“L’ITALIA PAESE DI SANTI, POETI E AVVOCATI”: IL PAPA PREFERISCE CONFONDERE I RUOLI

“L’ITALIA PAESE DI SANTI, POETI E AVVOCATI”: IL PAPA PREFERISCE CONFONDERE  I RUOLI

L’intervento del Sommo Pontefice al corso “Matrimonio e Famiglia” tenutosi in San Giovanni in Laterano e conclusosi solo alcuni giorni fa con parole pesanti verso gli Avvocati apostrofati come “approfittatori e speculatori” della lite coniugale, non può che suscitare qualche riflessione.

Com’è noto, Papa Bergoglio con le due Lettere “Mitis Iudex Dominus Iesus” e “Mitis et misericors Iesus” ha riformato i processi di nullità del matrimonio canonico sia per il rito latino che per quello orientale: sono state quindi introdotte procedure più snelle e, soprattutto, è stata contemplata la gratuità della procedura, salvo una “giusta e dignitosa” retribuzione degli operai del Tribunale.

D’altro canto, sul piano deontologico, l’art. 49, § 2, delle Normare Romanae Rotae Tribunalis prescrive infatti che “procuratorum advocatorumque emolumenta non alia admittantur, quam quae sunt probata”. In sostanza, è vietato al patrono di percepire, o anche solo pattuire, compensi esagerati per la propria opera professionale.

Ma nel corso dell’intervento alla Basilica di San Giovanni, il Papa si è spinto oltre, invitando gli Avvocati all’ascolto dei coniugi e soprattutto, ad ammonire i coniugi in crisi dall’affidarsi ad Avvocati che “in queste situazioni di crisi pensano solo al guadagno che possono trarre” e quindi il monito “Bisogna difendere le coppie dalle mani di alcuni avvocati!

Il diritto di famiglia costituisce senz’altro un settore particolare, che porta l’avvocato ad occuparsi di situazioni delicate nelle quali vengono coinvolti, in misura maggiore rispetto ad altre fattispecie, gli equilibri e le situazioni personali dei soggetti interessati, costretti a vivere situazioni di profonda sofferenza e disagio. In molti casi, peraltro, le vicende vedono il coinvolgimento dei minori, la cui tutela e il cui interesse assumono importanza prioritaria ed esigono l’adozione di particolari cautele.

Si ritiene pertanto che, soprattutto nel diritto di famiglia, l’avvocato non debba limitarsi al rispetto delle regole procedurali a difesa del proprio assistito, ma debba “valutare le conseguenze” del proprio operato, nel senso che occorre “chiedersi cosa accada se agiamo in un determinato modo ovvero se non compiamo determinate azioni e nei confronti di chi si producano tali conseguenze (A. MARIANI MARINI Deontologia e responsabilità sociale: l’avvocato del minore).

D’altro canto, il nuovo Codice deontologico forense, approvato dal Consiglio Nazionale Forense nella seduta del 31.01.2014, contiene alcune disposizioni che riguardano in maniera specifica il comportamento dell’avvocato in materia familiare e minorile, prevedendo ad esempio (art. 68, co. 4) il divieto assoluto, senza limiti temporali, per l’avvocato che abbia assistito congiuntamente i coniugi, di assistere un coniuge o un convivente della coppia in controversie successive tra i medesimi.

Se questa è la normativasia nell’ambito del diritto canonico che in quello statutariocui l’Avvocato DEVE attenersi (prevedendo anche la sanzione della sospensione dall’esercizio professionale), davvero non si comprende come il Papa abbia potuto invocare la difesa delle coppie da “alcuni avvocati”, appellandosi ora agli obblighi di tipo etico-sociale, ora alla gratuità dell’impegno professionale, forse dimenticando che attraverso l’istituto del gratuito patrocinio, la difesa tecnica viene assicurata anche ai soggetti economicamente disagiati.

Né d’altronde, in nome dell’obbligo di lealtà e correttezza verso il cliente, si può dare ingresso a forme di coercizione della volontà, dissuadendo dalla separazione coppie in crisi che troppo spesso assurgono alle prime pagine della cronaca nera intrafamiliare.

E allora, come membro e parte attiva dell’Ordine degli Avvocati di Roma, dico SI all’apertura verso la famiglia come centro di affetti; SI al rispetto della responsabilità genitoriale ma favorire una serena separazione è sicuramente obbligo dell’avvocato che abbia percepito, nel dispiegarsi della crisi coniugale, il pericolo di un acuirsi delle tensioni.

Difendere il significato di Famiglia ad ogni costo; dissuadere separazioni che possono assurgere a tragedie, non solo non è compito dell’Avvocato (e forse più opportunamente del Ministro del culto che dovrebbe conoscere, attraverso la confessione, l’animo profondo dei fedeli) ma è contrario al principio di lealtà e verità, il tentativo di sopraffazione della volontà altrui e, anzi, l’Avvocato, attraverso gli strumenti raccolti dall’esperienza, ben può e deve favorire un pacifico sgretolarsi del nucleo familiare, sempre tutelando gli interessi degli eventuali soggetti minorenni coinvolti, laddove intravveda il rischio di condotte violente e di maltrattamenti ai danni delle persone più deboli.

La società di oggi è purtroppo caratterizzata sempre più pesantemente dallo sgretolarsi del valore FAMIGLIA: i casi di femminicidio, di pedofilia (e la Chiesa ne conosce non pochi…!!), di stalking sono sempre più numerosi e allora, preoccuparsi di quanto costi una consulenza, piuttosto che affidarsi alla preghiera in Dio, sembra invece tradire il monito di Sant’Agostino ne “Il discorso del Signore sulla Montagna”: Non perché voglio un regalo, ma perché ritengo necessario il merito.

Il cliente non chiede l’offerta dell’Avvocato ma il suo merito.

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ISTITUTI PENITENZIARI: IL PARADISO NEGATO DAL NOSTRO SISTEMA GIUDIZIARIO

ISTITUTI PENITENZIARI: IL PARADISO NEGATO DAL NOSTRO SISTEMA GIUDIZIARIO

“DETENUTA LANCIA PER LE SCALE I FIGLI DI 7 E 19 MESI: UNA SOFFERENZA CHE SI DOVEVA EVITARE”

È di poche ore fa la notizia di intervenuta sospensione dal servizio della Direttrice del carcere femminile di Rebibbia (oltre alla sua vice e al vice comandante di reparto della polizia penitenziaria) dove si è consumato il tragico assassinio della piccola di appena 7 mesi, oltre al fratellino di 19 mesi che ancora combatte per la vita al Bambin Gesù dove è stato sottoposto ad intervento chirurgico per grave trauma cerebrale; entrambi figli di una giovane donna di origine tedesca arrestata lo scorso mese di agosto a Roma per spaccio di stupefacenti.

