13° p.C. – E lo chiamano sindaco

A meno che non si sia recato lì, in un’affollata via De Conciliis, luogo dal fascino ancora irresistibile della “movida” avellinese, per esercitare il suo ruolo di pubblico ufficiale ( ma così non è stato), il sindaco è stato protagonista di una brutta pagina della fase due dell’emergenza coronavirus. Perché lui che aveva promesso di essere in strada a “vigilare” sui comportamenti dei cittadini, quanto ad assembramenti e a norme anti-contagio, si è invece gettato nella bolgia. Causata proprio dalla sua allampanata presenza in mezzo ai tanti ragazzi immotivatamente festanti. Il video di quanto è accaduto l’altra sera nell’epicentro triste della vita notturna locale, dove quasi per un riflesso condizionato i nostri giovani continuano a riunirsi, e di frequente si fronteggiano bande per regolare conti e darsele di santa ragione, è su YouTube ed è diventato subito virale. Pochi minuti di cori “chi non salta è di Salerno”, altri inneggianti al giovanilismo del primo cittadino, sempre più uno di loro. In mezzo a loro, a scattare selfie: magari fossero la documentazione delle palesi violazioni della legge compiute da ragazzi troppo vicini tra loro, annullando ogni distanziamento sociale e creando un assembramento di tipo ferragostano. Con quello che si chiama sindaco, al centro dell’affollamento, contento. Ora, in verità, non sappiamo che uso farà delle immagini ritratte sul suo telefonino. Certo l’apice dei consensi tra gli studenti ancora minorenni della città l’ha ampiamente raggiunto. Dopo le chiusure preventive delle scuole, per tutto l’anno, i “paternalistici” richiami a rimanere in strada fino all’una di notte, l’impegno ostinato a garantire a tutta la cittadinanza la protezione dall’epidemia, insieme alle mascherine. Per poi finire tutti insieme a saltare ed abbracciarsi in via De Conciliis. Ecco questo è colui che ci governerà per altri quattro anni, circa.

12° p.C. – Il teatrino della politica

Il mondo dello spettacolo, come si sa, è fermo. Teatri e cinema sono in attesa  di un’improbabile riapertura fissata a metà giugno. Quando riprenderà anche il calcio di serie A, anche se nelle modalità piuttosto “artificiali” tipo Bundesliga, dove, senza pubblico, si marca piano e soprattutto non si può gioire più di tanto quando si segna un gol. Ma se gli spettacoli live sono da mesi sospesi, c’è chi provvede a sostituirsi ai comici e agli attori protagonisti. Si tratta dei nostri amministratori locali, che non evitano mai di finire in prima pagina con dichiarazioni singolari e reciprocamente discordanti. Repressa la loro voglia di elezioni, l’allusione non può non riguardare il leader maximo Vicenzo De Luca, il sindaco di Napoli Luigi De Magistris e quello di Avellino Gianluca Festa, a ricoprire un ruolo secondario. Il governatore della Campania in questi mesi di emergenza Covid-19 si è guadagnato i palcoscenici internazionali, applaudito e consacrato in tutt’Italia e all’estero, con le sue uscite pirotecniche ed i “lanciafiamme” evocati contro i trasgressori delle sue regole ferree. Quelle che, comunque, hanno tenuto lontana l’epidemia dalla regione. Il fumoso ex magistrato da anni primo cittadino di Napoli, dal canto suo, ha cercato in tutti i modi di mettersi in mostra, ma, compresso dal debordante protagonismo di De Luca, ha avuto poche chance di visibilità. Ancora meno presente il neopopulista sindaco di Avellino. Il suo “prima gli avellinesi”, in salsa moderata, è risultato un po’ sciapo. Ha sì provveduto in maniera indipendente all’allestimento di una stazione mobile per i test sierologici, a Campo Genova, convinto che fossero efficaci, malgrado la scienza medica ne riconosca validi soltanto due tipi: non di quelli praticati nel capoluogo irpino. Tuttavia pure lui può andar fiero di aver quasi debellato il virus. Anche se ogni tanto riappaiano i contagi. Ora, però, nella fase 2, i tre pezzi da novanta (o quasi) si accapigliano in modo incrociato sulla gestione della “movida”. De Luca, si sa, è per un suo drastico contenimento, dopo gli eccessi libertini dei primi giorni del dopo lockdown, e vuole che i locali già alle ore 22.30 cessino di servire bevande alcoliche e cibo d’asporto. Di parere opposto, invece, il libertario De Magistris che, quasi a cercare la provocazione, ha deciso la chiusura dei baretti napoletani alle 3.30, gli stessi che il governatore vorrebbe vedere chiusi a mezzanotte. Nella polemica così innescata s’è inserito quasi inconsapevolmente Gianluca Festa che, nell’ordinanza per il Comune avellinese, ha stabilito la chiusura di bar e ristoranti all’una, dichiarandosi apertamente contrario alle direttive di De Luca: chiusura dei locali alle ore 23.30 e, ripetiamo, divieto di servire alcol dalle ore 22.30. Nella surreale competizione in corso per l’autorità che dovrebbe legiferare a riguardo, i cittadini assistono un po’ increduli. In attesa di sapere quali saranno realmente gli orari della nostra timida vita notturna nelle prossime settimane.

