CORTE DI CASSAZIONE SCONFESSA CORTE EDU

CORTE DI CASSAZIONE SCONFESSA CORTE EDU

CONCORSO ESTERNO IN ASSOCIAZIONE MAFIOSA

NESSUNA ANALOGIA PER LA SENTENZA CEDU CHE DEFINI’ IL CASO CONTRADA

La sentenza n. 36505/2018 depositata lo scorso 30 luglio ha preso posizione in ordine alla effettiva efficacia dei principi espressi dalla Corte Europea dei Diritti Dell’Uomo (di seguito Corte EDU) nella nota Sentenza del 14.04.2015 per il caso Contrada contro Italia.

In particolare, la Suprema Corte è intervenuta nel ricorso proposto da un imputato del reato di concorso esterno in associazione mafiosa, il quale aveva proposto incidente di esecuzione innanzi alla Corte d’Appello di Palermo finalizzato ad ottenere la revoca della sentenza di condanna emessa dalla medesima Corte, a mezzo della quale gli era stata inflitta la pena detentiva di sei anni e otto mesi.

Alla base dell’incidente di esecuzione venivano posti i principi espressi dalla Corte EDU nella richiamata e ben nota sentenza, in forza della quale, per come si era pronunciata la Corte di Strasburgo, il reato di concorso esterno in associazione mafiosa era frutto di un’evoluzione giurisprudenziale (fatto coincidere con la sentenza delle Sezioni unite “Demitry” del 1994) non ancora consolidata all’epoca dei fatti (1979-1988) e che la non sufficiente chiarezza del delitto impediva al ricorrente di conoscere la pena che rischiava.

Di qui l’obbligo per l’Italia – condannata per violazione dell’articolo 7 della CEDU sulla legalità della pena – di cancellare con incidente di esecuzione la sentenza definitiva.

A fronte di tali deduzioni, tuttavia, la Corte di Appello di Palermo aveva rigettato la richiesta del provvedimento revocatorio, in quanto, secondo i Giudici, la Corte EDU non aveva affermato un principio di carattere di generale cui l’Italia doveva “sempre” uniformarsi.

L’imputato ricorreva quindi per la cassazione dell’ordinanza de qua, deducendo che la decisione censurata si fondava su di una lettura disarmonica dei rapporti tra pronunce espresse dalla Corte EDU e l’ordinamento italiano, così come disciplinati dalla Convenzione per la Salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà Fondamentali.

La disarmonia discendeva dal fatto che il giudice dell’esecuzione non aveva tenuto conto del fatto che la Corte EDU, nel caso Contrada, aveva operato una valutazione oggettiva della vicenda processuale sottostante, collegata al solo dato temporale della perpetrazione della condotta illecita, tenuto conto del momento storico in cui la condotta concorsuale si era concretizzata.

Tenuto conto di tali parametri non poteva dubitarsi della piena sovrapponibilità delle condotte delittuose descritte nelle due vicende criminose, tenuto conto del fatto che, in entrambi i casi, i comportamenti criminosi si erano concretizzati prima dell’intervento chiarificatore delle Sezioni Unite (Sentenza n. 33478 del 12.07.2005 Mannino).

La Corte di Cassazione non è, tuttavia, dello stesso avviso, e difatti nel ritenere infondato il ricorso ha escluso la portata generale di quanto affermato a Strasburgo precisando che l’annullamento della sentenza è il risultato dell’applicazione dell’articolo 46 della CEDU in base al quale vige l’obbligo, a carico dello Stato e dei Giudici Italiani, di conformarsi alle decisioni della Corte europea.

Ciò nonostante, la Suprema Corte ha ribadito che la disposizione di cui all’art. 46 CEDU, impone al giudice nazionale di conformarsi alle sentenze definitive della Corte EDU limitatamente al caso di cui si controverte, i cui effetti si estendono sia allo Stato sia alle altre parti coinvolte dalla decisione che tale violazione ha censurato.

Tali conclusioni hanno imposto alla Corte di affermare che i principi affermati nella decisione Contrada non possono essere esportati al di fuori della vicenda processuale tipica, anche perché in contrasto col nostro sistema penale.

La decisione di Strasburgo partiva, infatti, dall’assunto che il reato in questione fosse di origine giurisprudenziale. Un’affermazione che, per la Cassazione, si pone in termini problematici rispetto al modello di legalità formale al quale è ispirato il nostro sistema penale, in cui non solo non è ammissibile alcun reato di “origine giurisprudenziale”, ma la punibilità delle condotte illecite trova il suo fondamento nei principi di legalità e tassatività.

Tali profili di problematicità appaiono accentuati dal fatto che il modello di punibilità del concorso esterno in associazione di tipo mafioso prefigurato dalle Sezioni Unite e richiamato dalla Corte EDU non consente dubbi sulle ragioni che legittimano l’applicazione dell’istituto concorsuale in esame. Occorre infatti considerare che le Sezioni Unite non hanno creato una nuova fattispecie incriminatrice, ma si sono limitate a fornire una ricostruzione sistematica e armonica con il nostro ordinamento, ribadendo che la responsabilità penale, per il contributo fornito dal concorrente esterno a un’associazione di tipo mafioso trae origine dalla consapevolezza di contribuire con il proprio apporto a un’attività illecita svolta in forma associata, di cui conosce obiettivi e struttura, pur senza aderirvi.