Mentre le unità investigative continuano il loro lavoro per capire l’entità di eventuali condotte omissive perpetrate all’interno delle mura carcerarie, il destino dei due piccoli bambini ci impone una breve riflessione: non possiamo non chiederci, a prescindere dall’effettivo stato di salute della donna, se l’eventuale sua permanenza in una struttura meno invasiva come il carcere, avrebbe potuto evitare l’accaduto.

La questione involge la tutela che il nostro ordinamento riserva al rapporto fra genitori detenuti e figli minori che già dallo scorso 21.01.2011 con la Legge n. 62 (intitolata Disposizioni in tema di detenute madri) ha novellato l’art. 275, comma 4 del codice di procedura penale, ampliando il novero dei minori beneficiari della tutela, attraverso l’elevazione a 6 anni del limite di età (prima era di tre anni) che comporta il divieto di custodia cautelare in carcere per il genitore, salvo che ricorrano esigenze di eccezionale rilevanza (articolo 1, comma 1). Contestualmente, si è previsto che quando tali eccezionali esigenze siano ravvisate, la carcerazione può avvenire – quindi, se compatibile con le predette esigenze – in istituti a custodia attenuata.

Si tratta di istituti che fanno la loro apparizione per la prima volta in virtu’ del medesimo articolo 1, comma 3, il quale introduce un articolo 285 bis, nel codice di rito, relativo alla “Custodia cautelare in istituto a custodia attenuata per detenute madri” ed il cui tenore è opportuno riportare: “Nelle ipotesi di cui all’articolo 275, comma 4, se la persona da sottoporre a custodia cautelare sia donna incinta o madre di prole di età non superiore a sei anni, ovvero padre, qualora la madre sia deceduta o assolutamente impossibilitata a dare assistenza alla prole, il giudice può disporre la custodia presso un istituto a custodia attenuata per detenute madri, ove le esigenze cautelari di eccezionale rilevanza lo consentano”. L’articolo 1, comma 2 ha poi modificato il testo dell’articolo 284 c.p.p., comma 1, in fine al quale sono state aggiunte le parole “ovvero, ove istituita, da una casa famiglia protetta”

Pertanto, il giudice che ritenga di dover adottare la misura della custodia cautelare in carcere nei confronti del genitore con prole infraseienne non affidabile ad altri non potrà farlo, a meno che le esigenze cautelari non si presentino come di eccezionale rilevanza. Ove non ricorra tale requisito, il giudice dovrà adottare la misura degli arresti domiciliari. Qualora, all’inverso, ritenga sussistenti le esigenze di eccezionale rilevanza, egli sarà chiamato ancora ad un’ulteriore valutazione, avente ad oggetto la compatibilità di quelle peculiari esigenze con la custodia cautelare in istituto a custodia attenuata. Solo se anche quest’ulteriore apprezzamento avrà esito negativo, dovrà essere disposta indefettibilmente la custodia in carcere.

Al riguardo, giova tuttavia rimarcare che il successivo art. 4 della Legge prescrive che dovrà essere il Ministero di Giustizia ad individuare, con proprio decreto – entro 180 gg dall’entrata in vigore della legge – le caratteristiche tipologiche delle case famiglia protette, stipulando anche idonee convenzioni senza nuovi oneri per la finanza pubblica.

In assenza della casa famiglia – e in presenza della latitanza delle Istituzioni (n.d.r.)  – la legge in commento, al suo art. 1, comma 3, ha previsto l’introduzione dell’art. 285 bis c.p.p. che rubricato “Custodia cautelare in istituto a Custodia attenuata per detenute madri” crea una nuova forma di custodia cautelare in carcere per madri (o per padri, se la madre è impossibilitata), proprio in quei casi in cui, pur in presenza di figli di età non superiore a sei anni, esigenze eccezionali impediscano il ricorso a misure cautelari più blande.

Si tratta, nella prassi degli Istituti definiti con l’acronimo ICAM (Istituto a Custodia Attenuata per Detenute Madri) che assicurano un rapporto genitoriale quanto più vicino possibile alla “normalità” con personale qualificato non in divisa, senza sbarre e con camerette colorate e fornite dei comfort per i giovanissimi ospiti.

In Italia purtroppo esiste un’unica struttura siffatta, a Milano, pur dipendente dal carcere del San Vittore, ben lontana da questo e dove i bambini ma anche le madri, in stato di privazione della libertà personale, avvertono meno il peso del ruolo genitoriale da svolgere in una struttura che, per sua stessa natura, non è neanche lontanamente paragonabile ad una casa.

Ricordando le parole proferite dalla giovane donna tedesca (”Non potevo permettere che soffrissero ancora e ho voluto avvicinarli al Paradiso”), ci si viene da chiedere: se quella donna, con i suoi due figli, fosse stata affidata ad una struttura non carceraria – così come prevede la legge – si sarebbe davvero lasciata andare fino al punto di preferire per i suoi figli la morte?

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CORTE DI CASSAZIONE SCONFESSA CORTE EDU

CORTE DI CASSAZIONE SCONFESSA CORTE EDU

CONCORSO ESTERNO IN ASSOCIAZIONE MAFIOSA

NESSUNA ANALOGIA PER LA SENTENZA CEDU CHE DEFINI’ IL CASO CONTRADA

La sentenza n. 36505/2018 depositata lo scorso 30 luglio ha preso posizione in ordine alla effettiva efficacia dei principi espressi dalla Corte Europea dei Diritti Dell’Uomo (di seguito Corte EDU) nella nota Sentenza del 14.04.2015 per il caso Contrada contro Italia.

In particolare, la Suprema Corte è intervenuta nel ricorso proposto da un imputato del reato di concorso esterno in associazione mafiosa, il quale aveva proposto incidente di esecuzione innanzi alla Corte d’Appello di Palermo finalizzato ad ottenere la revoca della sentenza di condanna emessa dalla medesima Corte, a mezzo della quale gli era stata inflitta la pena detentiva di sei anni e otto mesi.

