IL DIAVOLO DI MERGELLINA

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Napoli: Chiesa di Santa Maria del Parto

Molte erano le belle cortigiane nella Napoli cinquecentesca. Ma, tra tutte risaltava Vittoria d’Avalos; la più bella, la più contesa e la più ricercata in tutti i salotti grazie anche al suo fascino, strano miscuglio di grazia, femminilità e leggerezza. Biondoramata, un corpo perfetto ed una carnagione chiarissima. Era anche spiritosa e civetta Donna Vittoria e gli uomini impazzivano per lei. Ma lei, come accade sempre, si innammorò dell’unico che non poteva, proprio non poteva ricambiarla. Anch’egli biondo, bello come l’Arcangelo Michele, praticamente tutte le donne di corte erano innamorate di lui. Ma nel cuore di Diomede Carafa, giovane colto e raffinato, rampollo di una delle più nobili famiglie napoletane, c’era posto per un altro tipo di amore: l’amore divino. Diomede venne ordinato sacerdote, diventando ben presto vescovo, per la disperazione e la rassegnazione anche, di quasi tutte le fanciulle di corte. Quasi tutte… Vittoria, la più disperata di tutte era ben lungi dal rassegnarsi. Così andò a trovare il neo sacerdote e, in confessione, gli svelò il suo segreto d’amore…. Lei era innamorata perdutamente di lui. E lo disse in modo così appassionato e con tale trasporto, inoltre era talmente bella e attraente che in Diomede scoppiò un vero e proprio duello: come resistere ad una tentazione tale? Come sfuggire al Demonio, quando questo si presentava con le sembianze della più bella e seducente delle creature? Come far tacere la voce del sangue per ascoltare solo quella dell’anima, tra l’altro, già votata a Dio? Ingaggiò questo duello, tra il Bene e il Male, ma un male che era, per la verità, “grazziuso assai”. Donna Vittoria, per niente rassegnata tornava spesso alla carica con il bel sacerdote. Alla fine lui la spuntò. Riuscì a vincere la tentazione di quel demone e come ringraziamento a Dio per averlo mantenuto incorrotto, ordinò ad un suo amico pittore, Leonardo da Pistoia, un quadro che voleva essere un ex voto per l’enorme pericolo superato. Il quadro raffigura un San Michele, biondo, bellissimo –con le sembianze di Diomede – che trafigge con la spada un dragone dal corpo sinuoso, simile ad una sirena. Il volto, ovviamente quello di Donna Vittoria. Bellissimo. Questo dragone ha una corpo così morbido e flessuoso ed un volto così appassionato da impressionare l’osservatore molto più della visione della stessa tela. Chi guarda è molto più colpito dal fascino malizioso del demone che dalla scena rappresentata dal dipinto. La malia di Vittoria d’Avalos, e la sua demoniaca seduzione è stata immortalata in quel ritratto. Ancora oggi, i visitatori restano incantati dal fascino strano che emana da quel volto. Vittoria venne a conoscenza di quel ritratto quando lo stesso vescovo glielo fece vedere. Ne fu talmente sconvolta da scappare via all’istante. Da quel momento non si videro più. MERGELLINA. Di fonte al porticciolo turistico sorge una bella chiesetta, un poco elevata sul livello della strada. Si accede tramite una scaletta ed il suo sagrato è un gran bel terrazzo che domina tutto l’approdo e da dove si vedono partire a sera i pescatori. All’interno della chiesa è ancora oggi visibile uno strano ritratto. Raffigura la lotta del Bene contro le tentazioni del Male. L’angelo sterminatore, San Michele, ha un volto incantevole. E’ un bellissimo ragazzo biondo. Il Diavolo ha qualcosa di strano; non teme il suo uccisore, ma lo guarda con uno sguardo tale… quasi come se sapesse che in qualche modo lo domina, lo possiede. Ha un’espressione ammaliante, intrigante, infinitamente seducente. Colpisce la mente, la fantasia. La gente del luogo ha preso a proteggere quel ritratto. Ha dato a quella strana figura di sconfitto anche un nome. Potrebbe sembrare terribile, ma per loro è un nome rassicurante, domestico…. E’ il Diavolo di Mergellina.
Liberamente tratto da: C.B. Manacorda “PARTENOPE MAGICA miti e leggende della Napoli antica” Editrice L’isola dei ragazzi.

