17 luglio 1959

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Forse quello fu il giorno più bello della mia vita. Non esagero.

Quello stesso giorno invece molti piansero.

Pianse mio padre, pianse la musica e pianse il jazz. Un lamento

rimase sospeso ad ondeggiare con i suoi ritmi sfiniti e i contrabbassi

di piombo e le trombe strozzate ad accompagnare una voce che

graffiava l’anima.

Quello fu il giorno più bello della mia vita. È vero. Ma alla sera – 

quando tornai a casa – seppi dallo sguardo di mio padre che

qualcosa di doloroso si era manifestato, qualcosa che aveva

incrinato la quotidianità che la radio ci propinava con le 

sue canzonette e i coretti e gli ottimismi da lucido

per scarpe: una voce compìta, impassibile, aveva annunciato

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che Billie Holiday da quel giorno non avrebbe più cantato. Che Billie

non avrebbe più sedotto e strizzato i cuori e sfregiato la

spensieratezza con la sua voce. Era morta nel letto di un ospedale

della scintillante New York con le manette ai polsi, l’epatite, lo

spettro dell’eroina e la polizia al suo capezzale.

Quel giorno il sole sorse come ogni altro giorno, ma non sembrò

splendere come sempre.

Io e Peppe Gelfo eravamo amici per la pelle. Stavamo quasi tutto il

giorno insieme: d’inverno ci vedevamo dopo la scuola e andavamo a

 giocare magari dentro qualche palazzina diroccata o in fondo a

qualche vicolo, dove qualcuno di noi assaporava il gusto delle

sigarette fumate nella clandestinità. D’estate il tempo si dilatava

infinitamente e le giornate ci apparivano come sterminate praterie

assolate di cui non riuscivamo a scorgere l’orizzonte.

A quel tempo io avevo dodici anni, lui uno in più.

Era l’epoca del rock’n roll e dei primi jeans, degli stivaletti e della

brillantina; i ragazzi si pettinavano alla James Dean, indossavano

stivaletti lucidi come specchi e si divertivano ad organizzare innocue

scorribande per le vie di Palermo fantasticando di gioventù bruciate.

Durante le sere più calde e noiose, insieme a Peppe e ad altri ragazzi

del quartiere più grandi e smaliziati, ci addentravamo furtivamente

nel cuore della città, dentro al quartiere Monte di Pietà, al

Castellammare o magari alla Kalsa, la zona del porto, alla Vucciria o

al Borgo, scivolando dentro vicoli umidi e malfamati, lungo la

via Sedie Volanti o la via dei Candelai, la via Gagini, la via Lungarini,

vicolo Marotta, rischiando forse anche la vita –  sì – lì dove fino

all’anno prima lavoravano a pieno regime le “pensioni”, eufemismo

usato per indicare il bordello: la pensione Taibi, l’Igiea, la

Settequarti; il sangue ci correva caldo e veloce nelle vene mentre

penetravamo in quei luoghi impregnati del peccato, quel “peccato 

sudicio” da cui Don Gino ci metteva in guardia durante i pomeriggi

passati in oratorio e che invece ci attirava a sé con forza. Le

 incursioni in quelle trincee del vizio qualche volta si

esaurivano dopo avere bersagliato di insulti e frutta marcia qualche

ragazza che – dopo pupizuccherola chiusura

delle “case” – se ne stava ore

appoggiata ad uno spigolo o ad un

portone o seduta su una seggiola

sgangherata a fumare o a leggere

un giornale o a ravvivarsi il rossetto un po’ sulle labbra e un po’

sugli zigomi. “Minchia, e che siete, pupe ri zuccaro?” qualcuno dei

ragazzi spavaldamente domandava. E in effetti quelle  ragazze erano

tanto truccate da sembrare le bambole di zucchero che

mangiavamo per la festa dei Morti.