 

p.c. 11° giorno – Scudo

Una delle poche certezze sulla diffusione del contagio di coronavirus in Italia è l’evidente disparità fra le regioni del Nord e quelle del Sud. I numeri descrivono, infatti, un’insistita permanenza dell’epidemia, da una parte, e un propagarsi dell’infezione molto più flebile dall’altra. Con pochi focolai ancora attivi, come ad Ariano Irpino o qualche zona del casertano, mentre per il resto si è vicini al covid free o quasi. La spiegazione di questa ambivalenza potrebbe arrivare dal professor  Antonio Giordano, fondatore e direttore dell’Istituto Sbarro per la ricerca sul cancro e la medicina molecolare di Filadelfia (Usa), nonché professore di Anatomia patologica all’Università di Siena. Intervistato dall’”Adnkronos”, l’esperto ha spiegato il contenuto della ricerca pubblicata su “Frontiers Immunology”, dal titolo “Covid-19 e alta mortalità in Italia: non dimentichiamo la suscettibilità genetica”. La sua tesi è che uno “scudo genetico” potrebbe aver protetto l’Italia del Sud dalla pandemia che ha travolto le regioni del Nord. Un’ipotesi da validare ma, a quanto pare, già fondata su solide basi scientifiche. In pratica ci sarebbe un particolare assetto genetico, il Dna, a proteggere dal coronavirus le aree del Meridione rispetto al resto del Paese. I ricercatori Correale, Saladino e Baglio del Ministero della Salute, stanno indagando sul sistema Hla (antigene leucocitario umano), che ha un ruolo chiave nel modellare la risposta immunitaria antivirale, sia innata che acquisita, rispetto alla “disregolazione immunitaria sistemica”   che provoca il danno polmonare infiammatorio e l’insufficienza respiratoria mortale correlata al virus. Nel Settentrione, dove la malattia ha colpito in modo più pesante, malgrado la massiccia migrazione dalle regioni colpite verso il Sud prima del blocco nazionale, le regioni meridionali hanno registrato tassi di infezione molto più bassi. Ed ecco l’interrogativo sulla specifica costituzione genetica dei cittadini del sud. Nella mappatura dell’epidemia su base regionale il fattore dirimente potrebbe essere quindi l’interazione fra Dna e ambiente. Con il Meridione, protetto da uno scudo genetico, sul quale influiscono non poco le caratteristiche del contesto ambientale di riferimento.

