La pioggia comune è tornata
Obliqua e incolore, pallida e anonima,
Flebile cade nella prima sera
Al primo accenno del vero autunno,
La lunga e tarda luce si era lentamente raccolta
Un fuligginoso bosco di nuvoloso cielo, smorzato e distante sempre più
Fino a che, come l’imbrunire, il senso stesso dell’individualità è svanito,
Una debolezza che niente ha arrestato, diminuito o negato o messo da parte
Né il tè né, dopo un’ora, il whisky,
Ghiaccio e poi un piacevole chiarore, un bruciore,
E le prime lingue di fuoco che saltano
Sin da una fredda notte di maggio, troppo tempo fa per non essere
Che un freddo e vivido ricordo.
Lo sguardo fisso, vuoto e senza pensiero
Oltre le nebbie dell’emozione della tristezza immotivata,
All’improvviso tutta la coscienza si è tramutata in spontanea contentezza;
Sapendo senza pensare come la pioggia che cade (fuori, dappertutto)
In una lenta sostenuta costante vibrazione dappertutto all’esterno
Picchiettando sulla finestra, rigando il tetto, scorrendo nel canale di scolo
E risvegliando il senso, ancora una volta, di tutto ciò che viveva fuori da noi,
Al di là dell’emozione, al di là delle gonfie ombre distorte e delle luci
Della città giocattolo e della fiera delle vanità della vigile coscienza!
Delmore Schwartz, The First Night of Fall and Falling Rain
Tutte le volte che viene a piovere, quel suono schiude alla figura di un desiderio sublimato dalla distanza. Il retrogusto del passato, particolarmente caro a chi opera un’esplorazione cognitiva del presente solo per dovere, vive di due momenti antitetici: rimozione e ricordo. Il primo è figlio di una distorsione, il secondo di una nostalgia che si stempera in una gnosi perduta.