Subire il #plagio della #prova scritta agli #esami

Subire il plagio della prova scritta agli esami non comporta l’automatica esclusione

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La recente sentenza emessa dal TAR Campania n. 4348 del 12 SETTEMBRE scorso, si è soffermata sul concetto di “plagio” degli elaborati che costituiscono prova di esame in una procedura concorsuale. In particolare la sentenza de qua è intervenuta sul ricorso di una candidata all’esame di abilitazione alla professione forense la quale, pur avendo conseguito una votazione complessiva nei tre elaborati di cui si compone la prova scritta, superiore alla sufficienza, si è vista escludere dall’elenco degli ammessi alla prova orale poiché la commissione esaminatrice aveva rilevato, confrontando l’elaborato della ricorrente e quello redatto da un altro candidato ampi “passi del tutto identici”.

Il ricorso veniva fondato sulla circostanza per cui i due elaborati, pur presentando significativi tratti in comune, si differenziavano sul piano sostanziale; mentre, infatti, l’elaborato della ricorrente risultava scritto in modo assolutamente corretto, quello dell’altro candidato, presentava molteplici errori, ortografici, grammaticali, lessicali e sintattici, nonché di trascrizione dell’art. 41 c.p. tale da far risultare palese come il redattore dello stesso, non avesse piena consapevolezza di quanto scritto.

Nel merito la ricorrente contestava l’omessa valutazione, da parte della sottocommissione nominata a correggere detti elaborati, degli elementi idonei a individuare le rispettive posizioni di plagiante e di plagiato tra i due candidati coinvolti nonché l’errata applicazione dei criteri previsti dalla legge ed applicabili alla casistica in esame.

Ed invero, l’art. 23 R.D. 37/1934 prevede che La commissione, nel caso in cui accerti che il lavoro sia in tutto o in parte copiato da altro lavoro o da qualche pubblicazione, annulla la prova. Deve pure essere annullato l’esame dei candidati che comunque si siano fatti riconoscere; tale statuizione ha incontrato, tuttavia, un’applicazione temperata, in ragione dell’introduzione, nelle ultime sessioni, di un canone integrativo dettato dalla Commissione Centrale presso il Ministero della Giustizia, la quale ha costantemente disposto “che nel caso in cui le Sottocommissioni, in sede di correzione, in sede di valutazione degli elaborati scritti, rilevino la presenza di elaborati uguali per forma e sostanza, si proceda all’annullamento delle prove con conseguente giudizio di inidoneità di tutti i candidati per i quali si sia rilevata la predetta anomalia: se però la Sottocommissione riuscisse ad individuare il candidato plagiante, dovrà procedere alla esclusione solo di quest’ultimo“.

Il canone operativo, nel disporre che la sanzione della esclusione debba essere irrogata nei riguardi del solo plagiante, risulta diretto ad imporre alla Commissione di operare le opportune valutazioni in tal senso, al precipuo scopo di non penalizzare quei candidati che abbiano dimostrato, attraverso una propria autonoma elaborazione, di possedere i requisiti utili  pet l’accesso alle successive fasi della procedura abilitativa, in difetto di una prova atta a dimostrare che il plagio sia avvenuto con il loro consenso.

Il ricorso, già accolto in sede cautelare e poi riformato dal Consiglio di Stato chiamato a decidere sull’appello cautelare, è stato accolto nel merito dal TAR Campania in considerazione, oltre che della verosimile non paternità in capo al suo estensore del secondo elaborato (data l’assenza di nesso logico fra molte delle frasi di cui si compone), anche per il fatto che l’Amministrazione resistente non ha fornito alcun elemento probatorio utile ad indirizzare il Collegio nel senso di ammettere che la Commissione esaminatrice abbia eseguito quelle valutazioni che in sede di applicazione della normativa applicabile, sono state via via dettate dalla Commissione Centrale: il che avrebbe senz’altro dovuto indurre gli esaminatori a ritenere che il plagio era stato commesso solo da uno dei due candidati ai danni dell’altro che invece non aveva – vista l’assenza di prova contraria – dato alcun assenso alla copiatura.

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#GARANZIE DEL #CONSUMATORE

“Garanzie del Consumatore” solo per prestazioni connesse alla #vendita

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Con la Sentenza C-247/16 resa lo scorso 07.09.2017 la Corte di Giustizia Europea si è pronunciata sulla domanda pregiudiziale sollevata dal Tribunale del Land di Hannover nell’ambito di una controversia tra privati vertente su spese asseritamente sostenute dalla ricorrente per porre rimedio a vizi di un’opera.

In particolare, il Tribunale tedesco si è rivolto alla Corte Europea affinchè venisse chiarito se “l’articolo 3, paragrafo 5, secondo trattino della direttiva 1999/44 (in materia di vendita e garanzie concernenti i beni di consumo, cui si è data attuazione in Italia mediante il D. Lgs n. 24/2002) debba essere interpretato nel senso che, in base a un principio di diritto dell’Unione, in materia di tutela dei consumatori, affinchè un consumatore che ha stipulato con un venditore un contratto relativo a un bene di consumo, possa far valere i suoi diritti di garanzia secondari, sia sufficiente che tale venditore non abbia posto rimedio entro u termine ragionevole, senza che sia necessaria la fissazione, da parte del consumatore, di un termine per l’eliminazione del vizio della cosa

L’ambito di indagine sottoposto all’attenzione della Corte investe dunque la definizione di “contratto di vendita” così come riportato nella citata direttiva e in quella n. 85/374 CEE capisaldo del Codice del Consumo adottato in Italia con D. Lgs n. 206/2005.