p.c. n. 10 – Decimo giorno

Il decimo giorno dell’era post coronavirus ci riporta di colpo in quella precedente. Quando la paura dell’epidemia ci bloccava in casa. Nell’unico rifugio sicuro. Quello in grado di interrompere l’implacabile catena del contagio, capace di raggiungere, inspiegabilmente, anche posti lontani dai principali focolai d’infezione. Il quadro attuale rimane spaccato i due, con il Nord ancora aggredito dall’inarrestabile pandemia e il Sud sfiorato appena dall’emergenza sanitaria, per numero di positivi e di morti. Si conferma il paradosso, mica poi tanto tale, di un virus che non molla le zone più economicamente sviluppate del Paese, mentre quasi irrilevante è la sua incidenza nel regioni più disagiate. Poi però succede che un colpo di coda della pandemia faccia riprecipitare nella paura la “zona rossa” permanente della Lombardia, arrivando pure dove finora sembrava essere sparita. Infatti, dopo essere stata proclamata prima città italiana covid free, anche Trapani ha visto infrangere il lungo periodo di contagi zero. Con cinque casi di positività dopo ben ventotto giorni senza virus. Così, quello che già si profilava come uno spazio ideale all’interno della Sicilia, un’isola nell’isola, è stato sfatato. L’emergenza non è finita. Anzi il covid circola ancora grandemente per la penisola. Sebbene nessuno sappia ancora come. Fino a raggiungere gli angoli più lontani dal ceppo epidemiologico iniziale. Sembra quasi che abbia maturato una sua intelligenza: appena ci apprestiamo ad una maggiore libertà, appena tiriamo un sospiro di sollievo, il contagio ritorna, smentendo le congetture sul suo presunto indebolimento. No, attualmente, non ci sono luoghi covid free in Italia. Nemmeno a tre mesi dall’inizio dell’epidemia.

p. c. n. 9 – Distanze

Il covid, la cui presenza, sebbene attenuata, si continua ad avvertire, non solo ci ha tolto affetti importanti, specie tra quelli più anziani e malati, ma ci ha allontanato reciprocamente, in maniera difficilmente reversibile. Quando sarà, come si prevede neanche a settembre,  dovremo riabituarci agli abbracci, alle strette di mano, alle carezze. Mentre al corporeità dell’altro, che sia un amico o un congiunto, siamo da tempo già abituati. In barba alle disposizioni nazionali (e mondiali) sull’obbligo di distanziamento fisico e sociale, come misura di protezione dal contagio; ad Avellino, città non particolarmente colpita dal virus, come pure tutta la Campania e il Sud, se si guarda a come i più giovani ma anche gli anziani si muovono negli spazi pubblici, la separazione reciproca è mediamente di appena una decina di cm. Annullata quasi per tutti la distanza di sicurezza di minimo un metro, si è tornati senza indugi alla normalità della distanza zero tra fidanzati o amici stretti. Come se nulla fosse accaduto.

Ma anche se ci si dà allo struscio per l’isola pedonale, il risultato è altrettanto preoccupante per la salute pubblica. Ragazzi che, complice l’apparente minore tenacia dell’epidemia, si sono buttati direttamente nel clima vacanziero dell’estate, sospinti anche dalle assurde modalità della didattica a distanza. Con le mascherine non indossate sul viso, ma portate giusto per evitare le multe antimovida, bermude e magliette da mare, sono le nuove generazioni quelle che sembrano soffrire meno la prolungata durata dell’emergenza sanitaria. Perché, sia chiaro, anche qui, non è ancora finita.

Otto p. c. – Aciv

È una notizia a cui si stenta a credere. Individuato nella movida il pericolo pubblico numero uno, nei centri storici e nelle piazze delle città, il ministro agli Affari regionali Francesco Boccia ha proposto, insieme ai comuni, l’assunzione di 60mila “assistenti civici” per vigilare sui comportamenti a rischio della popolazione. Giovani innanzitutto. Con reazioni anche surreali. Se si pensa alle accuse di “deriva autoritaria” nei confronti del governo provenienti dalle destre rappresentate da Meloni e Salvini. Gli “aciv”, in sé pochi per risultare utili in tutto il territorio nazionale, dovrebbero essere delle figure a metà tra i pensionati che, fascia al braccio, sovrintendono all’uscita da scuola dei bambini delle elementari e medie, ed i “vigilini” o ausiliari del traffico chiamati a supportare il lavoro della polizia municipale. Solo che non avranno alcuna funzione assimilabile a quella delle forze dell’ordine. Non potranno intervenire direttamente, né fotografare né cercare di dissuadere con forza i temuti assembramenti in tempi di Covid. Senza alcuna competenza specifica, costituiranno delle sorti di “ronde” anti-contatti ravvicinati, allertando le azioni di contrasto telefonando ai carabinieri e alla polizia. In un’opera, moralmente discutibile, di delazione, seppur discreta. Non potranno infliggere multe salate né bloccare gli irresponsabili, anche se più di un dubbio sovviene di fronte all’annuncio del Ministero dell’Interno, secondo cui non espleteranno alcuna forma di servizio rivolto ai cittadini. Quando prima lo stesso ministro aveva smentito di essere a conoscenza dell’iniziativa. L’arruolamento di questa specie di “navigator” dell’epidemia, infatti, sembra essere stato voluto da pochi, che comunque hanno già provveduto a preparare un bando di assunzione riguardante varie regioni. E non si tratta di una fake news.