Sulla presenza dei primi Normanni nel Sud d’Italia.

Incerte sono le notizie sulla comparsa nel Mezzogiorno d’Italia dei Normanni.
Le fonti sono poco esaurienti.
Si parla di due bande di avventurieri, che avevano a capo Gilbert Buatere e Osmond Drengot, due fratelli che avevano abbandonato la Normandia per aver ucciso Guillaume Repostel, il quale aveva accusato uno di loro di aver disonorato la figlia. I due fratelli con le loro bande pare fossero stai assoldati da Melo di Bari, nobile di origine longobarda che nel 1009 si era posto alla testa di una ribellione delle popolazioni pugliesi contro il dominio bizantino, nel santuario della gente longobarda di S. Michele al Gargano.
Un altra tradizione racconta che fu il principe Guaimario di Salerno a chiedere l’intervento di un gruppo di Normanni per proteggere la sua città attaccata dai Saraceni.
Amato da Montecassino nella “Cronaca di Montecassino” così descrive l’episodio:
Approdarono a Salerno quaranta Normanni, in abito di pellegrino. Erano uomini di alta statura, di bell’aspetto, esperti nel combattere. Essi trovarono la città assediata dai Saraceni. L’animo loro si accese sentendosi chiamati da Dio. Chiesero delle armi al vecchio Guaimaro, che era allora principe di Salerno, e di sorpresa si precipitarono sui Saraceni, ne catturarono molti, misero in fuga gli altri, riportando con l’aiuto di Dio, una meravigliosa vittoria. Essi affermarono che avevano fatto tutto ciò per amore di Dio e della fede cristiana e rifiutarono i doni. Il principe, tenuto consiglio con i suoi, mandò degli ambasciatori in Normandia e spedì colà, col mezzo dei Normanni che rimpatriavano, cedri, mandorle, noci dorate, stoffe di porpora, bardature di cavallo con ornamenti d’oro purissimo, tutti doni atti ad invitare verso una terra che produceva tali ricchezze“.