La Corte precisa dunque che la nozione “contratto di vendita” contenuta nella direttiva 1999/44 è riferita alle vendite concluse tra venditore professionista e acquirente consumatore e che essa, in considerazione del fatto che la direttiva non contiene alcun rinvio al diritto nazionale, deve intendersi come “limitata” all’ambito di applicazione della direttiva medesima, si da costituire una nozione valevole su tutto il territorio dell’Unione a prescindere dal significato che può assumere nei singoli paesi in base al diritto interno: Ne risulta pertanto che essa deve essere considerata, ai fini dell’applicazione della direttiva, come volta a designare una nozione autonoma del diritto dell’Unione, che deve essere interpretata in modo uniforme sul territorio di quest’ultima

Fatta questa premessa, la Corte si sofferma sui contratti cui, in base al diritto nazionale, deve estendersi la nozione di “vendita”, come i contratti di fornitura di servizi o i contratti d’opera.

Sono così da considerare contratti di vendita anche i contratti di fornitura di beni di consumo da fabbricare o produrre: dacchè, ai sensi dell’art. 1, par. 4 della direttiva, il contratto avente ad oggetto la vendita di un bene che deve essere dapprima fabbricato o prodotto dal venditore, rientra nel campo di applicazione della direttiva in parola.

Esempio tipico è l’installazione: se questa presenta dei difetti, potrà essere invocata la speciale tutela consumeristica, solo laddove l’installazione costituisca un servizio connesso alla vendita del medesimo bene.

Cosicchè, in generale si può affermare che la prestazione di servizi rientra nell’ambito di applicazione della speciale tutela prevista dalla direttiva, solo laddove, la prestazione di servizi si pone come accessoria alla vendita.

Chi scrive, si è già trovato ad affrontare in sede giurisdizionale e segnatamente dinnanzi al Consiglio di Stato la delicata questione qui affrontata.

Il caso traeva origine dall’applicazione, ad opera dell’Antitrust di una sanzione a carico di una società per una pratica commerciale scorretta, dovendo trovare applicazione, in questo caso, la normativa dettata in materia di vendita e prestazione di servizi nei confronti dei consumatori.

La difesa apprestata dallo Studio poggiava sulla considerazione per cui al caso di specie non poteva applicarsi la speciale tutela invocata, in considerazione del fatto che la nozione di “vendita” così come recepita dal nostro Ordinamento e risultante dalle direttive comunitarie attuate, non fosse calzante con il particolare servizio reso dalla società sanzionata.

Il Consiglio di Stato con Ordinanza consultabile dal nostro sito (http://studiolegalecimino.eu/wp-content/downloads/sentenza_1_diritto_amministrativo.pdf) ha infatti ritenuto che la speciale normativa dettata per i consumatori, non poteva essere invocata nel caso di specie.

In conclusione, sulla base della decisione della Corte di Giustizia qui commentata, il consumatore può invocare la tutela prevista dalla speciale disciplina introdotta dalla legislazione comunitaria, solo laddove alla base della prestazione (di servizi o attività) ritenuta produttiva di effetti negativi (causa), vi sia un contratto di vendita concluso con il medesimo “professionista” che ha eseguito la prestazione “dannosa”.

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#Suicidio del #paziente: lo psichiatra risponde di omicidio colposo

Suicidio del paziente: lo psichiatra risponde di omicidio colposo

La Cassazione torna ad occuparsi dei reati omissivi impropri con riferimento alla responsabilità professionale medica.

È stata pubblicata solo ieri la sentenza n. 43476 con cui la quarta sezione penale, confermando la condanna resa dalla Corte d’Appello di Caltanissetta, ha ritenuto colpevole di omicidio colposo, un medico del Servizio Psichiatrico Diagnosi e Cura di San Cataldo dove veniva accompagnata dal marito, una donna già dichiarata affetta da schizofrenia paranoide cronica, per aver ingerito un’intera confezione di Serenase.

Il medico, in base alla ricostruzione dei fatti operata dai Giudici del merito, dopo aver constatato che la paziente, che egli già seguiva da mesi, si presentava tranquilla e con gli occhi aperti, congedava i coniugi e tranquillizzava il marito che invece, si era recato in ospedale già munito del necessario per un eventuale immediato ricovero.

Rientrati a casa, l’uomo lasciava per poche ore la donna che, nel frattempo si era assopita sul letto e rientrando, scopre che la moglie si era lanciata dalla finestra, perdendo la vita.

Contro la sentenza della Corte di Appello ricorreva il medico assumendo violazione di legge e vizio di illogicità e contraddittorietà della motivazione, oltre che travisamento della prova: la Corte territoriale avrebbe cioè, omesso l’indagine causale tra la condotta omessa e il suicidio.

Al riguardo, val la pena rimarcare che nella specie ricorrono i principi sanciti nella nota sentenza a SS.UU. (c.f. Franzese) del 11.09.2002 n. 30328 con particolare riferimento alla categoria dei reati omissivi impropri e allo specifico settore della attività medico-chirurgica.

