L’inesauribile filone delle dittature fornisce sempre buoni spunti e (grazie ai festival internazionali) anche dall’altro emisfero giungono a noi ottime cose.
E meno male che nel 2017 te le puoi anche perdere al cinema (se vivi in una grande città dalle proiezioni variegate o nel cineforum di provincia), perché se un film ha visitato qualche rassegna, più o meno importante che sia, si può ragionevolmente essere certi che ci sarà sempre qualche distributore “virtuale” e te lo vedi quando vuoi…
D’accordo, va a finire che si perde la collettività della visione, quell’aria bella (una volta…) del fenomeno d’insieme, le squadre di appassionati che vanno al cinema e parlano nei bar (se non fosse per l’alcool oggi chiuderebbero pure i bar, giuro), quei critici che scrivono tutti insieme appassionatamente. Lasciamo queste abitudini preistoriche al calcio, noi parliamo di film quando li vediamo, così magari si dissotterrano cose buone che pochi hanno visto, girano più cose belle e meno cose di “dovere”, dai che forse è una cosa buona.
Il Clan, dunque. La dittatura è quella argentina, la storia (vera) è quella di un tipico manovale da polizia politica, quelle figure di cui si serve ogni servizio segreto, anche in regime non dittatoriale. Questa figura, da buon latino, onora e rende sacra la propria famiglia coinvolgendola, più o meno esplicitamente, nella sua attività di sequestratore di persone a scopo di lucro. L’attività è in proprio, il regime è solo un mezzo di copertura e accade che quando questo va ad esaurirsi anche l’attività in proprio del sequestratore ne risenta e avverta inevitabili difficoltà… In rete c’è tutto, qua ci interessa COME sono fatti i film. Ed è fatto bene, molto bene.
Un noto critico de sinistra si è lamentato dello stile “americano”, quasi da telefilm, mentre (dice lui) ogni Paese dovrebbe essere declinato con le sue specificità… e io lì a immaginare la vicenda narrata con lo stile di una tipica telenovela argentina, e che palle!
Invece la ricostruzione scenica, gli abiti, le auto, le acconciature, gli occhiali, il sudore, le facce, insomma tutto è assolutamente realistico e coinvolgente. In più c’è una bella fotografia dai colori caldi, un ritmo calibratissimo tra accelerazioni e rallentamenti, un modo equilibrato di rappresentare i conflitti interiori che non ha fatto mai calare la palpebra.
Non siamo in ambito “d’autore” come altre eccellenti cose che vengono da quelle parti, ma è fatto bene, benissimo. Ed è così che deve funzionare.