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VITE SPEZZATE

VITE SPEZZATE

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FEMINICIDIO: PER NON DIMENTICARE

Cessa il fragore, si spengono le luci e il dolore resta!

Resta il rimorso per le parole non dette, per l’abbraccio mancato, per le promesse non mantenute.

Questo resta alle donne che non sentiranno più chiamarsi “mamma”; alle mamme che non vedranno più i loro figli.

Ci si aggrappa alla Giustizia, confidando che il colpevole venga punito e ben presto ci si accorge che basta un cavillo, una dimenticanza e LUI torna libero, libero di fare ancora del male, libero di infliggere ancora sofferenza e atroce dolore. “Una violenza cieca sempre più immotivata e incomprensibile”.

Grazie alla partecipazione di donne –  vittime di atroci delitti che hanno deciso di dire BASTA, l’Avv Gelsomina Cimino sta curando la costituzione di un’Associazione  Nazionale che sia dalla parte delle donne, contro il feminicidio, contro la violenza gratuita e che sappia ascoltare il grido di dolore che si nasconde dietro ad un occhio nero.

Non sarai più sola e quando deciderai di fare il primo passo verso la libertà, troverai esperti sempre pronti, che ti sapranno difendere, consigliare su cosa fare e dove andare.

La violenza sulle donne nel mondo è la forma più pervasiva di violazione dei diritti umani conosciuta oggi, che devasta vite, disgrega comunità e ostacola lo sviluppo.

Sono 6.788.000 le donne che hanno subito violenza almeno una volta nella vita in Italia.

Sono 3.466.000 invece coloro che hanno a che fare con casi di stalking.

Oltre 1 milione e 400 mila donne hanno subito molestie o ricatti sul lavoro.

Dobbiamo gridare al mondo intero: “La donna è uscita dalla costola dell’uomo, non dai piedi perché dovesse essere pestata, né dalla testa per essere superiore, ma dal fianco per essere uguale…un po’ più in basso del braccio per essere protetta e dal lato del cuore per essere Amata” (William Shakespeare)

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Assegno circolare Doppio termine per l’incasso e per il rimborso

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Assegno circolare  Doppio termine per l’incasso e per il rimborso

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Con la Sentenza n. 5889/2018 la Corte di Cassazione è intervenuta sulla questione relativa alla prescrizione del diritto ad ottenere la restituzione delle somme oggetto di un assegno circolare mai riscosso.

Nel caso di specie la ricorrente aveva, invero, richiesto l’emissione, da parte di un istituto di credito bancario, di un assegno circolare a favore della figlia, la quale, tuttavia non provvedeva all’incasso ed anzi ne denunciava lo smarrimento.

Per comprendere appieno la questione, fondamentali sono le tempistiche delle circostanze fattuali portate all’attenzione della magistratura.

Occorre infatti tenere ben presente che l’emissione dell’assegno risale al marzo 2001 mentre, la denuncia di smarrimento è avvenuta nel luglio 2011.

A complicare il quadro probatorio, interveniva nel 2009, il trasferimento, da parte della banca emittente, della metà della somma al fondo depositi “dormienti”, istituito con la l. 266/2005, e relativo fra l’altro (si tratta in verità del Fondo per indennizzare le vittime di frodi finanziarie), agli assegni circolari non riscossi nel termine di prescrizione imposto dalla normativa vigente.

Orbene, la ricorrente, dopo aver tentato invano di riscuotere l’assegno consegnato alla figlia e non riscosso, a fronte del suddetto trasferimento, ricorreva al Tribunale di Torino onde ottenere la restituzione della somma incorporata nell’assegno.

Il ricorso veniva rigettato per carenza di legittimazione ad agire della ricorrente, in quanto il Tribunale ha ritenuto che la sola legittimata ad agire fosse la figlia, beneficiaria dell’assegno.

La mamma ricorreva quindi alla Corte d’Appello di Torino, la quale pur riformando parzialmente la sentenza di primo grado, riconoscendo la legittimazione ad agire della ricorrente, respingeva il ricorso atteso il decorso del termine prescrizionale per riscuotere l’assegno.

Seguitava il ricorso per la cassazione della sentenza de qua, il quale è stato ritenuto fondato da parte della Suprema Corte, che ha, in primo luogo chiarito il quadro normativo di riferimento, richiamando l’art. 2935 c.c., il quale prevede, in generale l’estinzione dei diritti in 10 anni, a decorrere dal giorno in cui il diritto stesso può essere fatto valere, salvo che la legge disponga diversamente.

Per quanto riguarda gli assegni l’art. 84 del R.D. 1736/1933 prevede, con riferimento agli assegni circolari, i quali vanno tenuti nettamente distinti dagli assegni bancari, il termine breve di tre anni per la prescrizione del diritto di azione dei confronti dell’emittente bancario.

In tale quadro normativo si inserisce altresì l’art. 345 ter della L. n. 266/2005, il quale prevede che gli importi degli assegni circolari non riscossi entro il termine di prescrizione del relativo diritto, sono versati al Fondo depositi “dormienti” entro il 31 maggio dell’anno successivo a quello in cui scade il termine di prescrizione, rimanendo, tuttavia impregiudicato il diritto del richiedente l’emissione dell’assegno circolare non riscosso alla restituzione del relativo importo.

