L’ultima partenza

Solitamente nei film francesi, le locomotive apparivano su dei fotogrammi in bianco e nero, fumavano tra le righe verticali della pellicola, tra i grani che punteggiavano il telo in proiezione. Io pensavo fossero gocce d’una pioggia che stentava a irrompere improvvisamente.

Ora invece mi trovo protagonista di un’immagine nitida e per quanto la lacrimazione passa appannare la visione, è indiscutibile quello che sento in questo istante.
La cuccetta trentacinque al quarto vagone del diretto Parigi – Milano, si intona con il mio stato d’animo. Trovo le lenzuola di carta in una busta ben sigillata con su scritte le istruzioni in differenti lingue. Rileggo le parole in francese per ricordarmi delle voci e dei suoni che hanno riecheggiato in questi giorni. Attendo l’inevitabile partenza.

– Dove sei ora? Non più qui. –

Ti ricerco con i pensieri e provo ad immaginare dove il tempo ti abbia già rapita negli ultimi dieci minuti trascorsi… minuti senza me.

Forse, sarai nell’interminabile corridoio che porta verso l’uscita della stazione. Gli sguardi della gente indugeranno ancora più sfacciatamente di quando già prima ti erano addosso? Ne rimarrai infastidita tanto d’affrettare i tuoi passi, camminando a testa bassa tra il desiderio di essere fuori e lo struggimento di tornare indietro.

Tornare indietro per vedermi ancora.

Vedere ancora una volta il mio viso riflesso oltre il vetro di questo vagone scuro, una mano sospesa nella rinuncia, deformata dalla pressione, aderente al finestrino che mi disunisce dal tuo palmo.

– Vai pure avanti, se ti fermi, non resisti e torni indietro, torni da me, torni tra le mie braccia, torni ad essere felice. –

Continui a camminare confusa, il corridoio ti sembrava molto più breve all’andata, perché ora non finisce mai? Perché non puoi tornare indietro? Perché non puoi partire con me?

Troppi pensieri.

Non hai più la forza, né la volontà di trattenere le lacrime. Ti cola un rigo di rimmel sul viso, lo tergi con una mano tremante e innervosita sbavando il trucco in modo rovinoso, ma non ha più importanza per te essere ben truccata ora che il mio treno sta partendo inesorabilmente.

Corri con i tuoi tacchi alti, sugli ultimi metri che ti scaricano di dòsso gli sguardi degli extracomunitari, le prostitute, i ragazzi con gli occhi persi nel vuoto, gente qualsiasi, per carità anche gente per bene… ma corri su un disagio, su una sorta di malessere che vorresti scomporre ed analizzare passo dopo passo, ma non ci riesci e sei costretta a esserne soggetto indiscutibile.

– Non farti sopraffare Chantal. –

Ci sarà ancora sulla grande porta laterale della stazione quel ragazzo che discuteva ad alta voce? Lui seduto sul gradino e la ragazza un po’ goffa vestita di scuro, si allontanava pestata da clacson, una bottiglia di birra scagliata da lui a gran forza sul suolo, si disperdeva in frantumi disegnando un rapporto impossibile da riparare, neppure raccogliendo tutte le schegge disperse volutamente scalciate dall’intolleranza. Litigavano, volavano vocaboli grossi che tu mi traducevi in italiano, lei era rabbiosa e andava via farfugliando. Si allontanava nel traffico mentre le sue parole venivano divorate dai rumori.

Eri pensierosa e impallidita da quel litigio, anche se non conoscevi i protagonisti e potevi solamente intuire le motivazioni. Non sapevi nulla di loro, eppure, è come se si fosse aggiunta un’ulteriore ferita alle tante lacerazioni che si erano riaperte in quei pochi minuti che improntavano il nostro “addio”.

I pensieri assorti in te, sfumano nell’attimo in cui la porta cigolante del mio scompartimento si apre. Entra un ragazzo francese sulla trentina, lo saluto con un “bonsoire” e ripenso invece al “buongiorno” dello scompartimento d’andata. C’era una signora sulla cinquantina che leggeva un libro di Émile Zola sostenendo con una mano grossi occhiali spessi, con l’altra avvicinava il più possibile le pagine alla sua vista quasi che riuscisse ad intravedere altre locuzioni tra spazi bianchi; di tanto in tanto alzava lo sguardo per guardare fuori dal finestrino e perdersi nelle visioni di ciò che leggeva.

