostri desideri. Altro che “norma suprema dell’agire morale” come avrebbe voluto Kant. Siamo liberi di scegliere soltanto se ammettiamo che ci siano princìpi che oggettivamente dovremmo scegliere, altrimenti la coscienza diventa il luogo dell’arbitrio, il piano in cui tutte le prese di posizione si equivalgono. L’idea stessa di norma morale implica non a caso un legame, una validità non soltanto per me, bensì universale, o quanto meno condivisa da una pluralità di uomini, da una comunità. Per questo è importante l’educazione, l’educazione a coltivare la propria coscienza e quella delle generazioni più giovani, a tenerne aperto il senso critico nei confronti di se stessi prima di tutto e poi anche degli altri. Ci piaccia o meno, ognuno di noi nasce in un determinato contesto socio-culturale, è figlio di un determinato tempo, deve fare i conti con i valori della comunità in cui nasce e vive: ecco l’elemento eteronomo con cui non possiamo non confrontarci in vista della nostra autonomia morale. Una libertà di coscienza declinata soggettivisticamente, a propulsione interna, come se gli altri non esistessero, è destinata allo scacco e alla solitudine. Come ebbe a dire Roger Scruton, “il diavolo ha un solo messaggio, che non c’è alcuna persona plurale… Promettendo di liberare l’io, il diavolo stabilisce un mondo nel quale niente se non l’io esiste”.

Per Kant la libertà era ancora la ratio essendi della vita morale; per noi sembra essere diventata la ratio essendi dell’indifferenza: posso scegliere in un modo, ma anche diversamente; non c’è alcun ideale di vita morale condiviso che mi guidi nelle scelte che faccio. La prima persona plurale “noi” sembra essere scomparsa dal vocabolario. Siamo ripiegati narcisisticamente sul nostro io. In questo modo la nostra coscienza svapora, sempre più impotente, oltretutto, di fronte alle molteplici forme di “noi” oppressivo sempre in agguato nella storia.

Sergio Belardinelli __da__IL FOGLIO

 

kant

Nessuno si scandalizza degli indù per Kamala, quando l’induismo è la religione più discriminatoria.

Nel tempio indù del paese avito della vicepresidente Usa si prega per la sua elezione alla presidenza. Nessun turbamento, perché a Hollywood, Bel Air, Beverly Hills non si perde tempo a studiare le caste, antico impasto di classismo e razzismo.

Non si guardi alla pagliuzza razzista nell’occhio di Donald, si guardi alla trave razzista nell’occhio di Kamala. Nel tempio indù del paese avito della vicepresidente Usa si prega per la sua elezione alla presidenza. Sono notizie che non turbano nessuno. Evidentemente nessuno sa che l’induismo è la religione più discriminatoria del pianeta, grazie al sistema delle caste, antico impasto di classismo e razzismo. Di sicuro non lo sa Beyoncé, kamaliana come quasi tutta la casta del pop. A Hollywood, Bel Air, Beverly Hills nessuno perde tempo a studiare le “Leggi di Manu”, feroce testo sacro indù: “Un bramino può costringere un sudra a compiere un lavoro servile perché è creato dal creatore per essere lo schiavo di un bramino” (libro VIII, verso 413). Chiaramente quella dei bramini è la prima casta, quella dei sudra l’ultima… In India le caste più alte sono più ricche e chiare (discendenti degli invasori ariani), le caste più basse sono più povere e scure (discendenti dei dravidi invasi). Poi ci sono i fuori casta, i più disgraziati di tutti: 250 milioni di paria che nelle zone rurali sono ancora intoccabili, vittime di una sorta di apartheid. Fosse davvero antirazzista Kamala Harris direbbe ai sacerdoti induisti di lasciar perdere, di non coinvolgerla nei loro riti, ma è una democratica, e i voti razzisti servono.

Camillo Langone__da__Il Foglio

 

Kamala

Quando ci si sente vuoti…

 

“Mamma Norma, cosa faccio se sento un grande vuoto nel mio cuore?”

