L’ultima cena

Sono insieme da due anni e sposati da uno, oggi il loro bambino compie sei mesi. Sin dall’inizio, sapeva che lei era diversa dalle sue precedenti ragazze. E che non l’avrebbe mai deluso, come avevano fatto Maja, Lisa, Shirin e Florentina. Le ragazze, lui aveva l’abitudine di ospitarle a casa sua senza chiedere un centesimo di affitto, e quando si trovavano con gli amici per bere un caffè si presentava con un mazzo di fiori. Le rimorchiava alle stazioni ferroviarie o alle biblioteche pubbliche, si premurava di praticare sesso orale per farle godere, dava da mangiare ai loro gatti, sorrideva alle loro madri, si lasciava battere a scacchi dai loro padri. Annuiva e concordava quando le ragazze parlavano dell’importanza della parità di genere, ma nel frattempo pagava lui i loro caffè e i loro studi, vacanze e biancheria intima, cappelli di paglia, lozione solare e spesa settimanale.

Malgrado tutto ciò, ogni storia era finita esattamente allo stesso modo: con la donna che piangeva e sosteneva che c’era qualcosa che “non andava”.

Jonas Hassen Khemiri, L’ultima cena

Avendo la bontà di leggere il racconto fino alla fine si scopre che il protagonista è condannato a restare solo a causa della rabbia che non riesce a gestire. Ora, assodato che ogni individuo ha in sé una zona d’ombra e in accordo con Eraclito che scrisse:

Per l’uomo il carattere è il suo demone“,

bisogna altresì ricordare che alcune patologie nervose, benché incurabili, possono essere controllate, ragion per cui chi dovesse riconoscersi nel neopapà di Khemiri dovrebbe avere la forza di sottoporsi a spietate autoanalisi al fine di scongiurare le parole di San Paolo:

In me c’è il desiderio del bene ma non la capacità di attuarlo“.

Simulare autocontrollo o addirittura compiacersi della propria disgiunzione mentale porta inevitabilmente alla catastrofe: al mondo importi quanto un sasso e le lacrime, fameliche di comprensione, sono solo delle tue ciglia.