Ne deriva quindi che una volta che sia decorso il termine triennale, il beneficiario dell’assegno circolare non può più ottenerne il pagamento, con la conseguenza che colui che ha richiesto tale titolo di credito può ripetere la provvista dal cd. Fondo depositi dormienti, e la relativa azione si prescrive nel termine ordinario decennale, applicando le regole proprie del “mandato” che caratterizza il rapporto fra cliente e Istituto emittente.

Applicando tali principi appare evidente come la ricorrente avesse piena legittimazione ad agire per la restituzione della somma essendo spirato (nel marzo 2004) il termine per la beneficiaria ad incassare l’assegno e non essendo ancora spirato il termine di prescrizione della ricorrente ad ottenere la restituzione della provvista al momento dell’introduzione della causa.

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Utilizzare Facebook e i social per inoltrare messaggi e contenuti offensivi è reato

Utilizzare Facebook e i social per inoltrare messaggi e contenuti offensivi è reato

Con la Sentenza n. 57764/2017, la Corte di Cassazione interviene nuovamente sulla tematica dei social network e sui risvolti penali che possono assumere alcune delle condotte perpetrate su internet.

Il caso di specie: l’imputato era stato condannato alla pena di giustizia ed al risarcimento dei danni in favore della parte civile, in quanto ritenuto colpevole di atti persecutori in danno della stessa.

Il ricorrente lamentava carenza di motivazione nonché violazione di legge per diversi motivi: in primo luogo, i giudici di merito avrebbero fondato il proprio convincimento sulla base delle sole affermazioni della parte offesa senza considerare le circostanze fattuali che avrebbero giustificato la condotta lesiva (ossia la rabbia conseguente alla rivelazione da parte della moglie dell’imputato di avere una relazione extraconiugale).

In secondo luogo, secondo il ricorrente, non risultava provato lo stato d’ansia né il mutamento dello stile di vita della vittima.

In terzo luogo non sarebbe possibile configurare il reato in esame quando la condotta persecutoria sia realizzata attraverso Facebook.

In relazione alle censure mosse dal ricorrente, la Corte, premettendo che le dichiarazioni della persona offesa possono da sole essere poste a fondamento dell’affermazione di responsabilità penale dell’imputato, previa verifica della credibilità soggettiva del dichiarante e dell’attendibilità del racconto, osserva che i giudici di merito hanno compiutamente analizzato le condotte poste in essere dall’imputato e consistite nell’inoltro di sms dal contenuto ingiurioso e minaccioso, nella creazione di un profilo Facebook altamente offensivo nei riguardi della persona offesa e in ripetuti appostamenti e pedinamenti, escludendo che la protrazione delle condotte possa essere riconducibile a un moto rabbia dovuto alla rivelazione della relazione extraconiugale e dando compiuta motivazione delle ragioni per cui tali condotte non erano ascrivibili ad una mera percezione soggettiva della vittima.

Per quanto riguarda, infine, la configurabilità del reato in esame laddove la condotta persecutoria sia realizzata attraverso Facebook, la Corte osserva che la giurisprudenza ammette che messaggi o filmati postati sui social network integrino l’elemento oggettivo del delitto di atti persecutori, in relazione al fatto che  l’attitudine dannosa di tali condotte non è tanto quella di costringere la vittima a subire offese o minacce per via telematica, quanto quella di diffondere fra gli utenti della rete dati, veri o falsi, fortemente dannosi e fonte di inquietudine per la parte offesa. Infatti, nel caso di specie, a nulla rileva la circostanza che la donna poteva ignorare le foto, i video e i commenti semplicemente non accedendo al profilo Facebook, in quanto l’attitudine dannosa è riconducibile alla pubblicizzazione di contenuti, posto peraltro che l’apertura della pagina sul social network rappresenta solo una delle modalità con le quali si è estrinsecata la condotta persecutoria dell’uomo che, in più ha posto in essere un serie di condotte – invio sms e pubblicazione di vari post denigratori a carico della parte offesa – si da provocare  stato d’ansia e mutamento delle abitudini di vita della vittima, tali da integrare il reato contestato.

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Nessuna prestazione personale o patrimoniale può essere imposta se non in base alla legge

L’aumento in bolletta voluto dall’Autorità per l’Energia  è illegittimo

Nessun potere impositivo dunque in capo all’Autorità la cui Deliberazione N°50 del 1 febbraio 2018 deve considerarsi contraria alle norme di rango costituzionale, quali il principio di legalità di cui all’art. 23 Costituzione