La leggenda di Castel dell’Ovo

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Il discorso sull’esoterismo a Napoli si fa molto interessante nel Medioevo normanno e angioino, quando si sviluppò, e vi trovò enorme credito, la teoria di Virgilio il Mago. I rapporti del grande poeta latino con Neapolis sono moltissimi; la città che ancora ne onora la tomba nel parco di Mergellina che porta il suo nome, presenta due diverse direttrici “d’amore”: quella colta che riguarda la sua prestigiosa opera letteraria, e quella popolare che lo venera quale Mago- Salvatore della città stessa; il “Liberatore” da varie iatture come, ad esempio, invasione di insetti o serpenti, con l’ausilio di particolari “incantesimi”. La testimonianza più affascinante di questa “credenza” resta il nome di “Castel dell’Ovo” alla turrita struttura dell’isolotto di S. Salvatore, la greca Megaride, unita in seguito alla costa (artificialmente) dal Borgo Marinaro. In effetti l’origine del nome resta alquanto misteriosa se non si analizza bene il “nome” stesso. Per prima cosa gli studiosi di alchimia sanno che il termine uovo o meglio uovo filosofico è il nome “esoterico” dell’ Athanor, il piccolo forno chiuso, il matraccio di metallo o di un particolare vetro nel quale avveniva la lenta trasmutazione degli elementi primari – zolfo e mercurio – in metallo “prezioso”, L’oro alchemico. Operazione iniziatica che definiva, in effetti, una profonda mutazione dello spirito e dell’intelligenza dell’operatore. A Napoli, nel periodo medioevale, fiorisce una grande scuola ermetica che si occupa di alchimia. I processi di “liquefazione”, “soluzione” e “calcinazione” sono favoriti da una particolare terra vulcanica offerta dal Vesuvio mentre la distillazione dell’acqua marina era ritenuta l’unico surrogato alla rugiada raccolta nella notte – l’acqua degli alchimisti – che doveva possedere un grado altissimo di “purezza cosmica”. Megaride divenne presto, già nell’età classica, rifugio di eremiti che occuparono le piccole grotte naturali ed i ruderi delle costruzioni romane della grande domus luculliana che dalle pendici di Pizzofalcone giungeva all’isolotto di Megaride. I monaci Basiliani riutilizzarono poi le possenti colonne romane per ornare la sala del loro “cenobio”, come ancora si può notare visitando Castel dell’Ovo. E’ noto che molte ricerche alchemiche avvenivano celate ai più proprio nel segreto di alcuni monasteri medievali ed è confermata la presenza sull’isolotto di monaci alchimisti. In un antico documento, si legge di un antico amanuense che aveva speso tutta la sua esistenza “… nello studio e nella trascrizione di Virgilio…”. E le continue e appassionate ricerche operate da studiosi hanno testimoniato più volte la profonda “cultura virgiliana” della classe colta e religiosa napoletana tra il Medioevo angioino e il Rinascimento aragonese. Infatti si è già accennato a quell’amore particolare dei napoletani per il poeta mantovano. Virgilio, narrano molte cronache medioevali napoletane, entrò nel castello di Megaride e vi pose un uovo chiuso in una gabbietta che fece murare in una nicchia delle fondamenta, avvisando che alla rottura dell’uovo tutta la città sarebbe crollata. Altre versioni parlano di un uovo sigillato in una “caraffa” di cristallo sempre murata in un luogo segreto del castello con la stessa raccomandazione. Così nasce il nome di “Castel dell’Ovo” che l’isolotto ha sempre conservato, e lo si evince sia dagli scritti antichi che da una radicata tradizione orale. L’ipotesi che ne deriva è questa: Virgilio apprende il metodo di “distillazione” da un seguace dei misteri orfici ancora operante nella campagna napoletana e si procura un recipiente adatto per distillare ed operare nel segreto di “laboratori” ospitati in ville patrizie di nobili che, ottemperando al volere di Mecenate Ottaviano, renderanno al Mantovano del tutto sereno il soggiorno napoletano. Virgilio, che ha studiato proprio a Napoli alla scuola del epicureo Sirone ed ha nel cuore Esiodo e Lucrezio, si addentra sempre di più nella conoscenza segreta della natura iniziandosi ai culti di Cerere e Proserpina allora vivissimi a Neapolis. Ma allora Virgilio è veramente un “mago” pre-alchimi-sta? Perché Dante Alighieri, il più “iniziato” dei nostri poeti, affiliato per sua stessa ammissione alla setta dei Fedeli d’Amore a Firenze, iscritto alla corporazione de’ medici e speziali che ha lasciato il più eccelso ed inquietante libro “esoterico” nella immortale Commedia, ha voluto come “guida” proprio Virgilio? Di certo Napoli l’amò moltissimo, e lo ritenne prima di S. Gennaro protettore a tutto tondo. Tant’è che morto a Brindisi nel 19 a.C. onora da sempre la “tomba” napoletana”.