Alla base dell’incidente di esecuzione venivano posti i principi espressi dalla Corte EDU nella richiamata e ben nota sentenza, in forza della quale, per come si era pronunciata la Corte di Strasburgo, il reato di concorso esterno in associazione mafiosa era frutto di un’evoluzione giurisprudenziale (fatto coincidere con la sentenza delle Sezioni unite “Demitry” del 1994) non ancora consolidata all’epoca dei fatti (1979-1988) e che la non sufficiente chiarezza del delitto impediva al ricorrente di conoscere la pena che rischiava.

Di qui l’obbligo per l’Italia – condannata per violazione dell’articolo 7 della CEDU sulla legalità della pena – di cancellare con incidente di esecuzione la sentenza definitiva.

A fronte di tali deduzioni, tuttavia, la Corte di Appello di Palermo aveva rigettato la richiesta del provvedimento revocatorio, in quanto, secondo i Giudici, la Corte EDU non aveva affermato un principio di carattere di generale cui l’Italia doveva “sempre” uniformarsi.

L’imputato ricorreva quindi per la cassazione dell’ordinanza de qua, deducendo che la decisione censurata si fondava su di una lettura disarmonica dei rapporti tra pronunce espresse dalla Corte EDU e l’ordinamento italiano, così come disciplinati dalla Convenzione per la Salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà Fondamentali.

La disarmonia discendeva dal fatto che il giudice dell’esecuzione non aveva tenuto conto del fatto che la Corte EDU, nel caso Contrada, aveva operato una valutazione oggettiva della vicenda processuale sottostante, collegata al solo dato temporale della perpetrazione della condotta illecita, tenuto conto del momento storico in cui la condotta concorsuale si era concretizzata.

Tenuto conto di tali parametri non poteva dubitarsi della piena sovrapponibilità delle condotte delittuose descritte nelle due vicende criminose, tenuto conto del fatto che, in entrambi i casi, i comportamenti criminosi si erano concretizzati prima dell’intervento chiarificatore delle Sezioni Unite (Sentenza n. 33478 del 12.07.2005 Mannino).

La Corte di Cassazione non è, tuttavia, dello stesso avviso, e difatti nel ritenere infondato il ricorso ha escluso la portata generale di quanto affermato a Strasburgo precisando che l’annullamento della sentenza è il risultato dell’applicazione dell’articolo 46 della CEDU in base al quale vige l’obbligo, a carico dello Stato e dei Giudici Italiani, di conformarsi alle decisioni della Corte europea.

Ciò nonostante, la Suprema Corte ha ribadito che la disposizione di cui all’art. 46 CEDU, impone al giudice nazionale di conformarsi alle sentenze definitive della Corte EDU limitatamente al caso di cui si controverte, i cui effetti si estendono sia allo Stato sia alle altre parti coinvolte dalla decisione che tale violazione ha censurato.

Tali conclusioni hanno imposto alla Corte di affermare che i principi affermati nella decisione Contrada non possono essere esportati al di fuori della vicenda processuale tipica, anche perché in contrasto col nostro sistema penale.

La decisione di Strasburgo partiva, infatti, dall’assunto che il reato in questione fosse di origine giurisprudenziale. Un’affermazione che, per la Cassazione, si pone in termini problematici rispetto al modello di legalità formale al quale è ispirato il nostro sistema penale, in cui non solo non è ammissibile alcun reato di “origine giurisprudenziale”, ma la punibilità delle condotte illecite trova il suo fondamento nei principi di legalità e tassatività.

Tali profili di problematicità appaiono accentuati dal fatto che il modello di punibilità del concorso esterno in associazione di tipo mafioso prefigurato dalle Sezioni Unite e richiamato dalla Corte EDU non consente dubbi sulle ragioni che legittimano l’applicazione dell’istituto concorsuale in esame. Occorre infatti considerare che le Sezioni Unite non hanno creato una nuova fattispecie incriminatrice, ma si sono limitate a fornire una ricostruzione sistematica e armonica con il nostro ordinamento, ribadendo che la responsabilità penale, per il contributo fornito dal concorrente esterno a un’associazione di tipo mafioso trae origine dalla consapevolezza di contribuire con il proprio apporto a un’attività illecita svolta in forma associata, di cui conosce obiettivi e struttura, pur senza aderirvi.

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CONCORSO DI COLPA PER NON AVER TENUTO PER MANO IL FIGLIO CHE VIENE TRAVOLTO DA UNA VETTURA

CONCORSO DI COLPA PER NON AVER TENUTO PER MANO IL FIGLIO CHE VIENE TRAVOLTO DA UNA VETTURA

Con la sentenza n. 29505/2018, la quarta sezione penale della Corte di Cassazione, è intervenuta sulla decisione della Corte d’Appello di Messina, la quale nel confermare la sentenza dell’omonimo Tribunale, condannava la stessa ricorrente a otto mesi di reclusione, perché in cooperazione colposa con un automobilista aveva contribuito a cagionare la morte del figlio.

Il caso in esame prende le mosse dalla vicenda occorsa ai danni di un minore di tre anni, il quale, veniva urtato da un’autovettura durante un attraversamento pedonale. In conseguenza dell’urto, il minore riportava lesioni molto gravi al cranio, dalla quali sarebbe, poi, derivata la morte.

Secondo i giudici di primo e secondo grado, la madre del minore è da ritenersi responsabile dei reati di cui agli art. 113 e 589 c. 1e 2 c.p., in quanto – avendo omesso di esercitare la necessaria vigilanza sul figlio, all’atto dell’attraversamento della strada ed in particolare avendo omesso di porre in essere le dovute cautele, come quella di accertarsi previamente che non provenissero veicoli e, soprattutto, quella di tenere per mano il figlio – non impediva il verificarsi dell’evento che aveva l’obbligo giuridico di impedire, ricoprendo la massima posizione di garanzia sulla vittima.

L’imputata ricorreva per la cassazione della sentenza de qua lamentando in primo luogo, violazione di legge e vizio di motivazione circa la ritenuta sussistenza del nesso causale; in secondo luogo rilevava l’intervenuta prescrizione del reato avvenuto in data 1 novembre 2009 e deciso in primo grado solo in data 16 gennaio 2015.

Secondo la Corte di Cassazione il ricorso oggetto di esame, è da ritenersi inammissibile in quanto fondato sugli stessi motivi proposti con l’appello e motivatamente respinti in secondo grado.

A parere della Suprema Corte, l’inammissibilità deriverebbe sia dalla genericità delle doglianze che, solo apparentemente denunciano un errore giuridico, sia dall’insindacabilità delle valutazioni di merito.