Sembra opportuno ricordare che i principi di diritto affermati erano i seguenti:

1) Il nesso causale può essere ravvisato quando, alla stregua del giudizio controfattuale condotto sulla base di una generalizzata regola di esperienza o di una legge scientifica – universale o statistica – si accerti che, ipotizzandosi come realizzata dal medico la condotta doverosa impeditiva dell’evento, questo non si sarebbe verificato, ovvero si sarebbe verificato, ma in epoca significativamente posteriore o con minore intensità lesiva.

2) Non è consentito dedurre automaticamente dal coefficiente di probabilità espresso dalla legge statistica la conferma, o meno, dell’ipotesi accusatoria sull’esistenza del nesso causale, poiché il giudice deve verificarne la validità nel caso concreto, sulla base delle circostanze del fatto e dell’evidenza disponibile, così che, all’esito del ragionamento probatorio che abbia altresì escluso l’interferenza di fattori alternativi, risulti giustificata e processualmente certa la conclusione che la condotta omissiva del medico è stata condizione necessaria dell’evento lesivo con “alto o elevato grado di credibilità razionale o probabilità logica”.

3) L’insufficienza, la contraddittorietà, l’incertezza del riscontro probatorio sulla ricostruzione del nesso causale, quindi il ragionevole dubbio, in base all’evidenza disponibile, sulla reale efficacia condizionante della condotta omissiva del medico rispetto ad altri fattori interagenti nella produzione dell’evento lesivo, comportano la neutralizzazione dell’ipotesi prospettata dall’accusa e l’esito assolutorio del giudizio.

Facendo applicazione di tali, pressochè incontrastati principi, gli Ermellini, con la sentenza in commento hanno confermato la posizione di “garanzia” del medico che si estrinseca nell’obbligo di controllo del paziente che assurge, in tal modo a fonte di pericolo, rispetto al quale il garante, ha il dovere di neutralizzare gli effetti lesivi verso terzi e verso sè stessi.

L’imputato d’altronde, proprio perché medico psichiatra che aveva in cura la vittima già da mesi, di cui aveva contribuito a stilare ben 13 cartelle cliniche, non poteva ignorare né lo stato anamnestico della paziente, né la circostanza che il farmaco ingerito, essendo del tipo “aloperidolo” avrebbe sviluppato i suoi effetti dalle due alle sei ore dopo l’assunzione.

L’aver congedato i coniugi, minimizzando sull’accaduto e comunque senza neanche suggerire un controllo presso il vicino pronto soccorso, ovvero tenere la paziente sotto controllo, anche ricorrendo a un ASO (accertamento sanitario obbligatorio), costituisce violazione del dovere di diligenza professionale e, data la prevedibilità del suicidio – per il particolare stato d’animo della paziente che già in passato aveva posto in essere condotte suicidiarie – egli deve essere ritenuto responsabile di non aver impedito il tragico evento.

Tale decisione evidenzia tre profili di particolare interesse.

Il primo riguarda il fondamento dell’obbligo di garanzia in forza del quale il sanitario assume l’obbligo di curare nel modo migliore il paziente e la cui violazione rappresenta la conditio sine qua non della responsabilità a titolo di colpa. Il secondo attiene alla prevedibilità di un evento potenzialmente dannoso per il paziente, tale da imporre al sanitario di mettere in atto qualsiasi attività al fine di evitare il suo verificarsi. Il terzo, concerne, invece, la regola di condotta che deve guidare la valutazione del giudicante sull’accertamento del nesso causale tra la condotta omissiva del sanitario e l’evento dannoso.

Sotto il profilo della prevedibilità dell’evento è ovvio, invece, che il sanitario non sarà ritenuto responsabile nel caso in cui si verifichi un evento eccezionale ai sensi e per gli effetti dell’art. 41comma 2, c.p.

Con riferimento al caso de quo ovvero alla prevedibilità degli effetti nocivi di un farmaco e, quindi, dell’evento dannoso, la Cassazione ha sostenuto che il sanitario che prescrive un medicinale deve tenere adeguatamente in considerazione gli effetti collaterali, se e quando questi sono richiamati come probabili e anche possibili dalla scienza medica e ciò a maggior ragione quando la relativa indicazione è contenuta nel foglio illustrativo allegato alla confezione del farmaco.

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#Suicidio del paziente: lo #psichiatra risponde di #omicidio colposo

 

LA MISSION dello Studio Legale Gelsomina Cimino

La Mission dello Studio Legale  Gelsomina Cimino è:

L’attitudine naturale non si può insegnare, né apprendere.

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Il “malato” conserva il posto di lavoro

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La Sentenza n.21667/2017 emessa dalla Suprema Corte di Cassazione lo scorso 19.09.2017 interviene sul tema della legittimità del licenziamento a seguito di riscontrate attività lavorativa in costanza di malattia.

La decisione trae origine dall’impugnativa avverso la decisione della Corte d’Appello di Catanzaro chiamata a pronunciarsi sulla controversia insorta tra una società e il proprio dipendente il quale era stato licenziato poiché sorpreso a svolgere, durante un periodo di assenza dal lavoro per infortunio, “attività incompatibile con la infermità riportata” (trattavasi di contusione a spalla e polso sinistro).

Invero il lavoratore, assunto presso la società ricorrente con qualifica e mansioni di autotrenista, durante il periodo di malattia si era recato, alla guida della propria auto, presso l’esercizio commerciale gestito dal di lui figlio ove si occupava dell’apertura e chiusura del negozio; spostava carichi pesanti e vasi con piante.