Palazzo Donn’Anna

Palazzo Donn’Anna è un grosso palazzo grigio che si erge nel mare di Posillipo. Non è diroccato, ma non è stato mai finito, le sue finestre alte, larghe, senza vetri, rassomigliano ad occhi senz’anima. Di notte il palazzo diventa nero e cupo e sotto le sue volte s’ode solo il fragore del mare. Tanti anni fa, invece, da quelle finestre splendevano le vivide luci di una festa, attorno al palazzo erano ormeggiate tante barchette adorne di velluti e di lampioncini colorati. Tutta la nobiltà spagnola e napoletana accorreva ad una delle magnifiche feste che, l’altera Donna Anna Carafa, moglie del duca di Medina Coeli, dava nel suo palazzo. Nelle sale andavano e venivano i servi, i paggi dai colori rosa e grigio, i maggiordomi; giungevano continuamente bellissime signore dagli strascichi di broccato e riccamente ingioiellate, arrivavano accompagnate dai mariti o dai fratelli, qualcuna, più audace, arrivava con l’amante. Sulla soglia aspettava i suoi ospiti Donna Anna di Medina Coeli nel suo ricchissimo abito rosso tessuto in lamine d’argento. Era sprezzante ed orgogliosa, godeva senza fine nel ricevere tutti quegli omaggi, tutte le adulazioni. Era lei la più ricca, la più nobile, la più potente, rispettata e temuta. In fondo al grande salone era montato un teatrino per lo spettacolo. Tutta quella eletta schiera d’invitati doveva assistere prima alla rappresentazione di una commedia, poi ad una danza moresca ed infine avrebbero avuto inizio le danze che si sarebbero protratte fino all’alba. La curiosità era data dal fatto che, secondo la moda francese in voga in quei tempi, gli attori sarebbero stati dei nobili, tra i quali vi era Donna Mercede de las Torres, nipote spagnola della duchessa. Donna Mercede era bella, giovane, aveva grandi occhi, neri, come i suoi lunghi capelli. Rappresentava la parte di una schiava innamorata del suo padrone, fedele fino alla morte avvenuta per salvare la vita del suo amato. La fanciulla recitò con trasporto così come Gaetano di Casapesenna che interpretava la parte del cavaliere, anzi quest’ultimo fu così veritiero nella sua recitazione che, quando nell’ultima scena doveva baciare par l’ultima volta il suo sfortunato amore lo fece con tale slancio che la sala intera scoppiò in applausi. Tutti applaudirono, tranne Donn’Anna, che impallidiva mortalmente e si mordeva le labbra per la gelosia. Gaetano di Casapesenna era stato, infatti, l’amante di Donn’Anna. Nei giorni che seguirono le due donne si ingiuriarono più volte violentemente a causa della gelosia di Donn’Anna e del furore giovanile di Donna Mercede. Un giorno Donna Mercede scomparve, si diceva che fosse stata presa da improvvisa vocazione religiosa e si fosse chiusa in convento. Gaetano di Casapesenna la cercò invano in Italia, Francia, Spagna ed Ungheria, invano pregò, supplicò e pianse ma non la rivide mai più fino a che morì, giovane, in battaglia come si conviene ad un cavaliere. A palazzo seguirono altre feste ed altri omaggi alla potente duchessa che, però, sedeva sul suo trono con l’anima avvelenata dal fiele e col suo cuore arido e solitario.
Tratto da “Leggende napoletane” di Matilde Serao

La verità su Palazzo Donn’Anna a Posillipo e su Anna Carafa, sua proprietaria.