Secondo i Giudici della Suprema Corte, infatti, nel caso in esame non può revocarsi in dubbio la ricostruzione operata dalle sentenze di merito, non essendo ammissibile considerare l’incidente occorso al minore durante l’attraversamento stradale causa interruttiva del nesso causale, ma dovendosi, al contrario, considerare l’evento come realizzato in cooperazione colposa con il conducente del veicolo e la madre.

Quanto poi alla rilevata prescrizione del reato, la Corte ha ribadito il principio, già espresso dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 12602/2015, secondo il quale è preclusa la possibilità di rilevare l’estinzione dei reati per prescrizioni nei ricorsi ritenuti inammissibili.

Trattasi, come e’ agevole riscontrare, di uno di quei casi in cui, oltre al danno, la beffa: la perdita di un figlio e’ un evento atroce, qualunque ne sia la causa e, per un genitore – come non ricordare i molteplici casi di “dimenticanza” del minore all’interno della vettura rimasta incustodita in un parcheggio sotto il sole – assumere la consapevolezza di aver concorso a quel tragico evento, e’ la pena peggiore che possa infliggersi.

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INGRESSO DI MIGRANTI SOCCORSI IN ACQUE INTERNAZIONALI:LA RESPONSABILITA’ DEGLI SCAFISTI

INGRESSO DI MIGRANTI SOCCORSI IN ACQUE INTERNAZIONALI:LA RESPONSABILITA’ DEGLI SCAFISTI

Con la sentenza n. 29832/2018 la Corte di Cassazione interviene sul tema in auge alle cronache e relativo al trasporto di migranti clandestini, ed in particolare interviene sul ricorso proposto dal comandante e dal vice comandante di uno scafo, imputati del reato di procurato ingresso illecito di immigrati clandestini, punito in Italia ai sensi dell’art. 12 c. 3 del D.Lgs. 286/1998, per avere effettuato il trasporto dall’Egitto in Italia di 277 cittadini non appartenenti all’Unione Europea.

Alla declaratoria di responsabilità penale, già affermata dal Gip, nell’ambito del giudizio abbreviato di primo grado, ne seguitava la conferma, da parte della Corte d’Appello di Catania in sede di gravame, e la conseguente condanna degli imputati alla pena detentiva di cinque anni e quattro mesi, nonché alla pena pecuniaria di € 2.884,00 di multa per ciascun imputato.

La Corte d’Appello nel confermare la punibilità degli imputati, applicava le aggravanti per aver commesso il fatto in tre o più persone, in relazione a cinque o più persone, di aver esposto a pericolo la vita e l’incolumità dei migranti e di averli sottoposti a trattamenti disumani; escludeva, invece l’aggravante del profitto in quanto gli imputati avevano agito in qualità di traghettatori non organizzatori della traversata.

Gli imputati ricorrevano dunque per la cassazione della sentenza de qua lamentando in primo luogo la carenza di giurisdizione italiana, in quanto l’azione si sarebbe conclusa in acque sovranazionali, allorché, prima del salvataggio da parte della Guardia Costiera, l’imbarcazione sarebbe stata avvicinata da un altro scafo mercantile, disposto a farsi carico del trasporto degli immigrati a Malta, trasporto rifiutato dagli stessi migranti senza alcun intervento attivo da parte degli imputati.

Gli imputati lamentavano altresì, l’erronea applicazione dell’art. 12 D.Lgs. 286/1998, in quanto l’incriminazione delineata da tale disposizione riguarderebbe non la mera condotta di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, ma quella volta a procurare l’ingresso illegale dei migranti.

La Corte di Cassazione, nel ritenere infondato ed inammissibile il ricorso, ha osservato che le questioni giuridiche poste con i motivi di ricorso sono state già tutte affrontate e risolte dalla Corte Territoriale e nessuno degli argomenti addotti è idoneo a superare gli indirizzi già affermati.

D’altro canto, prosegue la Corte, in punto di giurisdizione, la giurisprudenza di legittimità ha ripetutamente affermato che sussiste quella del giudice italiano relativamente al delitto di trasporto di cittadini extra comunitari nella ipotesi in cui i migranti, provenienti dall’estero a bordo di navi “madre”, siano abbandonati in acque internazionali, su natanti inadeguati a raggiungere le coste italiane, allo scopo di provocare l’intervento dei soccorritori che li condurranno in territorio italiano, poiché la condotta di questi ultimi, che operando sotto la copertura della scriminante dello stato di necessità è riconducibile alla figura dell’autore mediato, in quanto conseguente allo stato di pericolo volutamente provocato dai trafficanti.

Gli imputati negano di aver voluto un siffatto esito, proclamandosi indifferenti rispetto a quello che avrebbe potuto essere il luogo dello sbarco, scelto autonomamente dai trasportati, e sostengono che, quand’anche si volesse ritenere la sussistenza del reato, esso si sarebbe perfezionato in acque internazionali, trattandosi di reato a consumazione anticipata.

Anche questa ricostruzione è stata smentita dalla suprema Corte, in quanto, anche nei reati a consumazione anticipata – in cui la condotta di pericolo, già in sé punibile, sia tenuta fuori dal nostro territorio- basta che si verifichino in Italia gli effetti voluti della condotta per potersi validamente radicare la giurisdizione italiana sensi dell’art. 6 c.p.

Quanto poi, alla qualificazione del reato, la tesi secondo la quale gli imputati avrebbero posto in essere una condotta da sussumere nel reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, piuttosto che il più grave reato di procurato ingresso di immigrati clandestini è smentita dalla circostanza per la quale, la fattispecie contestata e da ritenersi non dubitabile, è il trasporto dei migranti, e non già il più generico compimento di “atti diretti a procurarne l’ingresso illegale”, che l’art. 12 d.lgs 286/1998 punisce solo in via residuale.

La Corte quindi conclude affermando il principio per cui:Il solo fatto di aver provocato il soccorso per essere in mezzo al mare con imbarcazione inadeguata e in situazione di sovraffollamento e di condizioni meteo avverse è sufficiente a escludere che l’ingresso illegale sia ascrivibile all’autore mediato del reato, cioé la nave svedese, anziché a coloro che hanno provocato la situazione di emergenza, che in base al diritto del mare obbliga al salvataggio delle persone alla deriva.

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PENSIONE COMUNQUE RICONOSCIUTA DALLA CORTE DI CASSAZIONE AL PROFESSIONISTA CHE NON VERSI INTEGRALMENTE I CONTRIBUTI

PENSIONE COMUNQUE RICONOSCIUTA DALLA CORTE DI CASSAZIONE  AL PROFESSIONISTA CHE NON VERSI INTEGRALMENTE I CONTRIBUTI

Con la Sentenza n. 15643/2018 la Corte di Cassazione giunge ad una importante decisione riguardante tutti gli iscritti alla Cassa previdenziale dei Geometri Professionisti.

