il segnalibro, o il sognalibro

Monsieur Flaubert, vi siete illuso

di poter compilare un elenco

esaustivo dell’idiozia umana!

Il segnalibro

Fuori, dal profondo

Come uno schiaffo inaspettato, il vento scagliò in aria le sedie e gli

ombrelloni che poco prima si trovavano disposti in file ordinate sul

prato, sputando raffiche di gocce dalle creste delle onde prima

che queste ultime, come arieti, si schiantassero sugli scogli con

fragore. Qualche bambino si mise a piagnucolare, subito

rassicurato dalla mamma, alcuni raccolsero in fretta e furia vestiti e

oggetti, altri si affannarono a chiudere gli ombrelloni rimasti in piedi.

Solo un uomo era rimasto seduto, quasi immobile. A parte i capelli,

che erano scompigliati come il mare, sembrava non essere

turbato da quella situazione, quasi non si fosse accorto di nulla. Aveva

continuato a leggere un libro dalla copertina azzurra fino a quando il

segnalibro era volato verso il mare.

Quel capriccio estivo che aveva bruscamente fatto virare, nel giro di

poco più di mezz’ora, un assolato mattino di metà luglio in un

burrascoso  paesaggio autunnale, si adattava bene al libro che

aveva tra le mani: anche lì una svolta, gli eventi che prendono

direzioni impensabili fino ad un attimo prima, la vita che ti spinge alla

deriva come una tempesta. Vedi la vita come una folla che ti guarda

dalla riva mentre tu ti allontani, attonito, in balìa delle onde. E in quel

momento, all’improvviso, ti rendi conto che non arriva nemmeno una

barca a soccorrerti.

Il libro, per qualche oscuro motivo, era rimasto tra gli scaffali del

soggiorno per anni senza che nessuno si fosse mai degnato di leggerlo.

In realtà, ad essere oscura era la ragione per cui Stefano quel giorno

avesse alla fine deciso di scegliere proprio quello, e non altri libri

anch’essi rimasti lì, anno dopo anno, a ricoprirsi di polvere.

Era forse stata quella parola del titolo, ”azzurra”, e il colore stesso

della copertina ad attirarlo? Quel libro, “La camera azzurra”, aveva

improvvisamente agguantato in lui e con forza qualcosa di indistinto,

che faticava ad affiorare, quasi fosse compresso da una massa

nebbiosa che lasciava trasparire solo poche ombre. Perché quelle

parole avevano esercitato un simile fascino proprio allora? Quale

meccanismo aveva determinato all’improvviso quella scelta quasi

inevitabile, urgente?

Quel giorno si era svegliato con l’idea fissa di alzarsi e andare come

prima cosa in soggiorno, davanti alla sua libreria bianca, alta, piena di

libri ordinati per categorie – mentre era ancora a letto si immaginava a

sfiorare con l’indice il dorso di quel libro di cui aveva rimandato per

troppo tempo la lettura. Già. Perché aveva rimandato tanto? Eppure

amava Simenon.

Ora quella frustata inferta dal vento e quelle onde che lentamente si

gonfiavano tra sfumature traslucide di azzurro, blu e smeraldo, che si

infrangevano sulle rocce con rigurgiti di schiuma, gli

ricordavano i paesaggi letterari di Simenon, paesaggi immaginati,

lontani e impalpabili ma indelebili, quasi fossero fotografie attaccate

alle pareti della mente con piccoli pezzi di adesivo. Vento, sole

tagliente, nuvole. Onde, sassi. Azzurro. Grigio. Come bolle di sapone i

nomi dei luoghi – Normandia, Sables d’Olonne, Le Roche Noir,

Fecamp, Bretagna – rimanevano sospesi, librandosi a mezz’aria.

Il vento. Poco prima il sole dorava la pelle dei bagnanti distesi sui

lettini o sulle tavole da surf ancorate a pochi metri dalla riva. Poi,

improvvisamente, un sovvertimento, tutto sembrava essere cambiato,

il mare, il cielo, la stagione; ma soprattutto il vento, che adesso

aumentava sempre di più la potenza, soffiava rabbioso, quasi avesse

deciso di spazzare da quel luogo un’umanità divenutagli

insopportabile. Le pagine del libro erano state quasi strappate da

quella furia che aveva anche fatto rovesciare, qualche secondo dopo,

una piccola barca a vela tirata a secco poco distante. Il segnalibro era

ormai perso, mentre le nuvole sparse nel cielo sembravano ora

accorrere ostili come per partecipare ad una cospirazione contro il

sole e contro l’azzurro.

“Tifone” – mormorò Stefano a fior di labbra, e l’oceano in tempesta di

Conrad lo sommerse per un istante dandogli una sensazione

sgradevole, come quella da cui era assalito durante il sogno che

ultimamente ritornava e in cui un’onda gigantesca si avvicinava

inesorabilmente alla costa sommergendo poi ogni cosa.