P. C. – Settimo giorno

A sentire certi media, in particolare i canali istituzionali, l’interesse generale si è spostato sulla “rivolta dell’aperitivo” da parte dei più giovani, con i loro comportamenti sfacciatamente a rischio. Questi avanguardisti del ritorno alla normalità, in tempi ancora di Covid, ne hanno combinate parecchie nell’ultimo weekend. Aggressioni a esercenti di bar, a vigili e poliziotti, fotografi costretti a consegnare la scheda del loro teleobiettivo per eliminare immagini compromettenti, e soprattutto risse un po’ dovunque. Ragazzini imberbi per lo più. Diciamo subito che questo non può costituire la nuova emergenza in un periodo già duramente segnato da altro. Perché l’epidemia non è cessata. E solo l’urgenza della pesantissima crisi economica in cui l’Italia è sprofondata, ha imposto una ripresa piuttosto affrettata. Piuttosto, sarebbe opportuno ricominciare a pensare a problematiche  più gravi come, ad esempio, il riscaldamento climatico. Emergenza ambientale difatti non appianatasi, anzi. Questi tre mesi di clausura, con le limitazioni degli spostamenti e della mobilità nel nostro Paese, hanno in parte ridotto l’inquinamento, altro fattore direttamente collegato. Ma non può essere sufficiente, sebbene la natura circostante abbia potuto goderne i benefici. Non lo stesso per i fiumi, che, anche nella nostra provincia, sono tornati immediatamente ad assumere variegate colorazioni a seconda del tipo di scarico, abbandonando la momentanea limpidezza, non appena è scattata la riapertura degli stabilimenti industriali. Viviamo dunque la stagione dell’attenzione, in cui difenderci da un virus letale e, allo stesso tempo, guardare ai conti, senza distrarci da quella che potrebbe essere la sciagura più grande per conseguenze devastanti e globali. Il riscaldamento del pianeta, per quello che già adesso comporta, con l’alzamento del livello dei mari ed altro, provocherebbe milioni di vittime e danni economici inimmaginabili.

p. C. n. 6 – #atuttiicosti

Sembra che il nuovo fronte di lotta in questa seconda fase della pandemia, che in Italia ha rallentato la sua intensità, mentre non è altrettanto in altre zone del pianeta, sia diventata la movida. Sì, proprio quel termine d’importazione che descrive la voglia di socialità alcolica dei più giovani. Quelli per la maggior parte risparmiati dal contagio, che, chiusi nelle loro case per tre mesi, adesso prendono alla lettera gli inviti a tornare alla normalità (con riserva). Gli apericena e gli happy hour da virtuali sono di nuovo reali. Le spiagge, prima irraggiungibili, ora sono mete possibili di momenti spensierati. Ma sta di fatto che l’affollamento delle piazze e la presa d’assalto dei bar, coi tavolini fuori, per consumare un drink o una birra, deponendo i dispositivi di protezione dal virus, preoccupano non poco sindaci e autorità locali. Il pericolo del covid non è affatto cessato e ritornare immediatamente alla normalità, se può essere positivo per esercenti e ristoratori (ma i ristoranti sono ancora troppo difficili da rifrequentare), fa venire i brividi ai più adulti. Così, in molte città, i sindaci si sono subito affrettati a chiudere tutto: bar e locali alle 21.30 come a Brescia, oppure alle 23 come in tutta la Campania. Provvedimenti in leggera controtendenza con gli annunci della fase 2, che spingono alla riapertura. Si sentono invece appelli alla sobrietà, a rispettare i divieti di assembramento o di semplice seduta, di bere all’aperto. Altri, come a Roma, cercano di dissuadere più che reprimere. Quello che si deve mettere in conto è la voglia dei giovani di dar libero sfogo alle emozioni compresse da tre mesi di lockdown. Con l’auspicio che vada tutto bene, come recita uno slogan ormai dismesso della fase 1.

