CONCORSO DI COLPA PER NON AVER TENUTO PER MANO IL FIGLIO CHE VIENE TRAVOLTO DA UNA VETTURA

CONCORSO DI COLPA PER NON AVER TENUTO PER MANO IL FIGLIO CHE VIENE TRAVOLTO DA UNA VETTURA

Con la sentenza n. 29505/2018, la quarta sezione penale della Corte di Cassazione, è intervenuta sulla decisione della Corte d’Appello di Messina, la quale nel confermare la sentenza dell’omonimo Tribunale, condannava la stessa ricorrente a otto mesi di reclusione, perché in cooperazione colposa con un automobilista aveva contribuito a cagionare la morte del figlio.

Il caso in esame prende le mosse dalla vicenda occorsa ai danni di un minore di tre anni, il quale, veniva urtato da un’autovettura durante un attraversamento pedonale. In conseguenza dell’urto, il minore riportava lesioni molto gravi al cranio, dalla quali sarebbe, poi, derivata la morte.

Secondo i giudici di primo e secondo grado, la madre del minore è da ritenersi responsabile dei reati di cui agli art. 113 e 589 c. 1e 2 c.p., in quanto – avendo omesso di esercitare la necessaria vigilanza sul figlio, all’atto dell’attraversamento della strada ed in particolare avendo omesso di porre in essere le dovute cautele, come quella di accertarsi previamente che non provenissero veicoli e, soprattutto, quella di tenere per mano il figlio – non impediva il verificarsi dell’evento che aveva l’obbligo giuridico di impedire, ricoprendo la massima posizione di garanzia sulla vittima.

L’imputata ricorreva per la cassazione della sentenza de qua lamentando in primo luogo, violazione di legge e vizio di motivazione circa la ritenuta sussistenza del nesso causale; in secondo luogo rilevava l’intervenuta prescrizione del reato avvenuto in data 1 novembre 2009 e deciso in primo grado solo in data 16 gennaio 2015.

Secondo la Corte di Cassazione il ricorso oggetto di esame, è da ritenersi inammissibile in quanto fondato sugli stessi motivi proposti con l’appello e motivatamente respinti in secondo grado.

A parere della Suprema Corte, l’inammissibilità deriverebbe sia dalla genericità delle doglianze che, solo apparentemente denunciano un errore giuridico, sia dall’insindacabilità delle valutazioni di merito.

Secondo i Giudici della Suprema Corte, infatti, nel caso in esame non può revocarsi in dubbio la ricostruzione operata dalle sentenze di merito, non essendo ammissibile considerare l’incidente occorso al minore durante l’attraversamento stradale causa interruttiva del nesso causale, ma dovendosi, al contrario, considerare l’evento come realizzato in cooperazione colposa con il conducente del veicolo e la madre.

Quanto poi alla rilevata prescrizione del reato, la Corte ha ribadito il principio, già espresso dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 12602/2015, secondo il quale è preclusa la possibilità di rilevare l’estinzione dei reati per prescrizioni nei ricorsi ritenuti inammissibili.

Trattasi, come e’ agevole riscontrare, di uno di quei casi in cui, oltre al danno, la beffa: la perdita di un figlio e’ un evento atroce, qualunque ne sia la causa e, per un genitore – come non ricordare i molteplici casi di “dimenticanza” del minore all’interno della vettura rimasta incustodita in un parcheggio sotto il sole – assumere la consapevolezza di aver concorso a quel tragico evento, e’ la pena peggiore che possa infliggersi.

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INCIDENTE AUTO MOTO

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MOTOCICLISTA CORRESPONSABILE SE SORPASSA LE AUTO INCOLONNATE

 

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La pronuncia in commento – emessa dalla Terza Sezione Civile della Corte di Cassazione con ordinanza n. 26805 del 14/11/2017 – chiarisce una questione da sempre dibattuta nel settore del contenzioso dell’infortunistica stradale, oltre a rappresentare, nel non certo secondario ambito relativo alla figura del danno non patrimoniale, un’ulteriore e significativa tappa volta a riaffermarne l’unitarietà.

Il caso concreto portato all’attenzione della Suprema Corte è incentrato sulla richiesta di accertamento della responsabilità nella causazione dei danni subiti da parte di un motociclista coinvolto in un sinistro stradale, il quale, sebbene non avesse oltrepassato la linea divisoria di mezzeria, aveva superato a sinistra le auto incolonnate nel traffico e veniva travolto da un’autovettura che nel medesimo senso di marcia azzardava un’improvvisa, quanto mai repentina, manovra di inversione.

La Cassazione, dunque, con l’intento di porre un freno alla malsana e più che frequente abitudine posta in essere dai motociclisti di superare le auto incolonnate nel traffico dei centri urbani, è giunta a stabilire il concorso di colpa tra i due utenti della strada.

Infatti, anche se si tratta di una norma desueta nelle nostre città, il codice della strada (artt. 143 e 148, comma 11) vieta il sorpasso di veicoli fermi o in lento movimento ai passaggi a livello, ai semafori o per altre cause di congestione della circolazione, quando a tal fine sia necessario spostarsi nella parte della carreggiata destinata al senso opposto di marcia.