Per tali motivi, era stato licenziato dal proprio datore di lavoro a seguito di procedimento disciplinare.

Il lavoratore aveva così impugnato il licenziamento che, tuttavia, il Tribunale, in primo grado, aveva ritenuto legittimo.

La Corte d’Appello adita in sede di gravame, rilevava invece, che la contestazione disciplinare, pur denunciando attività contrastanti con l’infortunio accusato, non specificava, tuttavia, in cosa si sarebbe concretizzata tale attività, riverberandosi, tale scelta, sul principio di immutabilità dei motivi del licenziamento disciplinare.

Posta questa premessa la Corte d’Appello rilevava che dal materiale probatorio assunto in primo grado, non poteva giungersi alla conclusione che l’attività svolta dal lavoratore fosse espressione di simulazione di malattia. Invero il fascicolo fotografico elaborato dalla società investigativa aveva ritratto il lavoratore alla guida della propria autovettura, nonché il lavoratore con in mando un sacchetto della spesa riempito per 1/5, o intento a spostare piccole piantine, ovvero intento nell’abbassare la saracinesca del negozio mediante un dispositivo elettronico, tutte attività che in ragione della diagnosi non potevano ritenersi espressione di simulazione di malattia solo in considerazione della circostanza secondo la quale, egli era assunto presso la ditta datrice di lavoro, in qualità di autotrasportatore con l’obbligo di carico/scarico delle merci trasportate.

In merito appare opportuno rammentare che sul punto la giurisprudenza era già giunta a ritenere che l’espletamento di altra attività, lavorativa ed extralavorativa, da parte del lavoratore, durante lo stato di malattia, è idoneo a violare i doveri contrattuali di correttezza e buona fede nell’adempimento dell’obbligazione e a giustificare il recesso del datore di lavoro, solo laddove si riscontri che l’attività espletata costituisca indice di una scarsa attenzione del lavoratore alla propria salute ed ai relativi doveri di cura e di non ritardata guarigione, oltre ad essere dimostrativa dell’inidoneità dello stato di malattia ad impedire comunque l’espletamento di un’attività ludica o lavorativa (per tutte Cass. 21 aprile 2009 n. 9474).

La prova della incidenza della diversa attività lavorativa o extralavorativa nel ritardare o pregiudicare la guarigione ai fini del rilievo disciplinare di tale attività nel corso della malattia, è comunque a carico del datore di lavoro.

La Cassazione, considerando il ragionamento seguito dalla Corte Territoriale come conforme alla giurisprudenza di legittimità, ha confermato la sentenza, affermando la illegittimità del licenziamento poiché, “la condotta tenuta dal lavoratore non rappresenta una violazione dei doveri di correttezza e buona fede né degli obblighi di diligenza e fedeltà”.

L’attività svolta dal lavoratore “malato”, poteva anche essere astrattamente riconducibile a una prestazione lavorativa, tuttavia non risultava idonea a pregiudicare la guarigione del lavoratore, né tanto meno ad avvalorare l’ipotesi di inesistenza o simulazione della malattia.

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I #TASSI DI INTERESSE #BANCARI DEVONO ESSERE SPECIFICAMENTE APPROVATI DAL #CORRENTISTA

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Il Tribunale di Ferrara con la sentenza n. 602/2017 interviene sull’annoso dibattito concernente i tassi di interesse di un contratto di conto corrente.

La sentenza de qua decide sulla controversia derivante da opposizione a decreto ingiuntivo ottenuto dalla Banca ai danni di una società a responsabilità limitata.  Con ricorso ex art. 645 c.p.c.  il ricorrente ha dedotto la nullità della clausola di rinvio agli “usi su piazza” nonché la conseguente applicazione illegittima degli interessi ultralegali in assenza di valida pattuizione e la violazione delle norme in tema di anatocismo e usura.

L’opposta eccepiva riguardo la clausola di rinvio agli usi su piazza che, se è vero che tale clausola è da ritenersi nulla in seguito all’introduzione delle norme sulla trasparenza bancaria, devono ritenersi applicabili gli interessi legali ai sensi dell’art. 1284 c.c fino alla data in cui le parti avrebbero fissato il tasso.

L’opposta peraltro sosteneva che avendo, la società ricorrente, richiesto nel marzo 2001 la diminuzione dei tassi applicati, non può escludersi che essa fosse a conoscenza della loro misura.

Il Tribunale, per quanto è qui di interesse ha chiarito che la clausola di rinvio agli usi di piazza, – contemplata nella maggior parte dei contratti di conto corrente sottoscritti prima del 1993 perchè inserita nei modelli contrattuali ( formulari prestampati ) utilizzati dalla maggior parte degli Istituti di credito italiana – a seguito della Legge sulla trasparenza bancaria (Legge n. 152/1992), è da ritenersi nulla, e che tale nullità è da estendersi altresì ai contratti stipulati anteriormente alla novella normativa poichè il rinvio agli usi di piazza è da ritenersi eccessivamente generico e non fornisce criteri che consentano una oggettiva determinabilità del tasso di interesse convenzionale.