“Figlio mio, il vuoto non è un momento perso. Sentirsi vuoti è persino incoraggiante”

“È il segnale che all’improvviso ti dice quanto avevi bisogno di uno spazio per te stesso. È il momento in cui rispondi alla chiamata per mettere in ordine le tue cose e il tempo per cambiare”

“Sentire un vuoto nel cuore è come toccare il fondo, ma è solo una parte di un processo di autoguarigione. È per questo che non è un momento in cui si perde tempo, tutt’altro”

“In ogni caso, come parte di ogni altro processo della vita, il fatto di “sentirsi vuoti” si presenta fino a un certo periodo di tempo, cioè alla fine è solo un’esperienza temporanea”

“Questa è l’altra faccia della medaglia. Sentirsi male, sopraffatti, in conflitto con i propri sentimenti, con ciò che abbiamo e con ciò che sta arrivando. Non ti fa venire voglia di fare niente e perdi un po’ il gusto per certe cose semplici della vita. Questa sensazione angustia l’anima, la rimpicciolisce, la affligge e questo si sente anche nel petto e nella pancia. Tutto questo è ascoltare il corpo e stare con se stessi nel silenzio. Questo messaggio ci dice quanto abbiamo bisogno di tornare a noi stessi, quanto dobbiamo riconoscere le nostre forze e anche scaricare gli eccessi. In fondo, è una chiamata alla nostra stessa anima”

“Figlio mio, niente aiuta meglio che uscire all’aria aperta, meglio se sei solo. Prova a camminare su un sentiero che porta a un bosco, o un sentiero che costeggia una montagna o un lago. Noterai che la mente si schiarisce man mano che ti assimili gli odori e il calore solare tipici della terra di montagna. Madre Terra è una grande alleata e sembra addirittura ascoltare senza giudicare tutti i tuoi pensieri”

“Cammina quanto ti serve, riposati quando il tuo corpo te lo chiede. Respira l’aria umida della terra o la brezza di una cascata. Siediti e rifletti finché non senti di aver identificato come sei arrivato a questo momento. Quindi medita e cerca di svuotare la mente fino quasi al punto di assoluto relax”

“Sentire il vuoto nel cuore è grave quando la circostanza non viene affrontata in tempo. È una crepa che deve essere sanata con parole dolci, con il tempo di attesa, con pazienza, con il contatto con le altre forze alleate. Il vuoto è più intenso quando risucchia energia sana come se fosse un buco nero che digerisce tutto senza riciclare nulla”

“Figlio mio, approfitta del vuoto che senti per svuotare ancora di più la tua stessa vita, cioè per purificarti, disintossicarti dal mondo, dalle relazioni, dagli eccessi e dai rumori interiori. È tempo di ascoltarti. Per arrendersi al proprio spazio sacro, è tempo di riconoscere quanto dipendiamo dall’apprezzamento e dall’approvazione degli altri, è tempo di liberarsi e affermare quanto meritiamo di essere autonomi”

“Poi, torna alla civiltà e al comfort solo dopo aver compreso il messaggio. Quando torni, benedici e sii grato per ogni esperienza vissuta. Potresti sentirti ancora vuoto nel tuo cuore, ma la prospettiva della soluzione ora sarà diversa e ancora più ampia”

“È giunto il momento di riempire gli spazi vuoti di dolce energia, di acqua cristallina, di profumo di fiori, di canto degli uccelli, di fruscio di foglie cadute, di profumo di terra umida. Ma soprattutto di pensieri ottimisti, con nuovi impegni, con animi carichi del proprio respiro, la cui propria anima è ascoltata e curata”

Arnaldo Quispe –

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Elisewin e Adams…io e te.

Elisewin e Adams…io e te.

Leggo e rileggo. Ci sono autori verso i quali provo un ‘attrazione, una specie di innamoramento, che mi riporta a periodi sulle loro pagine. Alessandro Baricco è uno di questi, leggerlo è perdersi sempre in storie speciali i cui personaggi sono sempre persone particolari, magari eccentriche,ma mai banali , che la vita fa muovere su palcoscenici reali nel loro surreale, perchè il mondo è fatto di persone di ogni genere, tutte diverse tra loro eppure spesso accomunate da un caso che le porta a scoprirsi in incontri inimmaginati e inimmaginabili, ma quasi sempre salvifici.Ieri ho riletto per l’ennesima volta “Oceano mare” e mi sono persa ancora una volta in questo brano,dove la storia di Elisewin e Adam mi racconta la favola di una ragazzina e di un uomo più grande, che il destino ha legato per sessant’anni e che non riesco a dimenticare…