Don Gino lo sapeva che bazzicavamo quei luoghi, forse ci aveva

visto, e forse magari ci aveva visto proprio mentre ben coperto si

intrufolava in una di quelle pensioni – così come qualche malalingua

insinuava. La domenica in confessionale ci chiedeva se non eravamo

passati proprio da “quelle parti”, e se non le avevamo guardate con

“concupiscenza” – usava proprio quel termine che io non capivo ma

immaginavo avesse a che fare con qualcosa di oscuro e  caldo e

seducente al tempo stesso. «Perché quelle là, quelle donnacce, eh…

peccano contro Dio e la Vergine! E voi non vi ci dovete avvicinare se

non volete cadere nelle mani del demonio! Capito?» – tuonava con

voce rauca. E a volte insisteva per sapere tutto – per redimerci, si

intende – e ci chiedeva quanto avevamo guardato e come, e poiché

«il pentimento è più sincero quante più sconcezze si

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confessano», allora ci interrogava sui particolari: se

avevamo guardato le ”minne”, o «proprio lì sotto… eeeh  mi sono

spiegato, ah?». «Che Dio mi perdoni, ah!», diceva asciugandosi il

sudore col fazzoletto ricamato, «se per ripulire l’anima di ‘sto

ragazzino la mia bocca si deve sporcare con simili sudicerie!».

A quel tempo c’era qualcosa di musicale nell’aria, un ritmo che

faceva quasi danzare i robusti fianchi delle ragazze che

distrattamente si voltavano verso le vetrine dei negozi sistemandosi

i capelli, un ritmo che muoveva le poche automobili scintillanti che

guizzavano per le strade.

Noi non avevamo ancora l’automobile ma spesso mio padre, la sera,

seduto sul divanetto del piccolo soggiorno, 

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ci portava – me e mio fratellino Giacomo – con sé in viaggi fantastici

a bordo di una superba Giulietta Alfa Romeo che si

materializzava così per incanto, ma che qualche minuto dopo

poteva diventare anche una Spider Lancia

dal colore rosso fiammante. «Che  macchina volete, oggi, ragazzi?».

Accendeva il motore con un ruggito gutturale e metallico e

partivamo: sfrecciavamo lungo strade che si perdevano nel deserto

del Texas sollevando nuvole di polvere, come nei film americani che

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ogni tanto andavamo a vedere al cinema Olimpia; oppure

immaginavamo delle puntate al centro, attraversando i viali alberati

della città tra palazzine liberty e teatri e ville e balconi da cui si

affacciavano delle belle ragazze che noi puntualmente salutavamo

schiacciando un occhio, mentre mio padre, cappello in testa sulle

ventitré alla Frank Sinatra, stonando cantava qualche motivo jazz

tipo “blu mun” o stormi uèder”, dicendoci in tono solenne che

quelle le aveva cantate anche la grande “Billi Olidei”. «Bella.

Bellissima, porca miseria! E che voce!».

Quella sera, alla radio, avevano dato la notizia della sua morte. A

mio padre luccicavano gli occhi e non capivo se era per il vento che

immaginavo superare il parabrezza e scompigliarci i capelli, o perché

sapeva che mai avrebbe avuto una simile automobile, lui, con quel

suo stipendio da impiegato; ma è più probabile che pensasse alla

sua triste “venere nera”, come la chiamava lui. La quale avrebbe

continuato a cantare malinconicamente meravigliosa, ma non più in

questo mondo.

Quella mattina io e Peppe avevamo preso il bus per raggiungere la

spiaggia allo Stabilimento balneare di Mondello. Salivamo sempre

alla fermata del porto, che raggiungevamo a piedi attraverso strade

incorniciate dai tetri scheletri di edifici bombardati durante la guerra

e dai cumuli di macerie che ancora sembravano fumare. Tutto quello

richiamava alla memoria, con silenziose parole di pietra, l’orrore che

ci raccontavano i nostri genitori ma che a noi sembrava

infinitamente lontano: noi, invece dell’orrore della guerra, avevamo

davanti tutta la nostra giovinezza e un mondo da ricostruire come se

si trattasse di pezzi di legno colorato di un gioco per bambini.