Post coronavirus – Illusioni

Mentre i dati dell’epidemia si confermano meno preoccupanti: ma nessuno degli scienziati mediatici è in grado di spiegarci il perché, anche i dispositivi di controllo, attivissimi nella prima fase dell’emergenza, sembrano essersi allentati. Soprattutto in una cittadina di provincia come la nostra. Il mainstream vira decisamente verso l’ottimismo o almeno fa di tutto per addolcire le ancora molte limitazioni che pesano sui nostri comportamenti. Liberamente condizionati e adeguatamente distanziati. Sembra affermarsi un nuovo stile di vita, indossando mascherine e guanti anallergici. Senza contatti fisici. Nell’attesa che finalmente si arrivi a conoscere il virus e la sua minaccia letale, da parte della moltitudine degli esperti, finora più attenti andare in tv che a studiarlo in laboratorio. La suggestione indotta è che tutto si possa fare, basta rispettare norme e regolamenti. Scelta difficile da mettere in pratica perché di problematica attuazione. Come ha scritto di recente nel suo blog, Massimo Fini, “ci hanno rubato le vacanze”, e come dargli torto. Tutto non sarà come prima, è l’unica certezza. Al crescere dei messaggi retorici inneggianti alla ripartenza, alla ritorno alla normalità, allo “stiamo andando nella direzione giusta”. Tre mesi non sono serviti a debellare il nemico invisibile che ha portato via tante vite, e allora cerchiamo di convincerci che quest’estate potremo rivedere il mare. Dentro una illusoria bolla di libertà, su cui è ancora la paura a farla da padrona. Ma le leggi dell’economia e della crisi ci hanno imposto all’improvviso un cambio di passo a cui tremanti ci apprestiamo.

post coronavirus 4 – divieti

Uno dei mantra di questa fase di parziale allentamento delle misure anti-covid è sicuramente il divieto di assembramenti. Il pericolo di contagio non si è estinto, come la stessa virulenza dell’infezione entrata in una situazione di latenza, per numero di infettati e vittime in calo. Ecco quindi che la ripartenza (economica) del Paese non può prescindere dalle raccomandazioni divenute obbligatorie, che riguardano il distanziamento reciproco di almeno 1 m., 1 m. e mezzo, in alcuni casi pure 2. L’uso irrinunciabile delle mascherine e le ormai consuete norme di igiene personale, evitando di toccarsi ed avvicinarsi troppo. Ma tra le maglie di una regolamentazione giustamente rigida si colgono alcune incongruenze finora poco spiegate alla massa dei cittadini, rimessi in libertà. C’è, ad esempio, una prescrizione che impedisce lo stazionamento e non solo l’assembramento, l’affollarsi nelle piazze o strade delle nostre città. È infatti vietato già da qualche mese fermarsi durante le proprie uscite di footing o di marcia veloce, neanche nei parchi pubblici all’aperto. Non ci si può sedere né se si è da soli o in compagnia, per rinfrancarsi un po’ oppure semplicemente per godere del sole e dell’aria salubre, facendo una pausa. Le panchine sono off-limits. Si deve continuare a trottare. Così, ignorando le ragioni scientifiche di questo tabù legato all’emergenza coronavirus, oppure non avendole ben capite, ci ritroviamo durante questi anticipi d’estate alle prese con la stessa proibizione quando si va in spiaggia, al mare. Qui, il bagno è stato liberalizzato, ma, in attesa di un poco probabile adattamento degli stabilimenti balneari nell’attrezzare le spiagge alle nuove necessità dell’epidemia, resta il no assoluto al prendere il sole stendendosi sull’arenile. A causa di un pericolo che evidentemente può avere vita più facile se si sta fermi piuttosto che in movimento. Intanto, che si è aperta la nuova emergenza chiamata “movida”. Gli assembramenti irregolari davanti a bar e pizzerie aperti, da parte di frotte di giovani in cerca di svago alcolico e socialità promiscua. Re De Luca, in Campania, è subito intervenuto di autorità, imponendo la chiusura dei locali alle ore 23. Ma crediamo che neanche questo possa essere sufficiente a calmare la voglia di normalità delle nuove generazioni. Per tenerli a casa, con la bella stagione, occorrerebbe un coprifuoco stile Repubblica popolare cinese.