 

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Nelle terre di Carewall, non smetterebbero mai di raccontare questa storia. Se solo la conoscessero. Non smetterebbero mai. Ognuno a modo suo, ma tutti continuerebbero a raccontare di quei due e di un’intera notte passata a restituirsi la vita, l’un l’altra, con le labbra e con le mani, una ragazzina che non ha visto nulla e un uomo che ha visto troppo, uno dentro l’altra – ogni palmo di pelle è un viaggio, di scoperta, di ritorno – nella bocca di Adams a sentire il sapore del mondo, sul seno di Elisewin a dimenticarlo – nel grembo di quella notte stravolta, nera burrasca, lapilli di schiuma nel buio, onde come cataste franate, rumore, sonore folate, furiose di suono e velocità, lanciate sul pelo del mare, nei nervi del mondo, oceano mare, colosso che gronda, stravolto – sospiri, sospiri nella gola di Elisewin – velluto che vola – sospiri ad ogni passo nuovo in quel mondo che valica monti mai visti e laghi di forme impensabili – sul ventre di Adams il peso bianco di quella ragazzina che dondola musiche mute – chi l’avrebbe mai detto che baciando gli occhi di un uomo si possa vedere così lontano – accarezzando le gambe di una ragazzina si possa correre così veloci e fuggire – fuggire da tutto – vedere lontano – venivano dai due più lontani estremi della vita, questo è stupefacente, da pensare che mai si sarebbero sfiorati, se non attraversando da capo a piedi l’universo, e invece nemmeno si erano dovuti cercare, questo è incredibile, e tutto il difficile era stato solo riconoscersi, riconoscersi, una cosa di un attimo, il primo sguardo e già lo sapevano, questo è il meraviglioso – questo continuerebbero a raccontare, per sempre, nelle terre di Carewall, perché nessuno possa dimenticare che non si è mai lontani abbastanza per trovarsi, mai – lontani abbastanza – per trovarsi – lo erano quei due, lontani, più di chiunque altro e adesso – grida la voce di Elisewin, per i fiumi di storie che forzano la sua anima, e piange Adams, sentendole scivolare via, quelle storie, alla fine, finalmente, finite – forse il mondo è una ferita e qualcuno la sta ricucendo in quei due corpi che si mescolano – e nemmeno è amore, questo è stupefacente, ma è mani, e pelle, labbra, stupore, sesso, sapore – tristezza, forse – perfino tristezza – desiderio – quando lo racconteranno non diranno la parola amore – mille parole diranno, taceranno amore – tace tutto, intorno, quando d’improvviso Elisewin sente la schiena spezzarsi e la mente sbiancare, stringe quell’uomo dentro, gli afferra le mani e pensa: morirò. Sente la schiena spezzarsi e la mente sbiancare, stringe quell’uomo dentro, gli afferra le mani e, vedi, non morirà.

Alessandro Baricco, (da) “Oceano Mare”, 1993.

Adolescenti, meno rischi di abusi e depressione con padri più presenti…

 

La cosa peggiore che può capitare al padre di uno o più adolescenti è leggere un vademecum, tra le migliaia che si trovano in rete, su come essere un buon genitore rafforzando la propria relazione con la prole. In genere sono strutturati come una lista di buoni consigli, in genere servono solo a ricordare i difetti sche si hanno e gli errori che si sono commessi. Però è vero che si basano, prevalentemente, su una letteratura scientifica corposa, a sua volta fondata su dati raccolti tra decine di famiglie ed è da da queste ricerche, da questi dati che bisogna partire.