Ed invero, prosegue il Tribunale, la regola della pattuizione per iscritto dei tassi e delle condizioni se può ritenersi osservata anche quando la manifestazione di consenso delle due parti non sia contenuta nello stesso documento contrattuale, richiede, comunque la prova dell’accordo scritto tra le parti, prova del tutto assente nel caso in esame. Deve quindi ritenersi opportunamente applicato il ricalcolo applicato dal CTU, il quale ha adottato la capitalizzazione trimestrale, quale tasso pattuito solo a partire dal 30.10.2008, mentre per il periodo anteriore è stato correttamente applicato il tasso sostitutivo previsto dall’art. 117 TUB con capitalizzazione semplice, in luogo del tasso contemplato dal codice civile, come avrebbe voluto l’opponente, atteso che, versandosi in ipotesi di nullità assoluta della clausola contrattuale, la norma introdotta dalla legislazione speciale, anche se successiva alla stipula del contratto, deve ritenersi prevalente.

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Responsabilità Professionale dell’Avvocato

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L’AVVOCATO RESPONSABILE PER COLPA SOLO SE IL RISULTATO SPERATO ERA ALTAMENTE PROBABILE

Sul sempre attuale tema riguardante la responsabilità professionale dell’Avvocato  si è espressa la sentenza n. 2102/2017 della Corte d’Appello di Milano la quale interviene in secondo grado a dirimere la controversia insorta tra un avvocato e il proprio cliente.

L’Avvocato in questione aveva chiesto e ottenuto dal Tribunale di Sondrio decreto ingiuntivo per il pagamento di prestazioni professionali, cui seguitava opposizione ex art. 645 c.p.c. ritenuta infondata dallo stesso Tribunale di Sondrio.

Avverso detta sentenza di rigetto, proponeva appello il cliente deducendo, per quanto è qui di interesse, l’erronea valutazione del merito della causa con particolare riferimento ai presupposti di esclusione della responsabilità dell’avvocato per inadempimento della propria obbligazione.

In merito appare utile rammentare che il rapporto che si instaura tre l’Avvocato e il Cliente si inserisce nell’ampio spettro dei rapporti contrattuali è – c.d. “contratto di clientela” – che va sussunto nella fattispecie del contratto d’ opera intellettuale disciplinato dagli artt. 2229 e ss. c.c. in virtù del quale sorge in capo al professionista un vincolo giuridico in ordine all’espletamento del suo mandato professionale.

Elementi caratterizzanti del contratto d’opera intellettuale sono:

  1. a) il carattere intellettuale della prestazione, oggetto del contratto infatti va identificato nell’esercizio di un’attività intellettuale;
  2. b) il carattere personale della prestazione (il cliente ha, in forza del rapporto che si instaura con l’avvocato, diritto a che il professionista presti personalmente la propria opera, eventualmente con l’ausilio di sostituti o ausiliari, che operino sempre e comunque sotto la propria responsabilità e direzione);
  3. c) la discrezionalità del prestatore d’opera nell’esecuzione della prestazione;

La prestazione fornita dal professionista è, di regola, una prestazione di mezzi (e non di risultato) in quanto l’attività prestata da quest’ultimo, essendo relativa solo a prestazioni intellettuali, non può essere mirata al raggiungimento di uno scopo come risultato, ma solo al tentativo di raggiungerlo: l’esito di un procedimento giudiziale è in ogni caso influenzato da elementi esterni molte volte imponderabili. Ne consegue che l’inadempimento del professionista, deve essere valutato alla stregua dei doveri inerenti allo svolgimento dell’attività professionale e, in particolare, al dovere di diligenza, per il quale trova applicazione, in luogo del criterio generale della diligenza del buon padre di famiglia, il parametro della diligenza professionale fissato dal comma secondo dell’art. 1176 c.c. a  norma del quale la diligenza dell’esercente un’attività professionale deve essere commisurata alla natura dell’attività esercitata, di modo che il professionista sarà considerato responsabile per il mancato adempimento solo ove si accerti che egli non abbia utilizzato nell’espletamento della sua attività una diligenza pari a quella che ci si possa aspettare da un professionista di medie capacità e preparazione.

Alla luce dei suesposti brevi cenni, si desume chiaramente come la decisione presa dalla Corte d’appello di Milano, nel respingere il gravame, si ponga in linea di continuità non solo con il dato normativo, ma altresì con la ormai costante giurisprudenza di legittimità, secondo la quale in caso di responsabilità professionale trova applicazione l’art. 2236 c.c. – che limita la responsabilità del professionista alle sole ipotesi di colpa grave o dolo – in quelle ipotesi in cui la prestazione oggetto dell’incarico richiede la soluzione di problemi tecnici di particolare difficoltà, che implicano una preparazione professionale superiore alla media. Derivandone, per logica conseguenza, che l’avvocato non è responsabile per il solo fatto di aver commesso un errore o un’omissione nello svolgimento dell’incarico, ma invero “per accertare la responsabilità professionale è necessario che il cliente, dopo aver mosso specifiche censure, dimostri la ragionevole probabilità di un diverso e più favorevole esito in assenza della condotta asseritamente dannosa” (Cass. 22882/2017).