Con le Sentenze n. 5619 e 5620 pubblicate entrambe il 30.11.2017, il Consiglio di Stato interviene sulla questione – già lungamente dibattuta presso il TAR Lombardia che aveva affrontato la questione con diverse pronunce emesse tra il 2015 e il 2016 – relativa alla legittimità di diverse deliberazioni dell’Autorità per l’Energia Elettrica il Gas ed il Sistema Idrico (d’ora in poi A.E.E.G.S.I.), con particolare riferimento al “codice di rete tipo per il servizio di trasporto dell’energia elettrica”, nella parte in cui “introduce una nuova disciplina in materia di garanzie per l’accesso al servizio di trasporto, di fatturazione del servizio e dei relativi pagamenti” e “dispone che gli utenti del servizio di trasporto e vendita dell’energia (c.d. “traders”) debbono prestare garanzie alle imprese distributrici di energia elettrica.
La questione concerneva i corrispettivi degli oneri generali del sistema elettrico e alla possibilità che A.E.E.G.S.I. possa imporre ai traders obblighi di garanzia a favore dei soggetti distributori in caso di inadempimento delle obbligazioni gravanti ex lege sui clienti, utenti finali del servizio.
Per una migliore comprensione del thema decidendum, va premesso che “oneri generali di sistema” sono i costi relativi agli incentivi per le fonti rinnovabili e i costi da destinare a finalità sociali, di tutela ambientale e di uso efficiente delle risorse. Sono fissati per legge e, ai sensi dell’art. 39, co. 3, del D.L. 83/2012 vengono fatturati dal Distributore verso il venditore che dovrà riversarli alla Cassa per i Servizi Energetici e Ambientali (CSEA), oltre che alla società Gestore dei servizi Energetici.
Conseguentemente tali oneri generali di sistema si ritrovano inclusi nella bolletta elettrica e vengono parametrati al costo effettivo dell’energia e del servizio reso in favore del consumatore finale: gli interventi di A.E.E.G.S.I. sono stati nel senso di prevedere, a carico dei traders (il soggetto che porta l’energia nelle singole case) e laddove il cliente finale fosse rimasto inadempiente, di fornire garanzie idonee in favore del distributore affinchè quest’ultimo non avesse a risentire della morosità accumulata dai clienti finali.
Calcolando che il debito attuale in circa 1 miliardo di euro (ma la cifra è solo approssimativa),
l’ A.E.E.G.S.I. dopo essersi vista annullare in sede giurisdizionale, le precedenti deliberazioni che volevano tale debito a carico dei Traders, ha adottato una Deliberazione a dir poco sconcertante e certo tale da pesare sulle tasche dei cittadini, per cui tutta la morosità accumulata dal 1° gennaio 2016 sarà posta a carico dei cittadini in regola con i pagamenti!
A fondamento della Delibera (la n. 50 del 1° Febbraio 2018) l’Autorità ha posto l’esigenza di far fronte all’inadempimento dei venditori verso i distributori che tuttavia, hanno provveduto al pagamento verso la Cassa dei Servizi energetici Ambientali di quegli oneri di gestione che, tuttavia, stando alle pronunce della giustizia amministrativa, devono restare a carico degli Utenti Finali.

“Un gioco di parole per salvaguardare i Potenti a spese dei cittadini onesti e rispettosi degli impegni assunti”

Cerchiamo di fare ordine:
il risultato finale di oltre dieci procedimenti aperti presso il TAR Lombardia e culminati presso il Consiglio di Stato, è stato nel senso di precisare che i poteri attribuiti all’Autorità, sono quelli previsti dall’art. 2, co. 12, lett. e) della Legge n. 481/1995stabilisce e aggiorna… le tariffe di base, i parametri e gli altri elementi di riferimento per determinare le tariffe, di cui ai commi 17, 18 e 19, nonché le modalità per il recupero dei costi eventualmente sostenuti nell’interesse generale in modo da assicurare…la realizzazione degli obiettivi generali di carattere sociale, di tutela ambientale e di uso efficiente delle risorse di cui al comma 1 dell’articolo 1″e, soprattutto, ha escluso che l’Autorità, in forza della disposizione richiamata, possa ritenersi autorizzata ad intervenire a gamba tesa sui rapporti contrattuali tra distributore e venditore o tra questi e il cliente finale.
La sentenza del Consiglio di Stato – che pure, nella deliberazione n. 50/18, è stata assurta dall’Autorità, come presupposto fattuale da cui far discendere la “nuova” imposizione a carico dei cittadini – richiamando l’art. 3, comma 10 e 11 del Decreto Legislativo n. 79/99, ha piuttosto ribadito che l’Autorità ha SOLO il potere di individuare gli oneri generali di sistema, con “conseguente adeguamento del corrispettivo” relativo all’accesso e all’uso della rete di trasmissione.
Nessun potere impositivo dunque in capo all’Autorità la cui Deliberazione deve considerarsi contraria alle norme di rango costituzionale, quali il principio di legalità di cui all’art. 23 Costituzione (“Nessuna prestazione personale o patrimoniale può essere imposta se non in base alla legge.”) e norme di estrazione comunitaria che impongono il rispetto dei principi di economicità e ragionevolezza, da considerarsi come principi immanenti alla materia della produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia.
In definitiva, la conclusione cui è pervenuto il Consiglio di Stato, si ribadisce, di segno contrario alle affermazioni contenute nell’ultima Deliberazione di A.E.E.G.S.I., è nel senso di escludere alcun potere impositivo a carico dell’Autorità o di un terzo che non sia espressamente prevista dalla legge (e che si possa essere obbligati a pagare debiti altrui non è previsto da alcuna legge né nazionale né sovranazionale!); e soprattutto, nel dare atto che l’attuale compendio normativo evidenzia il “difetto di una previsione legislativa circa il soggetto che subisce le conseguenze dell’inadempimento dei clienti finali”.
Un vuoto normativo dunque, che impone un intervento del legislatore e non certo un colpo di coda ad opera di un’Autorità Amministrativa Indipendente a tutela dei poteri forti e – come sempre – a discapito dell’anello più debole della filiera.
Procedendo di questo passo, dopo il canone RAI, dopo gli oneri dell’energia, ci si dovrà forse aspettare che il cittadino onesto debba sostenere anche tutti i debiti per tasse non pagate da altri; per canoni di locazione delle case popolari; per sanzioni amministrative e chissà che altro ancora!?
È evidente che ammettere, legittimandolo, un sistema impositivo siffatto, significherebbe stravolgere, anzi, abbattere il sistema di garanzie sotteso alla Carta Costituzionale e alle norme di rango sovranazionale che vogliono il Cittadino al centro del sistema di tutele e guarentigie a difesa della personalità umana.

