Ciao, Napoli

Napoli: il viceregno spagnuolo


Con la dominazione degli spagnoli, Napoli tocca il punto più basso della sua parabola politica e morale, anche se - come osserva Benedetto Croce, col solito acume di geniale critico della storia — non tutti i mali di Napoli e dei napoletani sono derivati da essi. Ma un fatto è certo: che tra il 500 e il 600 si operò nei napoletani una profonda trasformazione sia esteriore, fisica, che interiore, morale. Prima essi erano ben diversi, da co­me divennero durante il governo vice-regnale spagnuolo e da come sono oggi; e, a quel tempo, la città cominciò pure a foggiarsi, attraverso demolizioni, tra­sformazioni, abbellimenti, ampliamenti e anche deformazioni, quell'aspetto che non si è più sostanzialmente alterato nonostante le costruzioni dell'età bor­bonica e di quella moderna e contempo­ranea, che ne ha enormemente dilatato le dimensioni e le proporzioni, in super­ficie e in popolazione. Nel 600, la so­cietà napoletana — come educazione ci­vile, costumi, formazione morale, for­ma mentale - non è più quella del glorioso Ducato o del Regno indipen­dente. Un guizzo dell'antica fierezza lo ve­diamo ancora sprizzare nell'irriducibile avversione del popolo napoletano con­tro l'inquisizione, ma già la sommossa di Masaniello, col suo caratteristico svolgimento farsesco, mossa soltanto da motivi economici, ci dimostra come nes­sun bisogno sentito di partecipazione at­tiva alla vita della città e dello Stato, nessun ideale etico-politico, nessuna aspirazione all'indipendenza e nemmeno alla elevazione sociale entravano più nei propositi e nei finì della sua azione. A stretto contatto con le soldatesche spagnole, la plebe napoletana, agglome­ratasi nelle zone alte di via Toledo, det­te ancora oggi, i Quartieri, appunto per­ché vi si accasermarono le truppe del dominatore, contrasse tutti i difetti e i vizi caratteristici degli spagnoli: il tur­piloquio, l'arte della menzogna e del­l'inganno, la millanteria, il gusto di sembrare senza essere, l'ipocrisia e la superstizione religiosa, l'altezzosità nel­la miseria, la vanagloria stupida, l'ag­gressione proditoria a scopo di rapina o di vendetta. Non è azzardato riscontrare in quel­l'ambiente guasto le origini della camor­ra tristemente famosa. Coi vizi, la de­generazione fisica, oltre quella morale. Spesso, per le strade, i passanti s'im­battevano in cadaveri pugnalati alle spalle, le più volte di soldati spagnuoli; ed era estremamente pericoloso az­zardarsi, di notte, nel dedalo di vicoli di certi rioni malfamati, regno della ma­lavita, la quale giunse a tal punto di temerità nei delitti, che don Pedro di Toledo e il marchese del Carpio ci si misero di punta a reprimerla, ma senza risultati veramente positivi. Né migliore è il quadro che la sto­ria ci presenta della nobiltà napoletana sotto la Spagna. Spento, in essa, ogni ardore di indipendenza e ogni ambizio­ne di potere si era ridotta a vivere pro­na davanti allo straniero, e, quel che è peggio, si era attaccata fedelmente alla monarchia spagnuola, non certo per de­vozione ma per egoistico interesse. Ari­stocrazia feudale ed eletti dei Seggi tut­ti eseguivano con zelo indecoroso la vo­lontà del dominatore, cercando di trar-ne il maggior profitto, in privilegi e in cariche remunerative, spingendo il lo­ro aperto favoreggiamento per gli spagnuoli sino a persuadere il popolo a starsene tranquillo, se mai avesse avuto qualche tentazione di sommossa. Si finì, così, in una vera e propria gara fra i nobili a chi si rendesse più utile allo straniero; e quelli, fra essi, che veniva­no meglio compensati, destavano la ge­losia degli altri, che, spesso, degenera­va in discordia. E questo, come sem­pre - - secondo la norma romana del « divide et impera » - giovava agli