Quel piccolo viaggio, per noi che non eravamo mai stati fuori città e

che le vacanze estive le trascorrevamo andando ogni mattina allo

stabilimento balneare a poca distanza da casa, era sempre come una

spedizione in terre inesplorate. E poi ogni volta accadeva qualcosa

che, per quanto potesse sembrare banale, ai nostri occhi era ora

divertente, ora preoccupante, o addirittura meravigliosa. Soprattutto

mi piaceva guardare i volti di quelle persone che si facevano

trasportare sovrappensiero o rassegnate, sorridenti o incupite,

uomini e donne e bambini che per una mezz’ora al giorno della loro

vita condividevano un pezzo di strada. Riconoscevamo al volo il

borseggiatore alla ricerca di tasche gonfie, o il maniaco che si

adagiava sbadatamente a signore più o meno distratte e che ad ogni

scossone o frenata si scusava rispettosamente. C’era anche un

giovane tarchiato e lurido che, frangetta sugli occhi e folta barba

corvina, viaggiava sempre seduto sulla spalliera del sedile. Aveva lo

sguardo pacato di chi è assente dal mondo ma ogni tanto torna per

porgere un sorriso distratto. I suoi occhi erano come assonnati,

mezzi chiusi, e le labbra disegnavano un sorriso accennato e

bonario. La camicia bianca aperta fino allo sterno mostrava il petto

abbronzato e villoso, ma quello che colpiva ancora di più era il fatto

che i pantaloni, che lasciavano nudi i robusti polpacci ricoperti da

screpolature e piaghe, erano tenuti da una cintura così stretta al giro

vita che il busto ne risultava quasi tagliato in due. Quel ragazzo

teneva sempre in mano dei fogli di quaderno su cui si stagliava una

scrittura fatta di segni inventati, quasi un’onda che si increspava e

poi tornava placida qualche rigo sotto, per poi riprendere ancora più

burrascosa. Faceva lunghi discorsi incomprensibili, in una lingua di

cui era l’unico interprete; poi ti sorrideva, e ringraziava.  Lo

chiamavamo “u marinaio pazzo”.

La linea nostra era quella che prendeva dal litorale, per un primo

tratto avanzando lentamente tra il riverbero accecante delle onde

nel porto, poi inoltrandosi tra palazzi antichi e fieri di essere ancora

in piedi; infine si addentrava nel parco in un’esplosione di verde e di

frescura.

Quando arrivammo al capolinea, il sole era già alto, il chiosco delle

bibite era circondato da ragazzini in mutande o in costumi troppo

larghi, che si rincorrevano lanciandosi arancine di sabbia o che

giocavano a palla. Con loro c’era anche Michela, ai miei occhi la

ragazzina più dolce e incantevole di tutta la spiaggia: era sempre lì a

giocare insieme ad altre bambine con bambole e servizi da cucina in

miniatura. Minuta, i capelli che le sfioravano le spalle, tenuti di lato

grazie a una forcina, aveva occhi neri e due grandi incisivi che le

illuminavano il volto. Avevo sognato infinite volte di avvicinarmi a lei

e dirle semplicemente “ti amo”, ma la mia timidezza mi si era

sempre conficcata nel fianco come una spina, paralizzandomi. E dire

che con Peppe facevo pure lo sbruffone,  allargandomi sulle mie

esperienze con le ragazzine.

Nel pomeriggio, al bar, lei era seduta in un angolo ed io, vedendola e

desiderando immensamente di parlarle, ero già rassegnato a sentire

impazzire il mio cuore, a provare quella specie di tremore

incontrollabile e ad arrendermi impotente al torpore che dalle gambe

saliva sempre più su. Invece quando ci trovammo vicini, proprio in

quel momento sentii un suono indefinito ma a me familiare che

giungeva da lontano e lentamente si faceva sempre più intenso e

chiaro, “I’m a fool”,  una tenue e struggente melodia si fece largo

“to want you” fino alle mie orecchie, “I’m a fool to want you, to

want a love that can’t be true”. L’ultimo saluto, la radio o forse un

juke box, alla Lady Day:  la voce di Billie Holiday, quasi avvolta in se

stessa, mi fece pensare ad un animale impaurito e tremante, ne

vedevo gli occhi lucidi ed uno sguardo che dal basso implorava una

dose di tenerezza, una dose di amore. I colpi del mio cuore erano

adesso il ritmo di quella canzone e il tremore si scioglieva in un

tiepido formicolio. Non so come, in quel momento trovai il coraggio

di sussurrarle “sei bellissima”. Rimanemmo a parlare e a giocare e a

ridere per un tempo che non so dire, con Peppe che ogni tanto per

 scherzo veniva a dirmi che delle sue amiche bellissime volevano

parlarmi, e cercava di trascinarmi via.

Il tramonto alle nostre spalle cominciava ad indorare la sabbia e il

legno delle cabine mentre io e lei, mano nella mano, camminavamo

scalzi sulla sabbia. Peppe stava più indietro, e sorrideva divertito. Sì,

me lo ricordo ancora: era il 17 luglio del ’59.