#Suicidio del #paziente: lo psichiatra risponde di omicidio colposo

Suicidio del paziente: lo psichiatra risponde di omicidio colposo

La Cassazione torna ad occuparsi dei reati omissivi impropri con riferimento alla responsabilità professionale medica.

È stata pubblicata solo ieri la sentenza n. 43476 con cui la quarta sezione penale, confermando la condanna resa dalla Corte d’Appello di Caltanissetta, ha ritenuto colpevole di omicidio colposo, un medico del Servizio Psichiatrico Diagnosi e Cura di San Cataldo dove veniva accompagnata dal marito, una donna già dichiarata affetta da schizofrenia paranoide cronica, per aver ingerito un’intera confezione di Serenase.

Il medico, in base alla ricostruzione dei fatti operata dai Giudici del merito, dopo aver constatato che la paziente, che egli già seguiva da mesi, si presentava tranquilla e con gli occhi aperti, congedava i coniugi e tranquillizzava il marito che invece, si era recato in ospedale già munito del necessario per un eventuale immediato ricovero.

Rientrati a casa, l’uomo lasciava per poche ore la donna che, nel frattempo si era assopita sul letto e rientrando, scopre che la moglie si era lanciata dalla finestra, perdendo la vita.

Contro la sentenza della Corte di Appello ricorreva il medico assumendo violazione di legge e vizio di illogicità e contraddittorietà della motivazione, oltre che travisamento della prova: la Corte territoriale avrebbe cioè, omesso l’indagine causale tra la condotta omessa e il suicidio.

Al riguardo, val la pena rimarcare che nella specie ricorrono i principi sanciti nella nota sentenza a SS.UU. (c.f. Franzese) del 11.09.2002 n. 30328 con particolare riferimento alla categoria dei reati omissivi impropri e allo specifico settore della attività medico-chirurgica.

Sembra opportuno ricordare che i principi di diritto affermati erano i seguenti:

1) Il nesso causale può essere ravvisato quando, alla stregua del giudizio controfattuale condotto sulla base di una generalizzata regola di esperienza o di una legge scientifica – universale o statistica – si accerti che, ipotizzandosi come realizzata dal medico la condotta doverosa impeditiva dell’evento, questo non si sarebbe verificato, ovvero si sarebbe verificato, ma in epoca significativamente posteriore o con minore intensità lesiva.

2) Non è consentito dedurre automaticamente dal coefficiente di probabilità espresso dalla legge statistica la conferma, o meno, dell’ipotesi accusatoria sull’esistenza del nesso causale, poiché il giudice deve verificarne la validità nel caso concreto, sulla base delle circostanze del fatto e dell’evidenza disponibile, così che, all’esito del ragionamento probatorio che abbia altresì escluso l’interferenza di fattori alternativi, risulti giustificata e processualmente certa la conclusione che la condotta omissiva del medico è stata condizione necessaria dell’evento lesivo con “alto o elevato grado di credibilità razionale o probabilità logica”.

3) L’insufficienza, la contraddittorietà, l’incertezza del riscontro probatorio sulla ricostruzione del nesso causale, quindi il ragionevole dubbio, in base all’evidenza disponibile, sulla reale efficacia condizionante della condotta omissiva del medico rispetto ad altri fattori interagenti nella produzione dell’evento lesivo, comportano la neutralizzazione dell’ipotesi prospettata dall’accusa e l’esito assolutorio del giudizio.

Facendo applicazione di tali, pressochè incontrastati principi, gli Ermellini, con la sentenza in commento hanno confermato la posizione di “garanzia” del medico che si estrinseca nell’obbligo di controllo del paziente che assurge, in tal modo a fonte di pericolo, rispetto al quale il garante, ha il dovere di neutralizzare gli effetti lesivi verso terzi e verso sè stessi.

L’imputato d’altronde, proprio perché medico psichiatra che aveva in cura la vittima già da mesi, di cui aveva contribuito a stilare ben 13 cartelle cliniche, non poteva ignorare né lo stato anamnestico della paziente, né la circostanza che il farmaco ingerito, essendo del tipo “aloperidolo” avrebbe sviluppato i suoi effetti dalle due alle sei ore dopo l’assunzione.

L’aver congedato i coniugi, minimizzando sull’accaduto e comunque senza neanche suggerire un controllo presso il vicino pronto soccorso, ovvero tenere la paziente sotto controllo, anche ricorrendo a un ASO (accertamento sanitario obbligatorio), costituisce violazione del dovere di diligenza professionale e, data la prevedibilità del suicidio – per il particolare stato d’animo della paziente che già in passato aveva posto in essere condotte suicidiarie – egli deve essere ritenuto responsabile di non aver impedito il tragico evento.

Tale decisione evidenzia tre profili di particolare interesse.

Il primo riguarda il fondamento dell’obbligo di garanzia in forza del quale il sanitario assume l’obbligo di curare nel modo migliore il paziente e la cui violazione rappresenta la conditio sine qua non della responsabilità a titolo di colpa. Il secondo attiene alla prevedibilità di un evento potenzialmente dannoso per il paziente, tale da imporre al sanitario di mettere in atto qualsiasi attività al fine di evitare il suo verificarsi. Il terzo, concerne, invece, la regola di condotta che deve guidare la valutazione del giudicante sull’accertamento del nesso causale tra la condotta omissiva del sanitario e l’evento dannoso.

Sotto il profilo della prevedibilità dell’evento è ovvio, invece, che il sanitario non sarà ritenuto responsabile nel caso in cui si verifichi un evento eccezionale ai sensi e per gli effetti dell’art. 41comma 2, c.p.