Diretto Milano – Parigi ed ora il diretto contrario è lentamente partito per portami via da te. La filodiffusione interna evidenzia questo addio e tu forse avvertirai questo stesso istante nel momento in cui girerai la chiave della tua automobile controvoglia, inserendo la retro con una leggera grattata di nervosismo e partendo con un una botta di frizione troppo caricata.

– Non serve a nulla questo nervosismo Chantal, il mio treno è gia partito incondizionatamente –

Apro l’involucro delle lenzuola, preparo un letto su cui ho l’indiscutibile certezza che non riuscirò a chiudere occhio. Guardo il mio compagno di viaggio, è disteso, assorto nella stanchezza della sua giornata, non parla italiano e non comunica con me (forse è un vantaggio).

Mi volto ancora con lo sguardo oltre il finestrino della carrozza, nella giostra di luci offuscate negli occhi, ancora lucidi nel salutare Parigi. Rivivo i momenti più preziosi di questi giorni nella mente, come fotografie scattate istantaneamente.

Le strade di Parigi, una vetrina di colori, l’odore di cera, la fisarmonica che suonava a Montmartre, i suoni della città attenuati in una via secondaria dove echeggiavano le voci dei turisti. Le mie mani che sfioravano le tue gambe, il profumo e il sapore del tuo temperamento femminile. Mentre ci baciavamo, un motorino passava veloce in Rue Lepic con sopra due ragazzi che ci gridavano guardandoci: – Bien…donc…c’est l’amour…! – Il tuo bacio soffiava un sorriso, sentivo le parole non sussurrate, qui vocaboli italiani stretti che evitavi di pronunciare sapendo che non avrebbero mai dato l’esatto significato a quello che provavi per me.

Prima, seconda, terza, quarta… la tua Citroën non ha la quinta marcia. Nei primi metri che tenti di digerire faticosamente, con un leggero pallore in viso, con quelle mani tremanti e serrate al volante, ripenserai inevitabilmente all’eutanasia di questo amore.

– Inaspettato… lo so Chantal. Ma non lo avevamo messo in conto fin dall’inizio? –

E’ inutile rimandare ancora, è ingenuo sperare tuttora. Io o tu, chi prima, chi poi, dovevamo comunque, prendere la vita con maggiore risolutezza. Sono stato io a farlo per primo, nella pienezza dei miei trent’anni e tu hai saggiamente ammesso, nella rassegnazione dei tuoi quarant’anni.
Le limitazioni soggettive, averti clandestinamente e desiderarti impagabilmente. I progetti sempre troppo futuri e utopistici, le incessanti attese, la tortura di questa sofferenza ogni volta che un treno o un aereo mi porta lontano da te. Le responsabilità verso i tuoi figli, la lucida ragionevolezza del nostro futuro impossibile da vivere. I tuoi irrimediabili anni che sentivi sempre più irreparabili se ti fossi arresa adesso, se avessi gettato via le trame che pazientemente e tenacemente avevi cercato di rattoppare ogni giorno. Non volevi gridare proprio ora: – …ho sbagliato, scusate, ora ho voglia di ricominciare… –

Per una volta ci siamo guardati con la realtà negli occhi, una sensazione di forza e indifferenza arrestava i nostri singhiozzi. Un tagliente addio, frenato in un succinto bisbiglio. Ma è inevitabile celare la piccola amputazione al cuore che logora i nostri anni d’amore.

Chiudo gli occhi strizzando l’ultima lacrima.

Il mio treno mi porta verso dei giorni dove il cinismo sarà l’unico mio rimedio. La tua automobile in questo momento starà inghiottendo, senza avidità alcuna, l’interminabile nastro d’asfalto, reso ancora più nero dalla notte senza luna.

Il rumore del motore diesel, i tuoi singhiozzi di pianto scanditi in gola, un leggero pallore sul tuo viso mentre bisbigli mestamente, per l’ultima volta ancora:

– Adieu –

 

parigi

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