Uno studio effettuato dalla Penn University, ad esempio, ha provato a stimare l’impatto della maggiore o minore intimità tra genitori e figli adolescenti: basata su 388 ragazzi da 202 famiglie, ha misurato la loro condizione psicologica in tre momenti diversi tra i 12 e i 20 anni, differenziando i soggetti sulla base del rapporto costruito col padre e con la madre, ricostruito dai ricercatori con una serie di domande su quanto andassero da loro a chiedere consiglio, quanto si confidassero, quanto li mettessero a parte delle loro questioni personali.
Risultato: una maggiore intimità col padre produce un minor rischio di sintomi depressivi attraverso tutta l’adolescenza, una maggiore con la madre lo produce verso la metà di questo periodo delicato, intorno ai 15 anni; una maggiore intimità col padre crea meno preoccupazioni in merito al peso corporeo sia nei ragazzi sia nelle ragazze per gran parte dell’adolescenza, mentre l’intimità con la madre svolge questo ruolo prevalentemente nei primi anni e quasi solo nei ragazzi
In generale la letteratura scientifica tende a coincidere: nelle famiglie con due genitori un maggior coinvolgimento del padre – non solo nella modalità tipica di una volta, quella normativa – migliora i risultati accademici dei figli, ne aumenta l’autostima e, più in generale, li fa stare meglio.
Ma è vero anche che a pesare sulla salute mentale dei ragazzi e sulle loro capacità di raggiungere gli obiettivi che si prefiggono, pesano tanti di quegli elementi da rendere difficile legare i miglioramenti esclusivamente alla solidità emotiva della figura paterna: lo status socioeconomico di partenza, per esempio, ha un ruolo centrale.
Il rapporto più corposo sul benessere dei ragazzi in età scolare viene realizzato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità e si basa su dati raccolti in 44 Paesi, dai quali emerge che il 20% più povero del campione ha maggiori difficoltà a risolvere i problemi, a raggiungere i risultati che desidera, denuncia una situazione di salute fisica e mentale peggiore e si sente più solo. I ragazzini che provengono da famiglie meno danarose, peraltro, tendono più degli altri ad un utilizzo “problematico” dei social network.
Avere un padre e averlo presente può essere utile (ovviamente), ma non è detto che sia l’elemento fondante nello sviluppo di quei bambini che saranno gli adolescenti e poi gli adulti di domani. Più in generale, si nota in una ricerca realizzata dall’università di Halle-Wittenberg, in Germania, quello che conta di più è il clima familiare.
Ancora una volta si ricade nell’impalpabilità delle relazioni, laddove il tentativo di misurare cosa è bene e cosa è male si scontra col vissuto di ciascun nucleo famigliare, comunque sia composto e di qualsiasi genere siano i suoi protagonisti, che vi sia un padre o no, che vi sia solo il padre, che il padre sia lontano, che siano due o che ci siano due madri.
E qua si torna ai decaloghi, che spiegheranno per filo e per segno come essere un padre (o una madre) ideale; proveranno a tracciare un confine tra nuova genitorialità ed eccesso di confidenza; indicheranno – banalmente, correttamente – la via dell’ascolto e della pazienza. Ma ogni famiglia ha il suo calderone di limiti, parole ed errori. Così come ogni adolescente è una persona a sé. E come lo è, naturalmente, ogni padre.

Simone Spetia   

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Quando gli italiani amavano gli stabilimenti balneari…

Oggi terreno di battaglia politica, c’è stata un’epoca in cui i “bagni” erano un simbolo dell’estate italiana, raccontati dal cinema, dalla letteratura, dalla fotografia.

 

«Il mare è un accessorio», mi diceva quando ero piccolo mia nonna, che gran parte della villeggiatura la trascorreva seduta il pomeriggio ai tavolini all’ombra del Bar Sole di Rapallo e in spiaggia non scendeva praticamente mai. Per tutti gli altri che si affannavano nei viali, negli arenili, nei ristoranti e nelle discoteche, la partita da giocare era completamente diversa. Noi cuccioli invece, più che altro, il tempo lo passavamo usufruendo di una piscina, dall’acqua azzurra come in Sardegna, posta al centro dei Bagni Ariston, un piccolo ed elegante stabilimento dalle sdraio e i lettini bianchi e azzurri, posto in fondo al lungo mare davanti ad una piccola piazzetta intitolata a Ezra Pound, che nella cittadina ligure aveva avuto frequenti trascorsi prima di stabilircisi definitivamente nel ’62. L’acqua della piscina era bassa ed era un grande vantaggio per le mamme che potevano rimanere così a parlare sotto l’ombrellone, mentre i pargoli si tuffavano selvaggiamente in quella grande vasca da bagno in preda all’elemento sconosciuto. Il trampolino, che stava in fondo a una lunga e malandata passerella di legno sospesa sul mare, era severamente vietato e a esclusivo uso dei ragazzi più grandi. Ho avuto per un lungo periodo una grande consuetudine con gli stabilimenti balneari, non-luogo per eccellenza delle vacanze estive, che mi hanno accompagnato per sedici estati consecutive: da quando ero in fasce fino ai tormentati anni dell’adolescenza.