Nel caso di specie, ha osservato la Corte territoriale, poiché non vi è alcuna prova che l’avvocato abbia omesso di tenere in debito conto situazioni, informazioni, atti e documenti che avrebbero consentito un diverso inquadramento della fattispecie, è da escludersi la responsabilità del professionista; ciò in forza degli insegnamenti della Suprema Corte, secondo la quale “in tema di responsabilità dell’ avvocato verso il cliente, è configurabile imperizia allorchè questi ignori o violi precise disposizioni di legge ovvero risolva erroneamente questioni giuridiche prive di margini di opinabilità” dovendo escludersi qualsiasi responsabilità “ in caso di questioni rispetto alle quali le soluzioni dottrinali e giurisprudenziali presentino margini di incertezza, in astratto o con riferimento al caso concreto, tali da ritenere giuridicamente plausibili le scelte difensive compiute” (Cass. 16846/2005)

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NESSUN INDENNIZZO A RAFFAELE SOLLECITO

La Superficialità delle Indagini come unico Reo dell’omicidio di Meredith

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È delle ultime ore la pubblicazione delle motivazioni della sentenza n. 42014/2017 resa lo scorso 28.06.2017, con la quale la Corte di Cassazione ha respinto la richiesta di riparazione avanzata da Raffaele Sollecito per l’ingiusta detenzione patita durante il procedimento penale che lo aveva visto imputato dei reati di cui agli artt. 573-575, 609 bis e ter, 624 bis , 367 e 61 c.p, (il noto omicidio di Perugia) dai quali , con sentenza resa dalla Corte di Cassazione il 27.03.2015 , era stato definitivamente assolto.

A giudizio della Suprema Corte, l’ordinanza della Corte Territoriale ha fornito congrua e corretta motivazione del provvedimento di rigetto, conformandosi pienamente agli insegnamenti della giurisprudenza di legittimità.

L’introduzione nel nostro ordinamento, dell’istituto della riparazione per ingiusta detenzione è avvenuta con il codice di procedura penale del 1988 (direttiva n. 100 della legge delega 16 febbraio 1987 n. 81), con il quale all’art. 314 c.p.p. è stato previsto che chi sia stato ingiustamente privato della libertà personale con provvedimento cautelare iniquo possa ottenere un indennizzo, da liquidarsi in via equitativa entro il tetto massimo di € 516.456,90, secondo le forme del procedimento descritto dall’art. 315 c.p.p.

La riparazione da ingiusta detenzione cautelare trova la propria fonte anche a livello sovranazionale, in particolare con riguardo sia all’art. 5, comma 5, della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, secondo cui «ogni persona vittima di arresto o di detenzione in violazione di una delle disposizioni del presente articolo ha diritto a una riparazione», sia all’art. 9, comma 5, del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, secondo cui «Chiunque sia stato vittima di arresto o detenzione illegali ha diritto a un indennizzo».

Con riguardo alla natura giuridica dell’istituto, è ormai acquisito anche nella giurisprudenza di legittimità che la riparazione per ingiusta detenzione non ha carattere risarcitorio, in quanto l’obbligo dello Stato non nasce da un fatto illecito, ma dalla doverosa solidarietà nei confronti della vittima di un’ingiusta detenzione cautelare.

Pertanto, il contenuto dell’equa riparazione non costituisce un risarcimento per i danni patrimoniali e morali eventualmente subiti nel corso della detenzione, ma rappresenta la corresponsione di una somma di denaro che, tenuto conto della durata della carcerazione preventiva, valga a compensare le conseguenze personali ed economiche prodotte dalla misura ingiustamente applicata.

La disposizione in commento indica i presupposti necessari per ottenere l’equa riparazione dell’ingiusta detenzione subita. Le ipotesi previste dal legislatore sono due: la prima di ingiustizia sostanziale, prevista al primo comma, e la seconda di ingiustizia formale, disciplinata al secondo.

La prima ipotesi, di cui al primo comma, prevede che «chi è stato prosciolto con sentenza irrevocabile perché il fatto non sussiste, per non aver commesso il fatto, perché il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato, ha diritto a un’equa riparazione per la custodia cautelare subita, qualora non vi abbia dato o concorso a darvi causa per dolo o colpa grave».

Innanzitutto, è richiesto che, all’esito del giudizio penale, l’imputato sia prosciolto con una delle formule definitive che ne sanciscono l’innocenza, ossia «perché il fatto non sussiste», «per non aver commesso il fatto», «perché il fatto non costituisce reato» o «non è previsto dalla legge come reato». È opinione comune che anche l’assoluzione pronunciata, ai sensi dell’art. 530, co. 2, c.p.p., in presenza di prove insufficienti o contradditorie, costituisca presupposto per la riparazione ex art. 314 c.p.p.

La verifica di questi presupposti, stante il tenore della disposizione, andrebbe operata ex ante, avendo riguardo agli elementi considerati al momento dell’adozione della misura (Cass. pen., Sez. IV, 28 gennaio 2014, n. 8021).

In realtà, la giurisprudenza con interpretazione estensiva della disposizione ha ritenuto che l’ingiustizia formale della misura cautelare possa risultare anche da una valutazione ex post, compiuta alla luce delle risultanze probatorie acquisite nel corso del procedimento principale. Si pensi a esempio, al caso in cui, nel corso del giudizio di merito, il fatto dell’imputato venga diversamente qualificato e sia contestato un reato punito con pene edittali che non rientrano più entro i limiti previsti dall’art. 280 c.p.p. o all’ipotesi in cui la riqualificazione porti alla contestazione di un reato per il quale è prevista la procedibilità a querela di parte e la stessa non risulti presentata.