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 2° ed ultima parte
la nipote spagnola Mercede de las Torres, “giovane, bruna, dai grandi occhi lionati e dai capelli
neri”. Una spagnola purosangue.
Quanto basta per far perdere la testa a Gaetano di Casapesenna. I due si innamorano, si
amano tra le volte del palazzo dell’ormai detestata zia. La tresca viene scoperta.
Da questo momento un alone di fitto mistero avvolgerà tutta la vicenda. Mercede, dopo un violento scontro con Anna Carafa, scompare. Ufficialmente è in un monastero il cui nome viene
rigorosamente tenuto segreto. Ma a Napoli in molti sono pronti a giurare che la bella iberica è
stata rapita e uccisa. Mandante dell’orribile omicidio non può essere che la vice regina. A nulla serve la disperazione di Gaetano. L’uomo cercherà la sua amata nei monasteri di tutto il Regno. Invano. Mercede è scomparsa. Il suo fantasma ritorna, ogni notte, sul terrazzo di Palazzo Donn’Anna, per incontrare l’unico grande amore della sua breve vita.
Il racconto è bello ma frutto di fantasia e non ha alcun fondamento storico. Ma tanto basta ad alcuni per affermare che “sono secoli che gli abitanti della magica collina, giurano di vedere, su uno dei terrazzi del severo edificio, due figure, bianche, evanescenti, che danzano e si stringono riflesse nel chiarore della debole luna d’autunno. Chi sono quei due amanti che ancora vagano nelle notti partenopee?”
Per quanto riguarda il Duca di Medina che governò dal 13 novembre 1637 al 6 maggio 1644 il regno durante questo periodo fu ancora più tartassato.
In quanto a Donn’Anna, contrastanti fonti ne parlano o come di persona dedita ad opere di pietà o, al contrario, come di persona avida e venale, capace di ogni sorta di soprusi e angherie verso i vassalli. Al culmine della sua gloria fu costretta a separarsi dal marito, richiamato in Spagna.
Morì il 24 ottobre 1645, nella sua villa di Portici dove orgogliosamente si era ritirata.
Mori’ sola. Abbandonata, dimenticata. Mortificata dalla più mortificante delle malattie. Uccisa dal morbo dei poveri. Uccisa dai pidocchi.
Sospesi i lavori, il palazzo resto per secoli in completo abbandono.
Nonostante ciò il Palazzo ritorna spesso nei racconti riferiti alla regina Giovanna.
Sul conto della regina Giovanna Il d’Angiò Durazzo fiorirono racconti leggendari.
Ape regina, amante instancabile, “uocchie de fattucchiarella”, sfrenata e gaudente. I suoi amori, quelli veri e quelli immaginari, fornirono materia prima a innumerevoli racconti popolari, tramandati di bocca in bocca.
Molti di questi racconti, però, erano riferiti genericamente alla” regina Giovanna”. A quale delle due Giovanne, la prima (morta a Muro Lucano per ordine di Carlo di Durazzo) o la seconda, la cui immagine di pietra è ferma nel monumento funebre di Ladislao d’Ungheria nella Chiesa di San Giovanni a Carbonara?
Quale delle due regine conduceva i suoi amanti occasionali in palazzi e castelli, per poi farli precipitare nei “trabocchetti”, una volta saziate le sue voglie d’amore?
Di luoghi simili, la fantasia popolare ne indicò più di uno: Castelcapuano, innanzitutto, e poi il “bagno della regina Giovanna” (ruderi in via Santa Maria della Fede), il palazzo di Poggioreale, non più esistente, la torre di Amalfi, una torre sulla costa vesuviana, tra Resina e Portici, un castello nella zona di Nocera e altri “bagni” della regina, al capo di Sorrento.
E non mancano altri luoghi in diverse zone del regno, come in Puglia, in cui -secondo voci e leggende -Giovannella avrebbe sostato e soggiornato.
Per alcuni di questi luoghi si può dire con certezza che non furono mai abitati da nessuna regina Giovanna.
E lo si può dire soprattutto per quel palazzo che più d’ogni altro, da tempo immemorabile, è stato visto e descritto, nelle fantasie popolari, come albergo e alcova della regina: Palazzo Donn’Anna a Posillipo.
Qui la vox populi ambientò imprese d’amore, orge, delitti, capricci reali.
Ma come sappiamo, Giovanna morì nel 1435, mentre Palazzo Donn’Anna fu ideato nel Seicento, per servire al vicerè Ramiro de Guzman come regalo affettuoso per sua moglie, Donn’Anna Carafa.
E’ anche vero che in quel luogo esisteva già un palazzo in costruzione risalente al Quattrocento, ma le leggende parlano del “Palazzo Donn’Anna”.
Due secoli dividono il regno di Giovanna dal viceregno di Anna. Ma quale Giovanna?