“Il buon cittadino è quello che non può tollerare nella sua patria un potere che pretende d’essere superiore alle leggi”

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il ristoratore che non indica la presenza di alimenti surgelati sul menù commette il reato di frode

Il ristoratore che non indica la presenza di alimenti surgelati sul menù commette il reato di frode

Con la Sentenza n. 4735/2018 la Corte di Cassazione in materia penale è intervenuta a chiarire cosa effettivamente rischia un ristoratore che ometta di indicare che le pietanze proposte con il menu contengano ingredienti surgelati e non freschi, intervenendo nel giudizio contro un soggetto condannato in primo grado e confermato in appello per il reato di cui all’art. 515 c.p. “frode nell’esercizio del commercio” perché, in qualità di legale rappresentante di una società proprietaria di un ristorante deteneva per la vendita, esclusivamente pesce congelato e compiva atti idonei alla somministrazione agli avventori dell’esercizio commerciale di ristorazione prodotti ittici surgelati in luogo di quelli freschi indicati nel menù”.

Contro le statuizioni della Corte d’Appello di Bologna, l’imputato proponeva ricorso in Cassazione dolendosi, in particolare, della circostanza secondo la quale la Corte avrebbe erroneamente ritenuto sussistente l’ipotesi di reato di tentativo di frode in commercio dalla mera esposizione di immagini ritraenti pietanze dalla quali non si potrebbe dedurre, in assenza di apposita lista, se i prodotti fossero freschi o surgelati, né ricavarne l’indicazione della natura dei prodotti impiegati nella sua preparazione. In sostanza, argomenta il ricorrente, l’immagine pubblicitaria delle pietanze aveva solo valenza “dimostrativa della presentazione del piatto” mentre “è solo con l’inserimento nella lista data agli avventori o posizionata sul tavolo che si manifesta l’intenzione del ristoratore ad offrire quei prodotti”, da cui deriverebbe l’insussistenza del reato contestato.

Secondo la Suprema Corte, tuttavia, il ricorso è manifestamente infondato oltre che inammissibile. Secondo l’indirizzo ormai consolidato della giurisprudenza di legittimità, “il tentativo del reato di cui all’art. 515 c.p. è configurato e si verifica quando l’alienante compie atti idonei diretti in modo non equivoco a consegnare all’acquirente una cosa per un’altra ovvero una cosa, per origine, qualità o quantità diversa da quella pattuita o dichiarata”. Di conseguenza, “costituisce il tentativo del delitto di frode in commercio anche il semplice fatto di non indicare nella lista delle vivande che determinati prodotti sono congelati, giacché il ristoratore ha l’obbligo di dichiarare la qualità della merce offerta ai consumatori“.

Ed invero, già con la Sent. n. 28/2000 le Sezioni Unite avevano superato il contrasto interpretativo presente in giurisprudenza sulla configurabilità del tentativo di frode in commercio, per cui secondo indirizzo ormai consolidato, “se il prodotto viene esposto sui banchi dell’esercizio o comunque offerto al pubblico, la condotta posta in essere dall’esercente l’attività commerciale è idonea ad integrare il tentativo perché dimostra l’intenzione di vendere proprio quel prodotto“.

Inoltre, il menu, o la lista delle vivande, “consegnata agli avventori o sistemata sui tavoli di un ristorante equivale ad una proposta contrattuale nei confronti dei potenziali clienti e manifesta l’intenzione del ristoratore di offrire i prodotti indicati nella lista, dunque, anche la mera disponibilità di alimenti surgelati, non indicati come tali nel menu, nella cucina di un ristorante, configura il tentativo di frode in commercio, indipendentemente dall’inizio di una concreta contrattazione con il singolo avventore“.

In sostanza, conclude la Suprema Corte, i giudici del merito hanno congruamente motivato la responsabilità penale del ricorrente, atteso peraltro che all’interno dell’esercizio commerciale erano presenti esclusivamente provviste congelate. Infine, quanto alle modalità di rappresentazione dell’offerta dei prodotti,”anche l’esposizione di immagini del prodotto offerto, in luogo della sua descrizione nel menù, è idonea a configurare la condotta della fattispecie criminosa, stante la natura diretta a incentivare la consumazione del prodotto“.