“Tifone”. Il libro letto due settimane prima. Salsedine e acqua sulle

labbra. E onde fuori e dentro. Onde che si agitano dentro. Nel sogno

tenevo la mano a qualcuno. Non so chi. Non ne ho visto il volto. Non

me lo sono confidato, nemmeno nella libertà del sogno. Chi mi teneva

la mano mentre la furia distruttrice del mare ci investiva? Se si alzasse

ora, un’onda gigante, chi avrei accanto a tenermi la mano? Il

segnalibro è volato. Lontano, oltre la siepe, oltre l’oleandro rosa,

sembra una farfalla che batte le ali in maniera scomposta, disperata,

prima di cadere. Le parole del libro continuavano a risuonarmi nella

testa vorticosamente, non riuscivo a smettere di leggere.

Ho visto ribaltarsi il tridente: l’albero per poco non colpiva il bagnino.

La gente accanto a me ha commentato con le solite frasi, qualcosa tipo

“per miracolo non l’ha preso” e “ma le norme di sicurezza? Niente,

eh?”. Ho chiuso il libro e mi sono alzato per andarmi a riparare nella

zona ristoro, ma più che altro per evitare di dover ascoltare quelle

banalità.

La camera azzurra dell’Hotel des Voyageurs, insieme al libro, adesso

era chiusa, – la porta e le finestre sbattute, sigillate – e Tony,

giovanotto di origine italiana e figlio del vecchio Angelo Falcone che

era emigrato in Francia per cercar fortuna, Tony – sposato felicemente

con la graziosa Gisele – era rimasto immobile, fissato nel fotogramma

della pagina, nudo in piedi davanti allo specchio a radersi nell’attimo

in cui sbirciava sorridendo il riflesso di Andrée, anche lei nuda, distesa

sul letto disfatto e con le cosce spalancate.

Libro in zaino, tempesta in corso, la camera d’hotel chiusa, sospesa,

con le vite di donne e uomini dentro, in attesa che le pagine fossero

aperte di nuovo, a ritrovare quel punto preciso su una linea lì dove

avrebbe dovuto stare il segnalibro che è volato via. Come descrivere

un piacere interrotto che alimenta ancor più il desiderio? Come

definire la brama di prolungare il godimento che si prova nel vivere le

vite di altri attraverso le pagine scritte dei libri? Stefano si chiedeva

questo nel momento in cui chiudeva il libro e correva a ripararsi.

Quale foce sarebbe stata in grado di riversare all’esterno il fiume che

scorreva nelle viscere trascinando come detriti frasi e parole e

immagini e poesia dalle pagine di un libro? E come descrivere il

sapore delle parole, e ciò che vive il corpo quando leggi cose che ti

strizzano dentro, che affondano la mano in profondità, fra cuore e

stomaco? Quanti libri avrebbero potuto saziare quella fame? Mille?

Diecimila? Tutti quelli di un’intera biblioteca magari affrontati in

ordine alfabetico così come avevano creduto di dover fare Bouvard e

Pecouchet?

C’è una camera azzurra nel profondo della mia mente. È rivestita da

una carta da parati dalla superficie metallizzata, imperfetta nei suoi

riflessi sfocati, quasi spettrali, ombre senza volto. Roba anni settanta.

Mi rivedo lì, al centro della stanza, sei o sette anni, a correre in circolo

su un tappeto rotondo dominato da tinte viola. Su una delle pareti

azzurre, come affiorando da un oceano verticale, due figure dritte e

rigide. Poi una delle due agita le braccia, quasi un attacco fulmineo.

Nel silenzio che è proprio di ogni abisso, monta un’onda sempre più

alta, arriva dal profondo della parete, sommerge tutto.

Occhi

“Ho un buco nella gola. E altri, non li conto più, nelle braccia. Lividi,

cerotti. Cerco di mandare giù una pizzetta, è soffice, davvero, ma mi

uccide. Questa tosse, poi, insistente, caìna, subdola, che mi

consuma lentamente. Per quanto ancora potrò vederlo che gioca, sorride, piange?

Per quanto ancora potrò guardarlo negli occhi? Lui evita. Lo so.

Perché in fondo lo ha capito, lo vede nei miei, di occhi, nelle mie

rughe, nel mio corpo sempre più magro, pallido. Dieci anni. Lo

vedono anche loro, mi guardano come se fossi un’apparizione, un

sudario. Le mamme dei bambini mi salutano, sorridono, parlano.