In entrambe le fattispecie descritte, costituisce condizione ostativa al riconoscimento del diritto all’equa riparazione per ingiusta detenzione la circostanza di avere dato o concorso a dare causa alla misura cautelare per dolo o colpa grave.

Pertanto il giudice, nell’esaminare la richiesta presentata, dovrà necessariamente verificare che il soggetto indagato non abbia posto in essere una condotta dolosa o gravemente colposa che possa avere influenzato in maniera significativa il provvedimento cautelare emesso (Cass. pen., Sez. IV, 20 dicembre 2013, n. 1921).

La giurisprudenza ha interpretato il contenuto del dolo e della colpa grave facendo riferimento a parametri civilistici e non penalistici, sostenendo che la valutazione della condotta dolosa o gravemente colposa debba seguire non i canoni tipici del processo penale, ma i criteri civilistici che regolano e rapporti tra creditore e debitore.

Nel caso di specie presupposto per il diniego del riconoscimento dell’indennizzo è stato rinvenuto nella contraddittorietà delle dichiarazioni rese dal Sollecito nelle poche ore successive al ritrovamento del cadavere di Meredith Kercher, le quali avevano palesemente costituito degli indizi di responsabilità capaci di corroborare gli altri elementi che secondo gli inquirenti dimostravano il suo coinvolgimento nell’omicidio e nei delitti ad esso collegati.

In effetti, sul punto la Corte territoriale si è soffermata a lungo giungendo a ritenere che “se il Sollecito avesse detto subito, senza successive contraddizioni, che la ragazza [ndr la Knox] era rimasta lontana da lui nelle ore del fatto, ed avesse riferito in modo preciso l’ora in cui era giunta a casa sua nonché le condizioni, presumibilmente alterate o addirittura sconvolte, in cui ella si trovava in quel momento, la sua posizione processuale sarebbe stata sicuramente diversa, apparendo probabile che egli non sarebbe stato neppure indagato o comunque che, non ravvisandosi reticenza o mendacio nelle sue dichiarazioni, qualora indagato, le esigenze cautelari sarebbero state ritenute assenti o meno gravi, inducendo i giudici ad applicare una misura meno severa”. Parimenti le esigenze cautelari sarebbero apparse meno gravi se egli avesse evitato di fornire alibi subito smentiti, o se avesse spiegato le inconciliabilità delle proprie affermazioni con gli elementi emersi con certezza dalle indagini.

Invero, la richiesta di un indennizzo per ingiusta detenzione ex art. 314 c.p.p consegue ad una sentenza di assoluzione che accerti la infondatezza della ipotesi accusatoria all’esito del giudizio di merito. Tuttavia, prosegue la Suprema Corte, se la sentenza di assoluzione costituisce presupposto necessario per poter avanzare l’istanza di riparazione, essa non è sufficiente ai fini dell’accoglimento, che si realizza laddove l’interessato non abbia dato o concorso a dare causa alla custodia cautelare con dolo o colpa grave.

In particolare si avrà condotta dolosa non solo nel caso in cui la stessa sia volta alla realizzazione di un evento voluto e rappresentato nei suoi termini fattuali (indipendentemente dal fatto di confliggere o meno con una prescrizione di legge), ma anche qualora l’agente abbia posto in essere un comportamento consapevole e volontario che, valutato alla luce del parametro dell’id quod plerumque accidit, secondo le regole di esperienza comunemente accettate, sia tale da creare una situazione di allarme sociale e di doveroso intervento dell’autorità giudiziaria a tutela della collettività.

Pertanto, il dolo viene ravvisato in tutte quelle ipotesi in cui l’imputato, nel corso del procedimento, abbia tenuto una condotta fraudolenta o pericolosa, tale da far ritenere sussistenti esigenze cautelari nei suoi confronti.

Si ritiene, invece, gravemente colposo il comportamento cosciente e volontario di chi per negligenza, imprudenza o trascuratezza o per inosservanza di leggi, regolamenti o discipline abbia reso prevedibile o evitabile, anche se non voluta, l’adozione della misura cautelare o la sua mancata revoca. Per esempio, la Suprema Corte ha ritenuto gravemente colposa la condotta di un soggetto che aveva reso dichiarazioni ambigue in sede di interrogatorio di garanzia o che aveva omesso di fornire specifiche circostanze non note agli inquirenti al fine di prospettare una logica ricostruzione dei fatti e demolire gli indizi di colpevolezza a suo carico.

Infatti, se è pur vero che il silenzio serbato durante l’interrogatorio non può costituire di per sé condotta dolosa o colposa, poiché riconducibile all’esercizio del diritto di difesa dell’imputato, è altresì vero che l’ingiustificato rifiuto di fornire elementi a proprio “discarico” può rilevare come comportamento doloso o colposo che ha concorso al mantenimento dello stato detentivo.

Allo stesso modo, la giurisprudenza ha considerato gravemente colposo, e in quanto tale ostativo al riconoscimento della riparazione per ingiusta detenzione, il comportamento extraprocessuale dell’imputato che intratteneva frequentazioni ambigue con soggetti gravati da specifici precedenti penali o coinvolti in traffici illeciti; in tali casi, il giudice deve fornire congrua motivazione della oggettiva idoneità di questi comportamenti a essere interpretati come indizi di complicità e a rappresentare la causa dell’emissione del provvedimento cautelare restrittivo (Cass. pen., Sez. IV, 1° luglio 2014, n. 39199).