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USURA SOS BANCA “UN MONDO ANCORA SOMMERSO E OSCURO”

 

USURA SOS BANCA L’Usura strozza la nostra vita e quella di chi ci sta accanto!

Qualora si riscontrassero illeciti o irregolarità da parte della Banca o Società Finanziarie, non esitare a far elaborare una rigorosa e dettagliata perizia tecnica per quantificare quanto illegittimamente addebitato per usura, anatocismo, interesse, denunciando poi, sia gli aspetti tecnici che legali della contestazione per riottenere anche le somme indebitamente corrisposte.

Lo Studio Legale Cimino fornisce adeguata consulenza ed assistenza legale in materia di usura, anatocismo e contenziosi bancari in genere, per privati ed imprese, sia in ambito stragiudiziale che giudiziale, offrendo un parere preliminare volto ad accertare la presenza di elementi di contestazione che possano dar luogo ad azioni legali.

“L’usura è un mostro purtroppo ancora sommerso che, come un serpente, strangola le sue vittime(Sua Santità Papa Francesco) e i numeri del fenomeno sono impressionanti.

La crisi economica ha trascinato commercianti, impiegati e pensionati nella rete degli strozzini, dal fenomeno non sono immuni neanche le nostre imprese che sono le prede preferite.

La piaga sociale dell’usura persegue un vantaggio economico illecito utilizzando come strumento il prestito di denaro.

La preoccupante condizione economica delle famiglie e aziende italiane è alla base dell’incremento del fenomeno che, oltre a rappresentare un dramma per le vittime, rappresenta anche una grave minaccia per la nostra economia nazionale.

L’usura insomma non riguarda più la singola vittima, ma produce conseguenze negative nel tessuto sociale e nel comparto produttivo e industriale del nostro Paese.

È inaccettabile che il sistema bancario che non “fallisca mai” potendo contare su finanziamenti illimitati al costo dell’1% a spese dei cittadini e che non paghi mai per i turpi “errori finanziari” commessi, disponendo inoltre di privilegi normativi quali le discrezionali segnalazioni alle centrali dei rischi e le unilaterali dichiarazioni di verità e certezza dei propri crediti, che le pongono in posizione di supremazia rispetto a tutti i consumatori, stringendo nella morsa sempre più chi ha bisogno di aiuto.

Oggi conoscere il fenomeno dell’Usura è assai importante per combatterlo e soprattutto per prevenirlo.

Il modo più efficace per combattere l’usura è la prevenzione.

Non esitare a rivolgerti allo Studio Legale Cimino per una consulenza gratuita e per un parere:

l’arma vincente per riequilibrare il rapporto con la propria Banca e per uscire dalla morsa che ti consuma nel silenzio e col silenzio.

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NOTAIO – SEPARAZIONE DEI CONIUGI: NIENTE TASSE SUL TRASFERIMENTO IMMOBILIARE CONTIGUO

SEPARAZIONE DEI CONIUGI: NIENTE TASSE SUL TRASFERIMENTO IMMOBILIARE CONTIGUO

La sentenza n. 2179/2017 pronunciata dalla Commissione Tributaria Regionale per il Lazio,  accoglie l’appello proposto da un Notaio cui era stato contestata, da parte dell’Agenzia dell’Entrate, l’erronea applicazione dell’imposta di registro su un contratto di compravendita immobiliare stipulato da un padre in adempimento degli accordi di separazione, a seguito dei quali egli si era obbligato all’acquisto di un immobile da un soggetto estraneo alla coppia, a favore della moglie e dei figli minorenni, con la formula del contratto a favore di terzo ex art 1411 cc.;il contratto di compravendita prevedeva, infatti, che la moglie divenisse usufruttuaria dell’immobile e che i figli minori se ne riservassero conseguentemente la nuda proprietà.
Nel caso in esame, il notaio aveva registrato il contratto in esenzione da imposte, in applicazione dell’articolo 19, legge 6 marzo 1987, n. 74, secondo cui tutti «gli atti, i documenti ed i provvedimenti relativi al procedimento di scioglimento del matrimonio o di cessazione degli effetti civili del matrimonio, sono esenti dall’imposta di bollo, di registro e da ogni altra tassa».
In primo grado la Commissione Tributaria provinciale di Roma aveva ritenuto erronea l’applicazione dell’esenzione de qua, sia perché il trasferimento dell’immobile era stato posto in essere da un soggetto diverso dal coniuge, sia poiché dall’accordo di separazione omologato non era possibile evincere la natura funzionale di tale atto ai fini della risoluzione della crisi coniugale.
Non è dello stesso avviso la Commissione Tributaria Regionale, la quale in sede d’appello, ribalta totalmente la decisione dei giudici di merito, chiarendo che, come sancito dalla Corte di Cassazione sent. 2111/2016, debba riconoscersi ai sensi dell’art. 19 della legge n. 74/1987, il carattere di negoziazione globale a tutti gli accordi di separazione che, anche attraverso la previsione di trasferimenti mobiliari e immobiliari, siano volti a definire in modo tendenzialmente stabile la crisi coniugale. In quest’ottica a nulla rileva che, nel caso in esame, i venditori fossero persone estranee al nucleo familiare, perché le altre parti del contratto erano i coniugi e i loro figli e perché l’operazione immobiliare era espressamente prevista tra le condizioni della separazione consensuale omologata.
Secondo tale lettura, avallata dalla Corte Costituzionale con sentenza n. 154/1999, la norma di cui all’articolo 19, legge 74/1987 – che, peraltro, fa riferimento genericamente a trasferimenti mobiliari e immobiliari senza specificare che tali trasferimenti debbano riguardare beni già di proprietà di uno o di entrambi i coniugi – deve essere intesa in senso ampio, vale a dire che il trattamento agevolato, nell’intento del legislatore, deve ritenersi ammissibile nella misura in cui l’atto da compiersi sia funzionale e indispensabile ai fini della risoluzione della crisi coniugale. Ciò che rileva per applicare il trattamento fiscale di favore, infatti, è che venga data esecuzione agli accordi assunti nel verbale di separazione consensuale omologato.
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SOS BANCA