“Auguri a Gianni” – è il compleanno di mio figlio – “cantate tutti!

tanti auguri a te…”, “la foto! mettetevi lì dietro la torta, tutti insieme,

anche tu, Giuseppe, accanto a tuo figlio!”, mi sorridono ma lo vedono

cos’ho dentro, dentro agli occhi, dentro al cuore, io lo vedo riflesso nei

loro sguardi il vuoto nero che mi trascina giù nel barato. Mio figlio,

dieci anni! Guarda, il mare a quest’ora è una meraviglia. Poco dopo il

tramonto l’acqua prende i riflessi bluastri del petrolio, sembra più

densa, è l’ora in cui si fanno il bagno cinesi, cingalesi, pachistani, forse

perché hanno smontato ora da lavoro e vanno con le famiglie, forse

perché a quell’ora la spiaggia si svuota e in più l’ingresso è libero,

forse perché hanno pudore a mostrarsi mentre si immergono con i loro

improbabili costumi, con le magliette e le canottiere, con i veli. Non lo

so. La pizzetta, ne ho mangiata metà. Non ho fame. E la foto, la foto

l’ho fatta, ma mi hanno dovuto reggere da dietro.”

Giuseppe ha un cancro alla gola, viaggi tra Milano e Palermo, chemio,

radio, interventi. L’ultima volta che lo avevo visto ero rimasto

impressionato dal colorito innaturale, gli avevano messo sul viso e sul

collo qualcosa tipo cerone per coprirne il pallore, col risultato che

seduto sulla panca, nel suo abito scuro azzimato, tra l’incenso e i fiori,

ho avuto la sensazione che la morte aleggiasse dentro la chiesa e che,

invece di una prima comunione, si trattasse di un funerale. Oggi suo

figlio fa dieci anni, festeggiano qui sulla spiaggia. Ha scoperto di

essere malato un anno e mezzo fa. Porco mondo. Porco mondo e

vaffanculo. I suoi occhi cerchiati, scavati, il tubo che gli penetra nella

gola, sul braccio il cerotto e i lividi. Scrive poesie, almeno ne ha scritta

una. L’ho trovata tra le pagine del libro. Dimenticata. Un foglietto di

block notes a quadretti, ingiallito. Quanti anni fa è stato, sette, otto,

che me l’ha regalato? Una sera lo ha tirato fuori da uno zainetto,

l’aveva finito la sera prima. La camera azzurra. Te lo regalo, fratello, si

legge d’un fiato. So che ti piace Simenon, pensa che l’ho anche

comprato per sbaglio!

L’ho sognata, l’onda gigante, da lontano scorgevo l’enorme massa

cristallina che avanzava, e la mia angoscia cresceva. Poi una furia di

acqua ha sommerso tutto. L’angoscia di colpo si è dissolta, potevo

respirare, anche in quell’abisso, nuotare, e i colori erano chiari, puliti.

Dopo due giorni Stefano aveva finito di leggere “La camera azzurra” e

subito dopo aveva iniziato con “Betty”, sempre di Simenon, e in altri

due giorni aveva finito pure quello. Storie di disperazione, di discesa

verso l’abisso, verso il limite, e oltre. Sorpreso dalla velocità con cui

era riuscito a leggere i due libri, aveva deciso di rileggere Questo

bacio vada al mondo intero di McCann. Il solo nominare a fior di

labbra i loro nomi gli provocava un moto interiore vasto e profondo,

fatto di immagini e suoni e odori, dalla sabbia umida della spiaggia di

Dublino ai mattoni e all’asfalto infuocato di Brooklyn del 1974.

Corrigan, il santo dei sobborghi di New York, che cercava Dio tra

prostitute e spacciatori e si era ritrovato al bivio tra l’amore divino e

quello per Adelita, e il fratello di Corrigan – Cioran – e poi Claire e

Solomon, col loro Joshua oramai fantasma, e poi Gloria e Claire e

Marcia e Janet e Jaqueline lì nel lussuoso appartamento di una di loro,

così diverse ma unite dallo stesso dolore, lì a mettere su un piatto le

loro disperazioni per i figli morti in Vietnam con l’illusione di farli

rivivere ancora solo per qualche momento, e ancora Gloria la nera, la

nipote di schiavi deportati dal Ghana fin nel Missouri, che con le sue

scarpe troppo strette se ne torna a casa a piedi e con i piedi sanguinanti

attraversa Harlem perché i taxi spengono l’insegna luminosa alla vista

di una donna di colore, e poi Tillie e Jazzlyn, mamma e figlia a battere

sullo stesso marciapiede, e tutte quelle voci che come fiumi

serpeggiano e si gonfiano e si dilatano e infine si intrecciano e

dilagano sotto un cielo di frammenti di vetro in cui – appena visibile

da quei centodieci metri di altezza – un funambolo, il funambolo,

come un angelo senza ali armato solo di una lunga asta di metallo si

libra come in un’apparizione miracolosa.

Giuseppe – Peppe – è morto ieri.

Ho tra le mani La camera azzurra, mi resta questo di lui, e un mare di

ricordi.