Con riferimento al caso de quo ovvero alla prevedibilità degli effetti nocivi di un farmaco e, quindi, dell’evento dannoso, la Cassazione ha sostenuto che il sanitario che prescrive un medicinale deve tenere adeguatamente in considerazione gli effetti collaterali, se e quando questi sono richiamati come probabili e anche possibili dalla scienza medica e ciò a maggior ragione quando la relativa indicazione è contenuta nel foglio illustrativo allegato alla confezione del farmaco.

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Responsabilità Professionale dell’Avvocato

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L’AVVOCATO RESPONSABILE PER COLPA SOLO SE IL RISULTATO SPERATO ERA ALTAMENTE PROBABILE

Sul sempre attuale tema riguardante la responsabilità professionale dell’Avvocato  si è espressa la sentenza n. 2102/2017 della Corte d’Appello di Milano la quale interviene in secondo grado a dirimere la controversia insorta tra un avvocato e il proprio cliente.

L’Avvocato in questione aveva chiesto e ottenuto dal Tribunale di Sondrio decreto ingiuntivo per il pagamento di prestazioni professionali, cui seguitava opposizione ex art. 645 c.p.c. ritenuta infondata dallo stesso Tribunale di Sondrio.

Avverso detta sentenza di rigetto, proponeva appello il cliente deducendo, per quanto è qui di interesse, l’erronea valutazione del merito della causa con particolare riferimento ai presupposti di esclusione della responsabilità dell’avvocato per inadempimento della propria obbligazione.

In merito appare utile rammentare che il rapporto che si instaura tre l’Avvocato e il Cliente si inserisce nell’ampio spettro dei rapporti contrattuali è – c.d. “contratto di clientela” – che va sussunto nella fattispecie del contratto d’ opera intellettuale disciplinato dagli artt. 2229 e ss. c.c. in virtù del quale sorge in capo al professionista un vincolo giuridico in ordine all’espletamento del suo mandato professionale.

Elementi caratterizzanti del contratto d’opera intellettuale sono:

  1. a) il carattere intellettuale della prestazione, oggetto del contratto infatti va identificato nell’esercizio di un’attività intellettuale;
  2. b) il carattere personale della prestazione (il cliente ha, in forza del rapporto che si instaura con l’avvocato, diritto a che il professionista presti personalmente la propria opera, eventualmente con l’ausilio di sostituti o ausiliari, che operino sempre e comunque sotto la propria responsabilità e direzione);
  3. c) la discrezionalità del prestatore d’opera nell’esecuzione della prestazione;

La prestazione fornita dal professionista è, di regola, una prestazione di mezzi (e non di risultato) in quanto l’attività prestata da quest’ultimo, essendo relativa solo a prestazioni intellettuali, non può essere mirata al raggiungimento di uno scopo come risultato, ma solo al tentativo di raggiungerlo: l’esito di un procedimento giudiziale è in ogni caso influenzato da elementi esterni molte volte imponderabili. Ne consegue che l’inadempimento del professionista, deve essere valutato alla stregua dei doveri inerenti allo svolgimento dell’attività professionale e, in particolare, al dovere di diligenza, per il quale trova applicazione, in luogo del criterio generale della diligenza del buon padre di famiglia, il parametro della diligenza professionale fissato dal comma secondo dell’art. 1176 c.c. a  norma del quale la diligenza dell’esercente un’attività professionale deve essere commisurata alla natura dell’attività esercitata, di modo che il professionista sarà considerato responsabile per il mancato adempimento solo ove si accerti che egli non abbia utilizzato nell’espletamento della sua attività una diligenza pari a quella che ci si possa aspettare da un professionista di medie capacità e preparazione.

Alla luce dei suesposti brevi cenni, si desume chiaramente come la decisione presa dalla Corte d’appello di Milano, nel respingere il gravame, si ponga in linea di continuità non solo con il dato normativo, ma altresì con la ormai costante giurisprudenza di legittimità, secondo la quale in caso di responsabilità professionale trova applicazione l’art. 2236 c.c. – che limita la responsabilità del professionista alle sole ipotesi di colpa grave o dolo – in quelle ipotesi in cui la prestazione oggetto dell’incarico richiede la soluzione di problemi tecnici di particolare difficoltà, che implicano una preparazione professionale superiore alla media. Derivandone, per logica conseguenza, che l’avvocato non è responsabile per il solo fatto di aver commesso un errore o un’omissione nello svolgimento dell’incarico, ma invero “per accertare la responsabilità professionale è necessario che il cliente, dopo aver mosso specifiche censure, dimostri la ragionevole probabilità di un diverso e più favorevole esito in assenza della condotta asseritamente dannosa” (Cass. 22882/2017).

Nel caso di specie, ha osservato la Corte territoriale, poiché non vi è alcuna prova che l’avvocato abbia omesso di tenere in debito conto situazioni, informazioni, atti e documenti che avrebbero consentito un diverso inquadramento della fattispecie, è da escludersi la responsabilità del professionista; ciò in forza degli insegnamenti della Suprema Corte, secondo la quale “in tema di responsabilità dell’ avvocato verso il cliente, è configurabile imperizia allorchè questi ignori o violi precise disposizioni di legge ovvero risolva erroneamente questioni giuridiche prive di margini di opinabilità” dovendo escludersi qualsiasi responsabilità “ in caso di questioni rispetto alle quali le soluzioni dottrinali e giurisprudenziali presentino margini di incertezza, in astratto o con riferimento al caso concreto, tali da ritenere giuridicamente plausibili le scelte difensive compiute” (Cass. 16846/2005)

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