SOS BANCA

GLI ISTITUTI DI CREDITO E SOCIETA’ FINANZIARIE DEVONO RESTITUIRE L’ILLECITA CAPITALIZZAZIONE DEGLI INTERESSI ILLEGALMENTE APPLICATI:

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L’anatocismo è il calcolo degli interessi sugli interessi che sono già maturati su una somma dovuta.
Gli interessi passivi maturati non possono produrre altri interessi.
Gli interessi passivi e attivi devono essere calcolati con la stessa periodicità, ossia secondo lo stesso intervallo di tempo.
Le banche devono dare separata evidenza a interessi e capitale

Capire quando si è in presenza di un prestito usurario è molto importante.
Si parla di strozzinaggio e usura bancaria quando viene accertato che il tasso di interesse applicato al finanziamento o al mutuo è più alto rispetto alla soglia degli indici di riferimento stabiliti dalla legge.
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AL GIUDICE AMMINISTRATIVO IL RISARCIMENTO DEL DANNO BIOLOGICO PER IL PUBBLICO IMPIEGO

AL GIUDICE AMMINISTRATIVO IL RISARCIMENTO DEL DANNO BIOLOGICO PER IL PUBBLICO IMPIEGO

 

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Con la sentenza n. 28369/2017 dello scorso 28 novembre a Suprema Corte di Cassazione a Sezioni Unite ha statuito sulla questione del riparto di giurisdizione per le controversie in materia di pubblico impiego intervenendo nella vicenda occorsa ad un dipendente dell’Anas il quale aveva fatto ricorso onde ottenere l’accertamento del proprio diritto ad essere inquadrato nella mansione di “quadro di primo livello con posizione organizzativa ed economica A” ,superiore a quella ricoperta presso l’azienda, oltreché al risarcimento del danno biologico per aver patito un infarto al miocardio causato dal sovraccarico di mansioni e di incarichi.

Tale vicenda era decisa in primo grado dal Tribunale di Campobasso, il quale ritenne accertato che il ricorrente avesse svolto mansioni superiori al proprio inquadramento dal 1975 all’aprile 2002 e per l’effetto condannò l’Anas al pagamento delle differenze retributive ed al risarcimento del danno non patrimoniale da dequalificazione.

Tale decisione fu successivamente impugnata presso la Corte d’Appello di Campobasso la quale, riformò la sentenza del giudice di prime cure, dovendo ritenere il difetto di giurisdizione del giudice ordinario per il periodo anteriore al 26.07.1995, epoca di trasformazione in Ente nazionale per le strade ai sensi del d.lgs. n. 143/94, e di conseguenza, per il resto, rigettare la domanda del lavoratore.

Al fine di meglio comprendere la questione occorre rammentare che in materia di pubblico impiego, successivamente all’assoggettamento di quest’ultimo alle norme di diritto privato e alla contrattazione collettiva, avviata con il D.Lgs. 29/1993, si sono poste notevoli questioni in merito al riparto di competenze tra giudice ordinario e giudice amministrativo. Norma spartiacque in materia è il cosiddetto T.U. in materia di pubblico impiego emanato con il D.Lgs. n. 80/1998, successivamente modificato dal D.Lgs. n. 165 del 2001 il cui art. 63 devolve alla cognizione del Giudice Ordinario, in funzione di giudice del lavoro, tutte le controversie relative ai rapporti di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni.

La successione tra la precedente e la nuova disciplina è regolata, a sua volta, dall’art. 69, comma 7, D.Lgs. 165/2001, ai sensi del quale le controversie relative a questioni attinenti al periodo del rapporto di lavoro anteriore alla data del 30 giugno 1998 restano attribuite alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo.

Ed è qui che si snoda la questione del nostro lavoratore, che vista la decisione della Corte d’appello di Campobasso ricorreva in Cassazione articolando le proprie ragioni in tre motivi a loro volta suddivisi in più punti.

Ed invero il ricorrente contestava, per quanto è qui di interesse, le affermazioni dalla Corte territoriale in ordine alla ritenuta sussistenza del difetto di giurisdizione affermato sulla base del riferimento al dato storico dello svolgimento delle mansioni superiori fino al 26.07.1995, oltre che a quello del danno biologico sofferto per l’infarto occorso nel 1992.