Nel caso specifico, un iscritto all’ente di previdenza dei geometri aveva promosso istanza per ottenere il trattamento pensionistico di vecchiaia avendo maturato almeno 30 anni di contributi, a tale richiesta si era, tuttavia, opposta la Cassa di previdenza in quanto aveva riscontrato che per alcune annualità il professionista non aveva versato integralmente i contributi richiesti, e i relativi crediti si erano prescritti.

Al fine di comprendere appieno la vicenda appare utile rammentare che, come stabilito dall’art.2 della legge 773/1982, la pensione di vecchiaia si consegue con almeno 65 anni di età e almeno 30 anni di “effettiva contribuzione alla Cassa in relazione a regolamentare iscrizione all’albo”.

Ed è proprio sul termine “effettivo” che si snoda la questione:

il ricorrente sostiene, infatti, che ai fini dell’ottenimento del trattamento pensionistico, ad essere effettivi e regolamentari debbano essere sia la contribuzione sia l’iscrizione all’albo.

La suprema Corte, invece, è di tutt’altro avviso. I supremi giudici, nel rigettare il ricorso, hanno, infatti, stabilito che l’uso dell’aggettivo “effettiva” riferito alla sola contribuzione, induce ad attribuire ad esso un significato diverso da “regolamentare” impiegato a proposito dell’iscrizione.

Ed invero, la Corte, già in precedenti decisioni, aveva osservato che, in tale norma, il termine effettivo, non può interpretarsi, come tale da esigere che la contribuzione debba essere integrale, in quanto non contiene alcun riferimento alla misura della contribuzione stessa.

Detto aggettivo, invero, introduce un parametro di commisurazione della pensione alla contribuzione effettivamente versata e sancisce, in tal modo, l’esclusione di ogni automatismo delle prestazioni in assenza di contribuzione concretamente versata.

Detto in altri termini, la controversia in esame verte sulla possibilità o meno di riconoscere l’annualità di contribuzione, nella circostanza in cui il professionista abbia omesso di versare in misura integrale il contributo richiesto; e tale questione, secondo la Corte, non può che essere risolta in relazione alla regolamentazione normativa dettata per il riconoscimento e il calcolo della pensione che, appunto, fa leva non sulla integralità della contribuzione bensì sulla effettività della stessa.

Occorre poi considerare, prosegue la Corte, che la stessa L. n. 773/1982 non contiene alcuna previsione che sanzioni con la perdita o la riduzione dell’anzianità contributiva e dell’effettività di iscrizione alla Cassa, il versamento parziale dei contributi, essendo unicamente previsto il versamento di una somma aggiuntiva per il caso in cui l’assicurato non provveda alle comunicazioni obbligatorie sull’ammontare del reddito professionale e sul volume di affari dichiarato ai fini dell’IVA, o effettui una comunicazione infedele.

Peraltro, aggiunge la Corte, tale inconveniente, dovuto alla mancanza nella legge professionale di una disposizione che preveda espressamente l’annullamento della contribuzione versata e della relativa annualità in caso di parziale omissione, è comunque superabile attraverso l’adozione di più rigorosi controlli sulle comunicazioni e sulle dichiarazione inviate agli iscritti, con i mezzi di cui la Cassa stessa dispone e nei limiti temporali fissati dal sistema previdenziale, evidentemente dettati non solo a garanzia dell’ente, cui non possono affidarsi indagini su periodi lontani nel tempo per le oggettive difficoltà degli accertamenti, ma anche a tutela dell’assicurato, al fine di non rendere eccessivamente difficoltosa la prova dell’esattezza delle contribuzioni versate.

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L’OMICIDIO STRADALE E GUIDA IN STATO DI EBBREZZA: DUE FACCE DELLA STESSA MEDAGLIA

omicidio stradale guida in stato di ebrezza
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L’OMICIDIO STRADALE E GUIDA IN STATO DI EBBREZZA: DUE FACCE DELLA STESSA MEDAGLIA

Con la sentenza n. 26857/2018 la Suprema Corte di Cassazione è intervenuta a consolidare l’indirizzo già espresso con la sentenza 2403/2017 a proposito di omicidio stradale commesso in stato di ebbrezza avvenuto in data successiva all’entrata in vigore della legge 41/2016 che ha introdotto nel codice penale gli artt. 589 bis e 590 bis, che appunto puniscono con la reclusione da otto a dodici anni, chiunque, ponendosi alla guida di un veicolo a motore in stato di ebbrezza alcolica o di alterazione psicofisica conseguente all’assunzione di sostanza stupefacenti o psicotrope, cagioni per colpa la morte di una persona.

Nel caso in esame, l’imputato, conducendo in stato di ebbrezza una vettura in autostrada a velocità superiore al consentito, senza tenere la distanza di sicurezza, colto da un colpo di sonno, tamponava la vettura che lo precedeva.

In conseguenza dell’impatto, la vettura tamponata usciva di strada, causando la morte del conducente, nonché provocando gravi lesioni sui soggetti trasportati.

In primo grado, l’imputato era stato ritenuto responsabile di omicidio colposo stradale commesso in stato di ebbrezza alcolica, di lesioni colpose stradali gravi commesse in stato di ebbrezza, ed inoltre di guida in stato di ebbrezza, e di conseguenza condannato, ritenuti i reati commessi in concorso formale ai sensi dell’art. 589 bis co.8, alla pena prevista dall’art. 589 bis co.7 senza attenuanti generiche.

In grado d’appello, i giudici di merito, riformavano parzialmente la sentenza di primo grado riducendo la pena a quella applicata per i reati di omicidio colposo aggravato e lesioni colpose aggravate, e confermando il resto.

L’imputato ricorreva per la Cassazione della sentenza emessa dalla Corte d’appello di Torino lamentando, per quel che è qui di interesse, la violazione della disciplina del reato complesso in cui deve essere sussunto il rapporto tra l’omicidio stradale aggravato previsto dall’art. 589 bis co.4 e la guida in stato d’ebbrezza punita ai sensi dell’art. 186 co.2 lett. B e comma 2 bis del D.lgs n. 285/1992.