La verità su Palazzo Donn’Anna a Posillipo e su Anna Carafa, sua proprietaria.

Palazzo-DonnAnna
 1° parte
a cura di Sergio Delli Carri
Da un po’ di tempo imperversano anche su Internet rubriche dedicate ai fantasmi che popolerebbero alcuni palazzi storici di Napoli.
Uno dei casi più clamorosi è quello che riguarda Palazzo Donn,’Anna a Posllhpo. Vediamo allora di fare un po’ di chiarezza..
Tra il 1503 ed il 1707 il Mezzogiorno d’Italia divenne un “viceregno” annesso agli altri domini di Ferdinando il Cattolico.
Il viceré era un funzionario inviato dalla Spagna e per il periodo del suo mandato risiedeva a Napoli. Molti furono; viceré che si avv;cendarono al governo e molte le viceregine.
La più famosa di tutte fu la napoletana Donn’Anna Carafa, moglie del viceré Ramiro Nunez de Guzman, duca di Medina de las Torres, che tenne, la carica dal 1637 al 1644.
Anna era la figlia del principe Carafa di Stigliano, altera e bionda e di bell’aspetto oltre che molto ricca, al punto da essere considerata “la prima dote d’Europa”, fu chiesta in sposa dai più potenti principi italiani e stranieri tra i quali: Giancarlo de ‘Medici; Taddeo Barberini, nipote di Papa Urbano VIII; Giovanni Casimiro, re di Polonia; Francesco d’Este. Tutti, proprio tutti, si erano inchinati alla sua prorompente sensualita’.
Ma lei puntava al trono di Napoli. Voleva essere unica, signora e padrona, della citta’piu’ bella del mondo.
Fu così che, nel 1636, Anna Carafa” la piu’ bella tra le belle” sposo’ il duca di Medina.
Anna Carafa aveva scelto di sposare il duca, perché sapeva benissimo che, di lì a poco, a quell’uomo sarebbe toccato il titolo di viceré di Napoli, al posto del Monterey.
Le nozze, le fastose nozze si celebrarono nel [636 tra le sale del palazzo Stigliano a Chiaia. Fu così che divenne l’anno dopo la vice regina di Napoli.
Lui l’amava. Lei amava il suo destino.
Tra gli altri beni aveva ereditato dal padre la villa denominata La Sirena, a pochi passi dalla collina di Posillipo che risaliva all’epoca degli ultimi aragonesi, su cui si diceva che regnasse un maleficio.
I lavori furono affidati al più grande architetto dell’epoca, Cosimo Fanzago a cui fu dato l’incarico di elevare al suo posto un fastoso palazzo. Egli ideò il bellissimo palazzo a mare a forma quadrata, ricco di portici, di logge e giardini pensili; che avrebbe dovuto essere arricchito di statue disposte nelle apposite nicchie e da vari ingressi tra cui anche un accesso dal mare.
Per due anni, vi lavorarono senza sosta almeno quattrocento uomini al giorno. Anna Carafa era felice. Il suo castello avrebbe offuscato lo splendore di mille altre residenze napoletane. E fu così. Palazzo Donn’Anna divenne il simbolo della Napoli ricca e potente.
Accolse feste e balli, permise alla sua “regina” di accarezzare i più sfrenati sogni di potere.
Anna dalla vita voleva prendersi tutto. E almeno per alcuni anni nulla le fu negato.
Come detto l’edificio, sebbene incompiuto, fu scenario di sontuosi ricevimenti durante uno dei quali Matilde Serao ha ambientato una delle sue Leggende napoletane: il Palazzo Donn’Anna.
Vi si narra di uno scontro tra la viceregiria e la nipote Mercede de las Torres per un innamorato conteso da entrambe, il principe Gaetano di Casapesenna.
In seguito donna Mercede sarebbe sparita.
Riassumendo il racconto della Serao, Anna, sposa di Ramiro Guzmàn, ha un amante, Si tratta di Gaetano di Casapesenna, giovane nobile, habitué del palazzo di Posillipo.
L’uomo la raggiunge quando il viceré è in Spagna, e trascorre con lei focose notti d’amore.
Almeno fino a quando, un incontro inaspettato, inevitabile, non sconvolge la vita del giovane.
L’occasione, per ironia della sorte, è data dalla stessa Donn’Anna. La nobildonna organizza una recita a palazzo. Commedia e danze moresche avranno due protagonisti: il suo amante e ….
continua