La difesa di parte ricorrente osservava, infatti, che per stabilire la giurisdizione occorre tener conto del principio di legittimità, secondo cui, laddove la pretesa abbia origine da un fatto permanente del datore di lavoro, si deve aver riguardo al momento della realizzazione del fatto dannoso e quindi, a quello della cessazione della permanenza. Ciò posto applicando tale principio alla fattispecie in esame, ne deriverebbe, secondo il ricorrente, che dal momento della cessazione dell’illecito datoriale, avvenuta dopo il 30.06.1998, non poteva non sussistere la giurisdizione dell’autorità giudiziaria ordinaria atteso che a partire da tale data le controversie relative ai rapporti di lavoro alle dipendenze della pubblica amministrazione sono attribuite ex art. 69 comma / del D.lgs m. 165/2001 al giudice ordinario.

Allo stesso modo, secondo il ricorrente si determinerebbe la giurisdizione per quel che concerne il risarcimento del danno biologico da infarto dovendo datare la lesione al momento (3.04.1996) in cui gli venne comunicato il rigetto della richiesta di equo indennizzo.

Da qui discenderebbe – secondo la difesa del ricorrente –  la giurisdizione del giudice ordinario in quanto provvedimento successivo al 26.07.1995 data in cui l’azienda presso cui lavorava fu trasformata in ANAS con la conseguente sottoposizione dei rapporti di lavoro del personale dipendente alla disciplina delle norme di diritto privato e della contrattazione collettiva.

In ordine alle suesposte questioni la Corte ha ritenuto fondato il motivo inerente al difetto di giurisdizione del giudice ordinario in quanto “dando seguito a quanto già affermato dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 20726/2012, si rileva che in tale decisione è stato posto in risalto il concetto di infrazionabilità della giurisdizione nei casi, come il presente, contraddistinti dalla unitarietà della questione di merito dedotta in giudizio, benché ricompresa nel periodo al cui interno si colloca il discrimine temporale del 30.06.1998 tra la giurisdizione del giudice amministrativo e quella del giudice ordinario”.

Ed invero già allora la Suprema Corte aveva espresso, come regola, la giurisdizione del giudice ordinario per ogni questione che riguardi il periodo del rapporto successivo al 30.06.1998 o che parzialmente investa anche il periodo precedente, ove risulti essere sostanzialmente unitaria la fattispecie dedotta in giudizio; lasciando residuare la giurisdizione del giudice amministrativo per le sole questioni che riguardino unicamente il periodo del rapporto compreso entro la data suddetta.

Pertanto, ha osservato la Corte, va dichiarata la giurisdizione del giudice ordinario, atteso che nel caso in esame “ non vi è alcun dubbio sul fatto che la questione posta all’attenzione dei giudice di merito […] era sempre la stessa, trattandosi di verificare per tutto il periodo di causa la fondatezza o meno delle questioni connesse alla richiesta di riconoscimento del diritto all’inquadramento nelle superiori mansioni […] ed alla conseguente richiesta di condanna della datrice di lavoro al pagamento delle relative differenze retributive ed al preteso risarcimento del danno”.

Diverso discorso va invece fatto per quanto attiene la sussistenza della giurisdizione del giudice ordinario in relazione al reclamato risarcimento del danno biologico subito in seguito all’evento patologico subito del 1992. Sul punto la Corte richiama nuovamente una Sezione Unite pregressa (n. 5468/2009) la quale aveva già statuito che nel caso di controversia relativa al rapporto di pubblico impiego per il quale non trova applicazione il d. lgs. 31.03.1998 n. 80, la soluzione della questione del riparto di giurisdizione rispetto ad una domanda di risarcimento danni per la lesione della propria integrità psico-fisica è strettamente subordinata all’accertamento della natura giuridica dell’azione di responsabilità proposta, in quanto, se è fatta valere la responsabilità contrattuale dell’ente datore di lavoro, la cognizione rientra nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, mentre, se è stata dedotta la responsabilità extracontrattuale la giurisdizione spetta al giudice ordinario.

Tuttavia, prosegue la Corte, l’accertamento circa la natura del titolo di responsabilità azionato prescinde dalle qualificazioni operate dall’attore, mentre assume valore decisivo la verifica dei tratti propri dell’elemento materiale dell’illecito, e quindi l’accertamento se il fatto denunciato violi il generale divieto di “neminem laedere” e riguardi, quindi, condotte la cui idoneità lesiva possa esplicarsi indifferentemente nei confronti della generalità dei cittadini come nei confronti dei propri dipendenti, ovvero consegua alla violazione di obblighi specifici che trovino la ragion d’essere nel rapporto di lavoro.

Su tali basi le Sezioni Unite hanno dunque ritenuto di dover confermare, per tale voce di danno, la giurisdizione del giudice amministrativo.

In definitiva, va dichiarata la giurisdizione del giudice ordinario con riferimento alle rivendicate mansioni superiori e alla relativa richiesta di pagamento delle differenze retributive e di risarcimento danni per la lamentata dequalificazione, mentre va confermata la giurisdizione del giudice amministrativo in ordine alla verifica della sussistenza del danno biologico per l’infarto al miocardio occorso nel 1992.

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