Stessa spiaggia, stesso mare. Le vacanze all’epoca erano molto lunghe e si dividevano militarmente in due parti: a luglio, vestiti alla marinara come Susanna Agnelli, sulla sabbia di Forte dei Marmi a casa dei miei, ad agosto nella villa sulle hills di Rapallo, dove da giugno a settembre, tutti gli anni, si trasferiva mia nonna. Il derby per molti anni così si è giocato tra i Bagni Dalmazia di Forte e gli Ariston di Rapallo, due luoghi molto diversi tra loro di cui ho ricordi contrastanti. A Forte dei Marmi ancora oggi la spiaggia non è spiaggia ma salotto, e come si sa quasi tutti ambiscono a stare nel salotto giusto, ovverosia in quei due o tre stabilimenti dove prenotare sdraio e lettini per la stagione è un’autentica impresa, senza contare che bisogna avere una sfilza di referenze degne di un socio di un club inglese riservato ai Lord. I Dalmazia confinavano con la mitica Capannina di Franceschi e rivaleggiavano ad armi pari con altri bagni prestigiosi dove ad abbronzarsi, prima della recente invasione degli oligarchi russi, ci potevi trovare i discendenti di famiglie millenarie e parecchio influenti.

A Rapallo invece le vacanze somigliavano a quelle di migliaia di altri italiani che, consolidando una tradizione nata negli anni ’50 nel periodo del boom economico, avevano preso l’abitudine ad agosto di prendere letteralmente d’assalto i lidi della penisola. «Stabilimenti balneari, caffè all’aperto, alberghi, nei quali la borghesia si abbandona alle dolcezze velenose delle vacanze estive», scriveva Moravia in Le vacanze di Cremonini, nel 1973, rendendo bene l’idea. Perché sì, da sempre, in costume da bagno, i vizi nostrani emergono in modo impietoso, come è raccontato magistralmente da Dino Risi nell’imprescindibile Il sorpasso o nel sottovalutato e quasi introvabile L’ombrellone, pellicola apocalittica del 1965 dove Riccione sembra l’anticamera dell’inferno.

‘ voce narrante di Pino Locchi in Sapore di mare dei fratelli Vanzina del 1983, film cult della mia generazione che ancora non aveva letto Moravia né aveva avuto il tempo di sognare la Lancia Aurelia cabrio guidata da Gassman ne Il sorpasso. Le scorribande sgangherate in Vespa di Jerry Calà, le polo Lacoste, le gite in pedalò, i giochi da spiaggia, le infinite partite a biliardino e, ovviamente, i corteggiamenti serrati descrivevano perfettamente le nostre giornate da sbarbi liceali in vacanza. L’estetica di quelle estati è richiamata a quella ritratta negli scatti di Claude Nori, il fotografo francese che intorno alla metà degli anni ’80 partecipò al racconto collettivo Viaggio in Italia, realizzando un reportage sentimentale sul mare italiano, una serie di immagini indimenticabili di luoghi mitici e particolarmente evocativi come Capri, Napoli, Portofino, la Romagna o Stromboli, e soprattutto i volti delle persone che all’epoca li frequentavano. Quelle persone in costume da bagno, con il corpo scottato dal sole, che si radunano intorno a un juke-box, che mangiano un gelato all’ombra di un ombrellone, che si baciano davanti ad una cabina colorata, fanno parte di una poetica italiana indimenticabile. Una giovinezza, come racconta Rohmer in Conte d’été, (il suo film estivo per antonomasia), tutto il tempo è dedicato all’amore e alle illusioni.