Per gli Ermellini, dunque, se da una parte è stata ritenuta indubbia e non contestata la violazione di regole della circolazione stradale da parte dell’automobilista che ha fatto un’inversione di marcia senza porre la dovuta attenzione; dall’altra, tuttavia, è stato riconosciuta altrettanto incontestabile la violazione del codice della strada da parte dello scooterista che transitava sul lato sinistro della corsia di pertinenza nel tentativo di superare le auto incolonnate.

In buona sostanza, i conducenti, siano essi automobilisti o motociclisti, sono tenuti a procedere sul margine destro della strada anche quando la carreggiata è libera e nel caso di incidente stradale potrà essere applicato un concorso di colpa.

Il senso della prima parte della pronuncia in esame è chiaro: poiché è proprio la velocità con cui sfrecciano i motorini che rende spesso difficile accorgersi della loro presenza e, quindi, evitarli, il conducente che non si sia accorto per tempo dello scooter, anche nell’ipotesi come quella del caso di specie di violazione delle norme del codice della strada, ha una responsabilità ridotta.

La Suprema Corte, inoltre, è stata chiamata a pronunciarsi sulla censura mossa dal ricorrente che si doleva del fatto che, nell’operazione di liquidazione, il Giudice del gravame non aveva considerato il danno esistenziale patito dal motociclista.

Nell’accogliere parzialmente la censura, la Suprema Corte ha avuto modo di riconfermare l’unitarietà del danno non patrimoniale, inteso come categoria onnicomprensiva e composta dalle sottocategorie del danno biologico, morale ed esistenziale e, con particolare riguardo a quest’ultima sottocategoria, ha stigmatizzato il tentativo di attribuirle un’autonomia propria.

Ebbene, ripercorrendo il granitico orientamento formatosi sul punto nella giurisprudenza di legittimità, la Corte ha individuato nelle indicazioni dettate dalle note sentenze di S. Martino (SSUU 26972/2008) il perno su cui fondare la propria decisione – la natura unitaria del danno non patrimoniale – che deve essere intesa come unitarietà rispetto alla lesione di qualsiasi interesse costituzionalmente rilevante non suscettibile di valutazione economica. Laddove per natura unitaria deve intendersi che non v’è alcuna diversità nell’accertamento e nella liquidazione del danno causato dal vulnus di un diritto costituzionalmente protetto diverso da quello alla salute, sia esso rappresentato dalla lesione della reputazione, della libertà religiosa o sessuale, della riservatezza, piuttosto che di quella al rapporto parentale.

Ciò detto si specifica ulteriormente che l’unitarietà della figura importa la sua onnicomprensività; il che significa che, nella liquidazione di qualsiasi pregiudizio non patrimoniale, il giudice di merito deve tener conto di tutte le conseguenze che sono derivate dall’evento danno, nessuna esclusa, con il concorrente limite di evitare duplicazioni risarcitorie, attribuendo nomi diversi a pregiudizi identici, e di non oltrepassare una soglia minima di apprezzabilità, onde evitare risarcimenti c.d. bagattellari (e così anche: Cass. n. 4379/2016).

Quello che qui emerge chiaramente – e che la Suprema Corte ancora una volta si affretta a precisare – è che non va attribuita alcun tipo di autonomia alle singole voci del danno non patrimoniale (esistenziale, morale o biologica), dovendo queste essere considerate come componenti meramente descrittive di un’unica categoria, quella del danno non patrimoniale, appunto. Sarà poi il giudice, all’atto della liquidazione, a considerare ogni tipo di pregiudizio subito dalla vittima, c.d. personalizzazione del danno, andando a considerare anche gli aspetti dinamico-relazionali che si sono modificati in conseguenza del fatto illecito.

La Corte affronta, quindi, la questione relativa alle lesioni micro-permanenti, in presenza delle quali non deve escludersi che possano esserci conseguenze rilevanti sulla vita relazionale della vittima, poiché “resta ferma la distinzione concettuale tra sofferenza interiore e incidenza sugli aspetti relazionali della vita del soggetto”.

Ogni vulnus arrecato ad un interesse tutelato dalla carta costituzionale – precisa la Corte – si caratterizza per la sua doppia dimensione del danno relazionale/proiezione esterna dell’essere e del danno morale/interiorizzazione intimistica della sofferenza.

Il riferimento è all’art. 138 Cod. ass. (D.lgs. 206/2005), modificato dall’art. 1, co. 17, L. 04.08.2017, n. 124, dedicato al danno non patrimoniale per lesioni di non lieve entità. Per queste ultime è ammessa una personalizzazione del danno che sfugge da liquidazioni standard, cioè fissate dal legislatore, al fine evidente di contenere i costi sociali derivanti anche dai premi assicurativi, dato che la materia della circolazione stradale (il caso di specie della sentenza in commento) vede la copertura assicurativa non già facoltativa ma obbligatoria.

Tuttavia, si deve tenere fermo il principio secondo il quale, sia per le lesioni di lieve entità che per quelle gravi, il danno non patrimoniale deve comprendere anche gli aspetti esistenziali della vittima.