spagnuoli, che avevano le mani nel go­verno viceregnale, molti dei quali, alti ufficiali dell'esercito, funzionari dell'am­ministrazione statale, finanche alcuni vi­ceré, giunti a Napoli poveri in canna, o ricchi decaduti e indebitati fino al collo, contrassero vantaggiosi matrimoni con donne dell'aristocrazia napoletana, sic­ché si stabilì una vera e propria allean­za fra questa e il Vicereame spagnuolo. Ciò acuì l'odio del popolo contro i no­bili; e, a pescare nel torbido, ci si mise la classe media, nella lusinga di attrarre a sé la plebe, staccandola definitivamen­te dall'aristocrazia. Ma se questa era odiata, perché rappresentava l'estremo della ricchezza, la classe privilegiata, che, pur essendo minoranze, comanda­va, il popolo, espressione di estrema miseria, diffidava anche del ceto medio, che, pur di origine plebea, rappresen­tava il ceto degli avvocati e degli appal­tatori delle gabelle, che esso aborriva, per ovvii motivi, in modo tutto parti­colare. Il dominio del popolo sfuggiva, pertanto, sia ai nobili che alla classe media. E ne profittava l'astuta politica spagnuola, che si reggeva barcamenan­dosi fra i tre ordini cittadini: ora blan­diva la nobiltà contro i due ceti infe­riori; ora favoriva lo scatenarsi degli istinti e delle passioni popolari; ora di­mostrava di voler riconoscere il valore del ceto medio, donde traeva quegli zelantissimi appaltatori ed agenti delle ga­belle e delle imposte, che, per un regi­me di spoliazioni fiscali come quello spagnuolo, il più esoso fra tutti, voleva dire sfruttare fino all'osso le risorse eco-nomiche dei popoli soggetti, a vantag­gio, onore e gloria dell'erario di Sua Maestà il re cattolico. Facendo il punto della ingordigia spagnuola, Traiano Boccalini ha scritto: « Ogni vil soldato spagnuolo, che arriva a Napoli ignudo, se ne parte vestito di seta e d'oro ». Figuriamoci, da questo, come se ne par­tivano i capitani! La povertà di vita spirituale, la carenza di un ideale politico e di una co­scienza nazionale, che caratterizzano l'epoca spagnuola a Napoli, si riscontra, del resto, nella letteratura del tempo. La prima metà del '600 risente ancora dell'influsso rinascimentale, specie in materia religiosa, in cui c'è sentore di riforma, nella propaganda anticattolica di Juan de Valdès e sulla tenace oppo­sizione napoletana all'introduzione del­l'Inquisizione. Ma è anche nel campo della poesia e della cultura varia, dalla quale è as­sente ogni interesse politico nazionale, che troviamo la conferma dell'indiffe­renza verso ogni forma di attività ci­vile, in cui è caduto lo spirito dei na­poletani. Si segue, infatti, l'andazzo umanistico del Pontano, dal quale non sa staccarsi neppure il genio poetico di lacopo Sannazaro, come non se ne staccano né Pietro Summonte, né altri, e al quale rimangono attaccati anche i poeti (o rimatori che si vogliano stimare) — eccetto, forse, Angelo Di Co­stanze, storico e poeta, in cui si avverte un qualche anelito di patria — e, con lui, il Rota, Luigi Tansillo, Galeazze di Tarsia, Vittoria Colonna, Isabella di Morrà. Formalismo, senza pensiero. Ma il pensiero, senza cura della forma, trionfa con l'avvento di Bernardino Telesio, di Giordano Bruno, di Tommaso Campanella, i tre grandi filosofi meri­dionali, che, col loro genio, scuotono le fondamenta del vecchio mondo cultu­rale, precorrendo Giovan Battista Vico, l'astro maggiore del pensiero napoleta­no, che coi « Principii di una scienza nuova » fa cadere tutto il castello sillogistico di Aristotele e ci dà la chiave per interpretare, in linguaggio moder­no, la filologia e la storia delle civiltà universali. Allo stesso modo, un altro genio napoletano, Giambattista Della Porta, si scioglierà dalle formule magiche dell'astrologia per iniziare l'era del­la scienza.