Cosa resta oggi di quelle estati, in un tempo falcidiato dagli easyjetter, dal turismo mordi e fuggi e dagli Airbnb, in cui perfino gli stabilimenti balneari, sia che si stia a Capri che a Santa Margherita, sono stati vittima di una mostruosa metamorfosi, contesi a suon di sponsorizzazioni da brand e influencer? Lo chiamano takeover delle spiagge, questa assurda pratica che ha trasformato i bagni, firmati da capo a piedi con lettini, divani e ombrelloni fatti su misura, in posti che sembrano diventati delle lussuosissime boutique. Non è scampato all’ondata fashion nemmeno il mitico Bagno Piero di Forte dei Marmi, quello frequentato dai Moratti per intenderci, che al Forte hanno casa praticamente da sempre.  C’è una foto di Ghirri, scattata ai Bagni Internazionali di Capri, in cui vengono ritratte davanti ai Faraglioni una serie di sdraio colorate. Sono disposte a coppie, sistemate diligentemente le une di fianco alle altre. Giacciono rivolte verso l’infinito, senza alcuna presenza umana, come affacciate a gustarsi il panorama a picco sul mare del golfo di Marina Piccola. Se guardo quella foto attentamente e mi soffermo ad osservare il legno del pontile, il salvagente appollaiato sulla struttura d’acciaio colorata di azzurro della palafitta e il profilo dei tetti delle cabine, mi sembra di vedere il riassunto di tutta         un’estate italiana di una volta. Anche se io a Capri, da bambino, non ci sono stato mai.

Andrea Frateff-Gianni  

Non so trovare un titolo. Ma so che per me è importante.

 

Se ancora riesci a respirare.Se i tuoi polmoni si riempiono di aria.
Se il cuore batte.E pompa sangue.E di quel sangue senti il flusso caldo,nelle vene.
Se le gambe reggono il peso del tuo corpo.E ancora ti ricordi come si fa a mettere un piede dietro l’altro.
Se le braccia fanno scudo ad un cucciolo di uomo.E le mani sanno stringere altre mani.
Se gli occhi sanno piangere.E le labbra piegarsi in un sorriso.
Se riesci a ripensare al Passato senza compromettere il Futuro.
Se ancora hai un Presente.Qualche sogno nelle tasche.E la possibilità di crescere e invecchiare.
Se ancora ti resta una Vita intera davanti …

Ecco.Se hai tutte quante queste cose … sappi che sei fortunato.Non hai bisogno di nient’altro per essere felice.

Allora prendi la tua Vita.E non limitarti a guardarla da lontano,come fosse il film di qualcun’altro.Diventane protagonista.Scrivi la tua storia.Vivi come vorresti vivere.E non come ti dicono di farlo.Balla ad un ritmo che sia soltanto il tuo.Scegli chi vuoi essere,e diventalo.Anche se fa paura.E ne fa tanta.Scegli chi non vorresti essere.E stai lontano dalle strade che rischierebbero di trasformarti proprio in quello.
E’ tutto un gioco.Un battito di ciglia.Il Tempo di un respiro.Una porta che si chiude.Una finestra che sbatte.Un temporale in arrivo.Una giornata di sole.L’arcobaleno.Le nuvole,e lo zucchero filato.E’ una partita.Una follia.Una mano vincente.Una scommessa sbagliata.Una sfida.Una corsa.Una caduta.Una ripresa.Ripartenza.

Allora prendi la tua Vita.E vivila.Tutta quanta.Fino in fondo.E’ tuo dovere.Hai un obbligo preciso verso tutti coloro che vorrebbero,ma non possono.Tu non li conosci.Ma loro esistono.E non sono stati fortunati come te.

E se è vero che le parole sono pietre,prendi queste mie e trasformale in mattoni.Costruisci un parco giochi nel giardino del tuo cuore,e corri lì a divertirti.Come quando eri bambino,e ancora sapevi come fare.
Se è vero che le parole sono pietre,prendi queste mie e scagliale lontano.Oltre l’orrizonte.Poi,corri a riprenderle.Ma non preoccuparti davvero di arrivare alla meta.Ciò che conta è il viaggio,e come,e quanto,esso sa cambiarti.E come,e quanto,ti lascerai cambiare.
Se è vero che le parole sono pietre,prendi queste mie e non dimenticarle.Fallo per me.Ti prego.Ho bisogno che tu te ne ricordi.

Antonia Storace

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