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LA CONDOTTA DEL PEDONE DIMINUISCE LA RESPONSABILITÀ DELL’AUTOMOBILISTA SOLO SE ASSOLUTAMENTE ECCEZIONALE

LA CONDOTTA DEL PEDONE DIMINUISCE LA RESPONSABILITÀ DELL’AUTOMOBILISTA SOLO SE ASSOLUTAMENTE ECCEZIONALE

La Corte di Cassazione con la sentenza n. 45795 dello scorso 5 ottobre 2017 è tornata ad occuparsi del “ruolo” del pedone in un incidente stradale in cui si trovi coinvolto.

Il ricorso era stato proposto da un imputato condannato sia in primo grado che in appello per aver cagionato, a seguito di impatto, mentre percorreva un tratto di strada ad una velocità superiore a quella consentita, la morte del pedone in fase di attraversamento.

I motivi di impugnazione erano diversi ma, per quanto qui interessa, ci si sofferma sugli ultimi due concernenti la valutazione della percepibilità dell’auto da parte del pedone e della prevedibilità della presenza del pedone da parte del conducente.

Ebbene, gli Ermellini, richiamando un costante orientamento giurisprudenziale in merito, hanno ribadito che in tema di reati commessi con violazione di norme sulla circolazione stradale, il comportamento colposo del pedone investito dal conducente di un veicolo costituisce mera concausa dell’evento lesivo, che non esclude la responsabilità del conducente.

Unica eccezione, potrebbe essere l’ipotesi in cui la condotta del pedone sia da sola sufficiente a determinare l’evento, come nel caso in cui, essa risulti del tutto eccezionale, atipica, non prevista nè prevedibile, cioè quando il conducente si sia trovato, per motivi estranei ad ogni suo obbligo di diligenza, nella oggettiva impossibilità di avvistare il pedone ed osservarne per tempo i movimenti, che risultino attuati in modo rapido, inatteso ed imprevedibile (cfr. Sez. 4 n. 23309 del 29/04/2011, Rv. 250695).

In linea con tale orientamento, la Cassazione ha altresì affermato che il principio di affidamento trova un temperamento nell’opposto principio secondo il quale l’utente della strada è responsabile anche del comportamento imprudente altrui purchè questo rientri nel limite della prevedibilità.

Peraltro, esiste, con riferimento all’ambito della circolazione stradale, una tendenza ad escludere o limitare al massimo la possibilità di fare affidamento sull’altrui correttezza.

In tal senso vanno lette, ad esempio, le pronunce in cui si è affermato che, poiché le norme sulla circolazione stradale impongono severi doveri di prudenza e diligenza (vds art. 141 cds), proprio per fare fronte a situazioni di pericolo, anche quando siano determinate da altrui comportamenti irresponsabili, la fiducia di un conducente nel fatto che altri si attengano alle prescrizioni del legislatore, se mal riposta, costituisce di per sé condotta negligente.

Coerentemente con tale assunto, è stata perciò, ad esempio, confermata l’affermazione di responsabilità in un caso in cui la ricorrente aveva dedotto che, giunta con l’auto in prossimità dell’incrocio a velocità moderata e, comunque, nei limiti della norma e della segnaletica, aveva confidato che l’autista del mezzo che sopraggiungeva arrestasse la sua corsa in ossequio all’obbligo di concedere la precedenza (cfr. Sez. 4, n. 4257 del 28/3/1996, Lado, Rv. 204451).

E, ancora, sulle medesime basi si è affermato, che anche nelle ipotesi in cui il semaforo verde consente la marcia, l’automobilista deve accertarsi della eventuale presenza, anche colpevole, di pedoni che si attardino nell’attraversamento in quanto il conducente favorito dal diritto di precedenza deve comunque non abusarne, non trattandosi di un diritto assoluto e tale da consentire una condotta di guida negligente e pericolosa per gli altri utenti della strada, anche se eventualmente in colpa (Sez. 4, n. 12879 del 18/10/2000, Cerato, Rv. 218473); e che l’obbligo di calcolare le altrui condotte inappropriate deve giungere sino a prevedere che il veicolo che procede in senso contrario possa improvvisamente abbagliare, e che quindi occorre procedere alla strettissima destra in modo da essere in grado, se necessario, di fermarsi immediatamente (Sez. 4, n. 8359 del 19/6/1987, Chini, Rv. 176415).

Nel caso in esame, dunque, la Suprema Corte, ha confermato la conclusione dei giudici di merito (in base alla quale doveva ritenersi del tutto ragionevole, nel caso di specie, la prevedibilità dell’attraversamento del pedone), da ritenersi allineata ai principi sopra richiamati, poichè pienamente supportata dai dati fattuali esposti nella sentenza ed oggettivamente riscontrabili, in base ai quali le caratteristiche del caso concreto (tratto di strada curvilineo, percorso sulla corsia con raggio più ristretto e in orario notturno), imponevano all’agente di contenere la velocità anche al di sotto del limite previsto, peraltro ampiamente superato, per come dimostrato dalle risultanze istruttorie.

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