ANCORA SULLA SIRENA PARTENOPE

 

LE ORIGINI DI NAPOLI, FRA STORIA E LEGGENDA.

 

NAPOLI GRECA

I Greci, oltre ad essere abili navigatori e commercianti, furono anche colonizzatori,(VEDI CARTA DELLA COLONIZZAZIONE GRECA) cioè fondatori di nuove città in terra straniera, in tutto e per tutto simili a quelle che avevano in patria.
Essi si allontanavano dalla Grecia alla ricerca di materie prime (cereali, legname e minerali) e di nuovi mercati per i prodotti dell’artigianato (tessuti di lana, ceramiche, armi ed oggetti di metallo lavorato), ma anche per sfuggire alle lotte sociali tra aristocratici e popolo, al rischio della schiavitù per debiti, prevista dalle leggi e, soprattutto, all’aumento della popolazione che rendeva sempre piů difficile la sopravvivenza in un paese per sua natura arido e poco fertile.
I primi coloni che arrivarono presso le nostre coste si fermarono nell’isola di Pitecusa,(VISITA IL SITO DEL MUSEO ARCHEOLOGICO DI PITHECUSA) corrispondente all’attuale Ischia, da dove poterono osservare comodamente la terraferma, dove poi si trasferirono, fondando prima Cuma e, in seguito, Partenope, primo antichissimo nucleo di Napoli, e Dicearchia, l’odierna Pozzuoli. ( vedi insediamenti nell’area occidentale del Golfo di Napoli)(vedi insediamenti nell’area orientale del Golfo di Napoli)
Partenope sarebbe stata fondata intorno al 700 a.C. sull’attuale collina di Pizzofalcone (Vedi foto del Monte Echia), un’altura circondata per tre quarti dal mare.(VEDI DISEGNO DI PARTENOPE)
Infatti, ad ovest si estendeva la spiaggia di Chiaia, corrispondente all’attuale Riviera di Chiaia; a sud, al posto della moderna Piazza del Plebiscito, vi era un’ampia insenatura; ad est, infine, l’attuale via Chiaia era un grosso canale, in cui trovavano riparo le navi. Nella parte più bassa della città si sviluppň il porto ed un piccolo nucleo di abitazioni nella parte più alta dell’acropoli era il vero centro cittadino. Sulla collina opposta a Pizzofalcone, oltre il vallone di via Chiaia, dove c’č adesso via Nicotera, fu collocata la Necropoli, ossia il luogo delle sepolture.(VEDI PIANTA PARTENOPE IERI ED OGGI)
La cittŕ di Partenope risentě di un periodo di crisi quando i Cumani si trovarono a combattere con gli Etruschi, ma riacquistň prestigio e ricchezza quando finì sotto la protezione del tiranno di Siracusa, che aveva vinto gli Etruschi.
Intorno al 470 a.C. sorse il nuovo centro di Neapolis (cittŕ nuova) che superň Partenope per importanza politica ed economica.(VEDI PIANTA DELLE DUE CITTA’)
Partenope diventò perciò Palepolis (città vecchia).
Neapolis si sviluppò in una zona più interna e protetta di Partenope: ad ovest era limitata dalle colline del Vomero e di Capodimonte, da cui scendevano piccoli torrenti corrispondenti alle attuali strade del Petraio, del Cavone, di Salvator Rosa e di Santa Teresa al Museo, che confluivano nel canale piů grande di via Pessina.