La valutazione demandata al giudice deve poggiare su fatti concreti e precisi e deve scaturire dall’esame della condotta tenuta dal richiedente sia prima che dopo la perdita della libertà personale, al fine di stabilire, con valutazione ex ante, non se tale condotta integri gli estremi di reato, ma solo se sia stata il presupposto che abbia ingenerato, seppur in presenza dell’errore dell’autorità giudiziaria, la falsa apparenza della sua configurabilità come illecito penale, dando luogo alla detenzione con rapporto “causa effetto” (Cass. pen., Sez. IV, 20 gennaio 2015, n. 3495; Cass. pen., Sez. IV, 14 marzo 2014, n. 21579).

Naturalmente, ove si ritenga sussistente la causa ostativa alla concessione dell’indennizzo, sarà necessario rinvenire il nesso eziologico esistente tra le condotte dolose o gravemente colpose poste in essere dall’indagato e il reato allo stesso ascritto, a fondamento del quale era stata applicata la misura restrittiva della libertà personale.

Sul punto, la decisione in commento ha riportato un passo, ritenuto determinante, proprio della sentenza assolutoria: “La sua presenza sul luogo dell’omicidio, e segnatamente nella stanza dove fu commesso il delitto, è legato alla sola traccia biologica rinvenuta sul gancetto del reggiseno, in ordine alla cui riferibilità non può, però, esservi certezza alcuna, giacchè quella traccia è insuscettibile di seconda amplificazione, stante la sua esiguità, di talchè si tratta di elemento privo di valore indiziario. Resta, nondimeno, forte il sospetto che egli fosse, realmente presente nella casa di via della Pergola, la notte dell’omicidio, in un momento, però, che non è stato possibile determinare. D’altro canto, certa la presenza della Knox in quella casa, appare scarsamente credibile che egli non si trovasse con lei.

La presenza della Knox in casa al momento dell’omicidio – continua la Corte – e la smentita del suo alibi, insieme alle contraddittorie dichiarazioni del Sollecito, mai più sentito nel corso del dibattimento, hanno perciò rafforzato il convincimento della presenza anche di Sollecito nell’appartamento, contribuendo a formare nel GIP la prospettiva di un suo coinvolgimento nei delitti a lui attribuiti che lo ha portato all’applicazione della misura.

Se, dunque, il Sollecito avesse immediatamente comunicato di essere presente nell’appartamento ma di non aver preso parte ai fatti omicidiari – come la sentenza assolutoria sembra confermare, parlando di “mera connivenza non punibile”; se la telefonata ai Carabinieri non fosse stata eseguita, ad opera dello stesso Sollecito, solo dopo un’ora dall’arrivo della Polizia Postale (intervenuta sul posto per rintracciare la titolare della scheda telefonica rinvenuta in un giardino privato limitrofo e dove trovando i due ragazzi Amanda e Raffaele), tanto da apparire come un depistamento degli inquirenti, l’intero iter processuale sarebbe stato, con ogni probabilità, molto più favorevole al Sollecito.

Pur nella cristallina ricostruzione dogmatica operata dalla Suprema Corte nella sentenza in commento, non ci si può esimere dal rimarcare come, ad un raffronto fra questa sentenza della quarta sezione penale della Cassazione, con quella assolutoria di Sollecito e Amanda knox del 2015, la n. 36080 della quinta sezione penale e ancora con la n. 7195/2011 resa dalla prima sezione penale che ha definitivamente condannato Rudy Guede per il delitto di omicidio, emerga la totale sconfitta del nostro intero sistema giuspenalistico: Sollecito e Knox sono stati assolti senza rinvio per “la mancanza di un quadro probatorio coerente e sufficiente a sostenere l’ipotesi accusatoria” (pag. 50 cfr 9.4.3.) e comunque per l’(im)possibilità oggettiva di ulteriori accertamenti che possano dipanare i profili di perplessità, offrendo risposte di certezza, magari attraverso nuove indagini tecniche, rese impossibili dalla esiguità delle tracce biologiche lasciate sopravvivere agli accertamenti frettolosi e inadeguati, oltre che approssimativi (forse perché più preoccupati di fornire un colpevole all’opinione pubblica internazionale che di identificare il vero responsabile), fino alla banalissima distruzione dei computers appartenuti ad Amanda Knox e al Sollecito, bruciati da improvvide manovre degli inquirenti!.

Rudy Guede, d’altronde, ritenuto “compartecipe di omicidio” si è sempre rifiutato di collaborare nel processo dei due coimputati e, scegliendo la strada del rito abbreviato ha fatto si che non potesse “beneficiare” del progressivo smantellamento delle prove scientifiche, vedendosi finanche rigettare, dalla Corte d’Appello di Firenze, la richiesta di revisione del processo.

Resta l’amarezza per la morte di una ragazza ventiduenne, innamorata di un ragazzo, in nome del quale aveva respinto le avances di Rudy; Resta l’assenza di un movente che possa in qualche modo dare un senso ad una morte così straziante; Resta l’ineludibile sconfitta dell’apparato investigativo incapace di sottrarsi all’influenza mediatica che inevitabilmente per mesi ha tenuto i propri fari accesi su quel piccolo appartamento di via della Pergola.

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