Il ricorrente ha evidenziato, infatti, che mentre prima dell’entrata in vigore della l.n. 41/2016 (introduttiva il reato di omicidio stradale), la giurisprudenza, in casi analoghi a quello in esame, riteneva che concorressero il delitto di omicidio colposo e la contravvenzione di guida in stato di ebbrezza, oggi, tale conclusione, deve ritenersi superata atteso che ove si ritenesse che l’omicidio stradale e le lesioni non integrino un’ipotesi di reato complesso con assorbimento della contravvenzione di cui all’art. 186 co. 2 d.lgs. 285/1992, il medesimo fatto storico sarebbe addebitato due volte in violazione del divieto del bis in idem.

La Corte di Cassazione, nell’accogliere parzialmente il ricorso, ha infatti osservato che a seguito dell’entrata in vigore della l.n. 41/2016  con le innovative ed autonome fattispecie dell’omicidio stradale e delle lesioni personali stradali gravi o gravissime, vada abbandonata l’interpretazione per cui, in caso di omicidio colposo aggravato dalla violazione di norme sulla circolazione stradale sussista concorso di reati e non reato complesso, quando detta violazione dia di per sé luogo ad un illecito contravvenzionale e, deve piuttosto affermarsi il nuovo principio di diritto secondo il quale, nel caso in cui si contesti all’imputato di essersi posto alla guida di un veicolo a motore in stato di ebbrezza e di avere in tale stato cagionato per colpa, la morte di una o più persone – ovvero lesioni gravi o gravissime alle stesse- dovrà prendersi atto che la condotta di guida in stato di ebbrezza viene a perdere la propria autonomia in quanto circostanza aggravante dei reati di cui agli artt. 589 bis, e 590 bis, con conseguente necessaria applicazione della disciplina sul reato complesso ai sensi dell’art. 84 co. 1 c.p. ed esclusione dell’applicabilità di quella generale sul concorso di reati.

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PAMELA MASTROPIETRO: UN CADAVERE SEVIZIATO E NESSUN COLPEVOLE

PAMELA MASTROPIETRO: UN CADAVERE SEVIZIATO E NESSUN COLPEVOLE

E’ di poche ore fa la notizia che riporta alle cronache il caso di #Pamela #Mastropietro, la diciottenne uccisa, stuprata e fatta a pezzi a Macerata lo scorso 30 gennaio.
Quello che sappiamo fin qui della triste ed ignobile vicenda occorsa ai danni di questa giovane ragazza, è che Pamela lo scorso 29 gennaio si era allontanata dalla comunità nella Marche dove era ospitata, e che lo scorso 31 gennaio, a seguito di estenuanti ricerche compiute dalle autorità allertate dalla madre della giovane, la stessa Pamela fu ritrovata morta all’interno di due trolley abbandonati in un fosso, nel Maceratese.
E’ così che questo caso di scomparsa diventa un macabro caso di omicidio e da qui, il susseguirsi di indagini.
Le autorità ripercorrono gli ultimi giorni di Pamela: pare che la giovane dopo aver lasciato la comunità presso la quale era ospite abbia incontrato un uomo di 45 anni che le ha proposto denaro in cambio di sesso.
Dopo aver consumato il rapporto l’uomo l’ha accompagnata alla stazione di Piediripa dove la giovane è partita alla volta di #Macerata. Qui gli indizi si disperdono e la ragazza viene appunto ritrovata cadavere nelle campagne di Pollenza, dove quindi si concentrano le indagini.
E’ stata fatta una mappatura di tutte le telecamere della zona, allargando il raggio da Corridonia fino a Pollenza. L’esame delle telecamere ha documentato che almeno fino al 30 mattina la ragazza era viva: le immagini mostrano una persona che segue Pamela poco prima della sua scomparsa, identificato poi in #Innocent #Oseghale di 29 anni, cittadino nigeriano residente a Macerata con un permesso di soggiorno scaduto e precedenti per stupefacenti. Si è così ricostruita la sequenza temporale degli spostamenti della ragazza, fino ad arrivare il martedì mattina, grazie appunto a quelle immagini, a via Spalato 124, nella stessa Macerata.
Qui abitava il nigeriano, il quale, grazie anche alla raccolta di prove testimoniali, è risultato come l’ultima persona che abbia avuto contatti in vita con la povera Pamela, L’accusato ha ammesso di aver seguito Pamela ma ha negato di averla uccisa indicando agli inquirenti il coinvolgimento di altri due immigrati.
Successivamente i tre vengono iscritti nel registro degli indagati con l’accusa di omicidio, occultamento e vilipendio di cadavere.
Viene quindi disposto l’esame autoptico su quel che restava del corpo di Pamela, rivelando che la ragazza non è morta per overdose come si pensava inizialmente, ma per “violenza applicata in condizioni di vitalità”, dimostrata dalla presenza di ferite da arma da taglio inferte alla testa ed al fegato.
Spunta poi l’ipotesi di stupro, accertata dai RIS che hanno rinvenuto tracce di saliva intorno al seno e liquido seminale, da cui deriverà l’accusa di stupro che ha indotto la procura a richiedere, con ricorso al Tribunale del Riesame di Ancona, l’applicazione, nei confronti di Innocent Oseghale, della misura del carcere anche per questa ipotesi di reato.
Ricorso, peraltro, rigettato poche ore fa per assenza di gravi indizi di colpevolezza per sostenere la violenza sessuale.
Ciò che aveva indotto il Procuratore a sostenere la tesi dello stupro quale movente dell’omicidio era stata la “cura maniacale” messa nella pulizia del corpo, tagliato a pezzi e ritrovato all’interno di due trolley abbandonati a Pollenza, che sarebbe stata un segnale della volontà di cancellare le tracce della violenza.
Secondo i giudici del Tribunale del Riesame invece il rapporto sessuale tra i due, accertato dai rilievi del RIS, è stato in sostanza consensuale: il nigeriano non ha ucciso nel contesto di uno stupro, ma perché preso dal panico dopo che Pamela si era sentita male per l’assunzione di eroina in casa.
Solo poche righe per mettere il sigillo a un caso ancora tutto da svelare, e nel quale non possono e non debbono entrare condizionamenti esterni.
Troppo spesso ci si lascia persuadere più che dagli accertamenti peritali, da una ascientifica convinzione che in taluni casi, rasenta la cialtroneria: e’ successo nel caso di #Nicolina #Pacini, quando senza acquisire alcun valido elemento probatorio, degno di essere definito tale, la morte di #Antonio #Di Paola e’ stata repentinamente classificata come suicidio successivo a #omicidio; sta succedendo ora, con Pamela, dove, nonostante la presenza di sostanze biologiche sul corpo disfatto della povera ragazza, si arriva a sostenere che il rapporto sessuale sarebbe stato addirittura consenziente! Qualcuno ha chiesto alla mamma di Pamela se la ragazza era solita avere rapporti sessuali con il primo che le capitava? O forse Pamela conosceva già il suo aguzzino?
Pamela, come tante altre ragazze sfortunate, merita giustizia; la mamma Alessandra ha bisogno di conoscere la verità; cosa è accaduto veramente in quella maledetta notte?
Basta davvero un elemento indiziario per far ritenere l’innocenza di tutti per non essere colpevole nessuno? (E come non ricordare il caso di #Meredith #Kercher….!)