Altre acque scendevano lungo via Vergine e via Stella e si raccoglievano nel canalone di via Foria. I torrenti le cui acque si raccoglievano nel canalone di via Pessina, formavano il fiume Sebeto, che attraversava le attuali via Roma (o Toledo) e via Medina e sfociava nella moderna Piazza Municipio.
A sud c’era naturalmente il mare e ad est la zona paludosa di Poggioreale. La città “pendeva” tra le acque da cui il nome di Pendino che indica oggi un quartiere del centro storico.
La struttura di Neapolis mirava a dividere il territorio in parti uguali ed a distinguere la zona destinata alle abitazioni dalle zone destinate alle attivitŕ commerciali, amministrative e religiose.
Tra le une e le altre venivano lasciate delle zone vuote in previsione di successivi aumenti della popolazione.
La pianta di Neapolis era formata da tre grandi vie rettilinee, chiamate dai Greci platee e dai Romani decumani, tagliate perpendicolarmente da stradine regolari chiamate in greco stenopoi ma meglio conosciute con il nome romano di cardini.
I decumani, larghi circa sei metri, si chiamavano:
1) decumano superiore, che comprendeva le attuali via Sapienza e via Anticaglia;(VEDI DISEGNO DEL DECUMANO SUPERIORE)
2) decumano maggiore, corrispondente all’attuale via dei Tribunali;
3) decumano inferiore, corrispondente a via San Biagio dei Librai. (VEDI DISEGNO DEL DECUMANO INFERIORE)VEDI FOTO DI SPACCANAPOLI (decumano inferiore)
In corrispondenza dei decumani si trovavano le porte che indirizzavano alle cittŕ vicine e precisamente il superiore il superiore terminava ad est con la porta Romana, il maggiore sempre ad est, con la Porta Capuana e l’inferiore era limitata alle due estremità dalla Porta Cumana o anche Puteolana e dalla Porta Nolana.
I cardini, larghi intorno ai tre metri, avevano la funzione di colmare i diversi livelli di altezza dei decumani (tra i più importanti cardini c’era l’attuale via Duomo).
L’incontro dei decumani e dei cardini determinava le insulae, isolati molto allungati (metri 187×37) interrotti da vie strette (vicoli). Nelle insulae più vaste si sviluppň il centro politico e commerciale mentre nelle più strette l’edilizia residenziale, cioè le abitazioni.
Più precisamente, lungo il decumano superiore vennero costruiti gli edifici pubblici; lungo il decumano maggiore l’agorà, sede della vita religiosa e politica; lungo il decumano inferiore le abitazioni, i mercati e le botteghe degli artigiani.
L’acropoli sorgeva nella zona di Sant’Aniello a Caponapoli, a ridosso dell’attuale Piazza Cavour.(VEDI DISEGNO DELL’ACROPOLI DI NEAPOLIS)
La città fu naturalmente circondata da mura e nel suo interno c’erano anche delle zone coltivabili.(vedi Neapolis vista dal mare)
L’antica Neapolis contava circa 30.000 abitanti, più o meno dello stesso livello economico, ed ebbe dapprima un governo oligarchico per passare poi, sotto l’influenza di Atene, ad un governo democratico.

NOTA BENE:
I DISEGNI INSERITI NEL TESTO, OPPORTUNAMENTE INGRANDITI COME ALTRI CHE SARANNO INSERITI IN FUTURO, SONO TRATTI DAL LIBRO DI ATTILIO WANDERLINGH “I GIORNI DI NEAPOLIS” CHE CONSIGLIAMO CALDAMENTE DI LEGGERE A CHI VOLESSE APPROFONDIRE L’ARGOMENTO.