Non vogliamo un colpevole ad ogni costo; ma certo Pamela non si è infilata da sola in quei trolley.

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Assoggettato all’imposizione tributaria Nazionale Italiana anziché a quella Elvetica.

 

Assoggettato all’imposizione tributaria Nazionale Italiana anziché a quella Elvetica.

Con la sentenza n. 13114/2018 la Suprema Corte di Cassazione in composizione Penale, è intervenuta sul ricorso proposto avverso l’ordinanza di sequestro preventivo (dell’importo di euro 2.230.776) emessa dal Tribunale di Ferrara, in sede di riesame, nei confronti di un soggetto cui era stata contestata l’omessa dichiarazione dei redditi per gli anni di imposta 2010- 2013 configurante la fattispecie di reato punita ex art. 5 D.Lgs 74/2000. Assoggettato all’imposizione tributaria Nazionale Italiana anziché a quella Elvetica.
Tale ordinanza era scaturita all’esito di un’accurata indagine che aveva evidenziato vari elementi che hanno portato la Guardia di Finanza a ritenere che il soggetto in questione, nonostante la residenza anagrafica in Svizzera, avesse la sede principale dei propri interessi economici ed affettivi in Italia e pertanto dovesse essere assoggettato all’imposizione tributaria Nazionale anziché a quella Elvetica.
A sostegno dell’introitata azione per la cassazione dell’ordinanza de qua, per quello che è qui di interesse, il ricorrente adduceva la violazione dell’art. 4 della Convenzione Italo-Svizzera che dispone che il paese titolare della pretesa impositiva è quello in cui il contribuente ha la propria residenza, suffragata, nel caso di specie, da attestazioni rilasciate dall’autorità fiscale cantonale elvetica su richiesta delle imprese italiane incaricate dell’esecuzione materiale delle opere del ricorrente nonché da molteplici circostanze fattuali di per sé sufficienti a provare che egli avesse in Svizzera, e non in Italia, la propria residenza e il proprio centro di interessi ed affari.
Ed invero, prosegue il ricorrente, ai fini dell’individuazione della propria residenza e domicilio occorre tenere conto che: il numero degli immobili di cui è titolare in Italia corrisponde a quelli di cui è proprietario in Svizzera, a Parigi e a New York; le società di distribuzione dei suoi prodotti hanno sede in Ginevra e Parigi; che i suoi figli, come egli stesso, sono residenti in Svizzera e che in alcun modo risulta provata la sua dimora abituale in Italia.
In ordine alle deduzioni incorporate nel ricorso, la Suprema Corte ha ribadito che, ai fini delle imposte sui redditi, l’art. 2 T.U.I.R considera residenti le persone che per la maggior parte del periodo di imposta sono iscritte nelle anagrafi della popolazione residente o hanno nello Stato il domicilio o la residenza ai sensi del Codice Civile, mentre sono definiti “non residenti” coloro che non sono iscritti nelle anagrafi della popolazione residente per almeno 183 giorni dell’anno di imposta e che non hanno, ai sensi del Codice Civile né la residenza (dimora abituale) né il domicilio (sede principale di affari e interessi) con espressa precisazione che se manca uno soltanto dei suddetti requisiti, il contribuente viene automaticamente considerato residente.
Ne consegue che l’iscrizione nell’anagrafe dei soggetti residenti in altro Stato non è elemento determinante per escluderne la residenza fiscale in Italia allorché si tratti di soggetto che abbia nel territorio dello Stato la sua dimora abituale ovvero la sede principale dei propri affari ed interessi economici, cosi come delle proprie relazioni personali.
Peraltro, prosegue la Corte, alle medesime conclusioni conduce l’art. 4 della Convenzione tra Italia e Svizzera ratificata con la l. n. 943/1978, il quale, individuando criteri del tutto analoghi a quelli stabiliti dalla legislazione interna, facendo riferimento alle nozioni di domicilio, residenza ovvero a caratteri di analoga natura per la cui definizione rimanda espressamente alla normativa degli Stati contraenti, comunque prevede l’ipotesi in cui lo stesso soggetto possa essere considerato residente da entrambi gli Stati dando in tal modo, implicitamente conto della possibile inconsistenza del dato anagrafico.
Adottando tali criteri, l’ordinanza impugnata ha ritenuto che il ricorrente dovesse ritenersi residente in Italia sulla base del dato fattuale che egli dimori stabilmente in Italia elencando una serie di elementi dai quali desumere che in Italia fosse anche il suo domicilio, atteso che ivi si trova il suo studio di design, ivi si trovano pluralità di conti correnti a lui intestati, ivi utilizza frequentemente sia le carte di credito che la rete autostradale.
Tali dati fattuali, hanno portato gli Ermellini a rigettare il ricorso in quanto il ricorrente ha omesso di contestare i dati fattuali sui quali l’ordinanza si fonda, limitandosi ad incentrare la propria difesa sulla documentazione che avrebbe dovuto dimostrare la propria residenza a Ginevra. Il conseguente rigetto deriva non solo dalla circostanza per la quale la documentazione de qua non è stata prodotta (violando in tal modo il principio di autosufficienza del ricorso), ma altresì dall’assenza di rilevanza della stessa in quanto dalla medesima non emergerebbe l’avvenuto pagamento delle imposte in Svizzera relativamente ai periodi di imposta di cui si contesta, ai sensi dell’art. 5 D.Lgs. 74/2000, l’omessa presentazione delle dichiarazioni dei redditi.

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LA CORTE COSTITUZIONALE FA IL PUNTO CON SENTENZA :NIENTE CARCERE PER CHI RIPORTI UNA PENA FINO A 4 ANNI

LA CORTE COSTITUZIONALE FA IL PUNTO CON SENTENZA :

NIENTE CARCERE PER CHI RIPORTI UNA PENA FINO A 4 ANNI

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Con la Sentenza n. 41/2018 dello scorso 2.3.2018 la Corte Costituzionale si è espressa in ordine alla censura di legittimità costituzionale, in riferimento agli art. 3 e 27 co. 3 della Costituzione, dell’art. 656 comma 5 c.p.p., promosso dal Giudice per le Indagini preliminari del Tribunale di Lecce, nel procedimento penale in cui il  giudice rimettente si era trovato a decidere, in qualità di giudice dell’esecuzione, sulla domanda di sospensione  di un ordine di esecuzione della pena detentiva di tre anni, undici mesi e diciassette giorni di reclusione, che il pubblico ministero aveva emesso, in base all’art. 656, comma 1, c.p.p., privandolo della sospensiva in quanto la pena da scontare eccedeva il limite di tre anni fissato dal quinto comma dello stesso articolo.

La norma oggetto di censura prevede infatti che se la pena detentiva, anche se costituente residuo di maggiore pena, non è superiore a tre anni il pubblico ministero, salvo quanto previsto dai commi 7 e 9, ne sospende l’esecuzione. L’ordine di esecuzione e il decreto di sospensione sono notificati al condannato e al difensore nominato per la fase dell’esecuzione o, in difetto, al difensore che lo ha assistito nella fase del giudizio, con l’avviso che entro trenta giorni può essere presentata istanza, corredata dalle indicazioni e dalla documentazione necessarie, volta ad ottenere la concessione di una delle misure alternative alla detenzione ovvero la Sospensione dell’esecuzione della pena.

Il condannato aveva chiesto al giudice rimettente di dichiarare inefficace l’ordine di esecuzione, sostenendo che avrebbe dovuto essere sospeso nonostante la pena da espiare eccedesse il limite triennale atteso che l’art. 47 comma 3 bis della legge 354/1957 recante misure urgenti in tema di tutela dei diritti fondamentali dei detenuti e di riduzione controllata della popolazione carceraria, consente una particolare forma di affidamento in prova quando la pena detentiva da eseguire non è superiore ai 4 anni.

Stante questo rilievo normativo, secondo il condannato, il limite cui subordinare la sospensione dell’ordine di esecuzione dovrebbe armonizzarsi con tale tetto e ritenersi fissato anch’esso in quattro anni, anziché in tre come prevede la lettera della disposizione censurata.

A questo punto, non potendo il giudice interpretare la disposizione nel senso auspicato dal ricorrente (stante l’univoco tenore letterale della stessa) la questione della sua legittimità costituzionale è stata sottoposta alla Corte, in particolare quanto alla parte in cui la sospensione dell’esecuzione continua a essere prevista quando la pena detentiva da espiare non è superiore a tre anni, anziché a quattro. Ciò in quanto, l’omesso adeguamento del limite quantitativo di pena previsto dalla norma censurata a quello indicato ai fini dell’affidamento in prova allargato determinerebbe un “disallineamento sistematico“, frutto di un “mancato raccordo tra norme“, reputato lesivo anzitutto dell’art. 3 Cost., circostanza questa, che discrimina ingiustificatamente coloro che possono essere ammessi alla misura alternativa in quanto tenuti ad espiare una pena detentiva non superiore a quattro anni, da coloro che, potendo godere dell’affidamento in prova relativo a una pena detentiva non superiore a tre anni, ottengono la sospensione automatica dell’ordine di esecuzione.

Secondo il Gip rimettente, la disposizione censurata sarebbe in contrasto altresì con la finalità rieducativa della pena prevista dall’art. 27 terzo comma della Costituzione in quanto comporta l’ingresso in carcere di chi può godere dell’affidamento in prova allargato.

La Consulta ha ritenuto fondata la questione di legittimità rilevando che l’art. 656 co. 5 ha subito, nel tempo, una serie di correttivi volti proprio a mantenere una sorta di parallelismo del limite previsto per la sospensione dell’ordine di esecuzione e di quello previsto, a favore dei condannati, per chiedere di essere sottoposti a un percorso risocializzante che non includa il trattamento carcerario.

La Corte rileva altresì che, all’indomani dell’introduzione  dell’affidamento in prova per pene da espiare fino a quattro anni di detenzione, non è stata adottata alcuna modificazione del termine indicato dalla disposizione censurata, non essendo ancora stata ancora esercitata la delega legislativa conferita con la legge n. 103/2017 (Modifiche al codice penale, codice di procedura penale e all’ordinamento penitenziario) che ha previsto di fissare, in ogni caso, in quattro anni, il limite di pena che impone la sospensione dell’ordine di esecuzione.

Ciò nonostante, prosegue la consulta, occorre valutare caso per caso se esistano dei fattori (quali ad esempio la pericolosità del reato) che possano prevalere sulla coerenza sistematica e sul parallelismo dei limiti.

Nel caso in esame, la rottura del parallelismo, imputabile al mancato adeguamento della disposizione censurata, appare di particolare gravità perché è proprio il modo con cui la legge ha configurato l’affidamento in prova allargato che reclama, quale corollario, la corrispondente sospensione dell’ordine di esecuzione.

In conclusione, mancando di elevare il termine previsto per sospendere l’ordine di esecuzione della pena detentiva, così da renderlo corrispondente al termine di concessione dell’affidamento in prova allargato, il legislatore non è incorso in un mero difetto di coordinamento, ma ha leso l’art. 3 della Costituzione. Si è infatti derogato al principio del parallelismo senza adeguata ragione giustificatrice, dando luogo a un trattamento normativo differenziato di situazioni da reputarsi uguali, quanto alla finalità intrinseca alla sospensione dell’ordine di esecuzione della pena detentiva e alle garanzie apprestate in ordine alle modalità di incisione della libertà personale del condannato.

Nonostante il diverso parere dell’Avvocatura, la Corte ha quindi ritenuto che il Legislatore, attraverso l’istituto della messa alla prova allargata, abbia inteso equiparare detenuti e liberi ai fini dell’accesso alla misura alternativa, scelta che ben si giustifica, precisa la Consulta, in considerazione dell’obiettivo di deflazionare le carceri, non solo liberando chi le occupa ma anche evitando che vi faccia ingresso chi è libero.

Di qui l’incostituzionalità del 5° comma dell’art. 656 c.p.p. “nella parte in cui prevede che il pubblico ministero sospende l’esecuzione della pena detentiva, anche se costituente residuo di maggior pena, non superiore a tre anni anziché a quattro anni.”

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