TERMOLI MOLISE 2018

Meraviglioso D'Avenia! Definitivo


Tahiti, 1897. Un uomo dipinge senza posa da un mese su un’immensa tela grezza, fatta di sacchi cuciti: è il suo testamento, poi si ammazzerà. Paul Gauguin, fuggito da una Francia falsamente viva, lascia la famiglia e va nel cuore del Pacifico, ma neanche in Polinesia trova il paradiso e l’innocenza in cui sperava. Cambia cielo non anima chi corre per mare: al suo inferno interiore si aggiunge la notizia della morte della figlia Aline, di 8 anni. Così prova a sconfiggere la tenebra con i colori e, come un condannato a morte, dipinge il suo ultimo desiderio, che intitola «Da dove veniamo? Chi siamo? Dove andiamo?»: «Ai due angoli in alto, dipinti in giallo cromo, c’è il titolo a sinistra e la mia firma a destra, come un affresco, guasto agli angoli, applicato su un fondo oro». Era la fine e il fine della sua ricerca artistica ed esistenziale: «Ho trasmesso in questo quadro tutta la mia energia, una così dolorosa passione in circostanze così tremende che la vita ne sgorga fuori direttamente». Il dipinto ruota attorno a una donna che coglie un frutto, ma attorno a lei è rappresentato il tragico evolversi delle stagioni della vita verso la morte: la vita è una grande promessa non mantenuta. Il grandioso quadro non basta a ritrovare la speranza e Paul ingerisce il veleno, ma in quantità tale da vomitare, scampando alla morte che lo coglierà qualche anno dopo, per sifilide. Anche il suo amico Vincent Van Gogh aveva perso la speranza e, sette anni prima, mentre dipingeva nei campi di Auvers-sur-Oise, si era sparato un colpo di pistola. Due anime inquiete e parallele, alla ricerca di una irraggiungibile vita autentica.

Nel quadro di Paul la natura polinesiana resta uno scenario fantastico e l’oro, che esce dai finti angoli, è quello del fondo delle icone: un oltre eterno, ma qui celato e irraggiungibile. Quell’oro ha la stessa origine del giallo dei campi di grano ai quali Van Gogh dedicò i suoi ultimi sforzi: «Ho dipinto tre grandi tele: immense distese di grano sotto cieli tormentati e non ho avuto difficoltà a esprimere la mia tristezza e solitudine», come minaccia il nero volo dei corvi su quei campi. Entrambi cercarono il paradiso, ma non saltò fuori: il cielo restava chiuso e la felicità impossibile. Più costruiamo il paradiso con le nostre forze, più rimaniamo delusi. Quando nella storia l’uomo ha cercato di realizzare il paradiso in terra non ha prodotto che danni, dittature e stermini. La terra non chiede paradisi ma contadini la cui la libertà è l’aratro con cui aprire solchi o ferite nel «campo umano», che può diventare giardino o groviglio, raccolto o carestia, sta a noi scegliere. Come?

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Affido la risposta a una donna che amo: Caterina da Siena. A 31 anni dettò un capolavoro intitolato Dialogo della divina provvidenza (1378), un colloquio intimo con Dio Padre, in un passo del quale, la futura patrona d’Italia, lamentandosi con Lui perché uomini e donne (a partire da lei) sono così imperfetti e fragili, riceve questa risposta: «Ho elargito molti doni e beni, sia spirituali che corporali – dico corporali con riferimento a ciò che è necessario per la vita dell’uomo – distribuendoli tutti in modo così differente che a nessuno toccassero tutti, affinché voi uomini aveste necessariamente occasione di reciproco aiuto. Certo, avrei potuto dotare ogni uomo di tutto ciò che gli fosse necessario, sia per l’anima sia per il corpo, ma Io volli che gli uni avessero bisogno degli altri, e si facessero miei ministri col distribuire agli altri quelle grazie e quei doni che hanno ricevuto da me. Lo voglia o meno, l’uomo non può fare a meno di fare atti d’amore. Ciò mostra come nella mia casa via siano molti compiti attraverso i quali Io non mi aspetto altro che amore».

Trovo queste righe illuminanti per chiunque, credenti o meno. La terra non è un paradiso perduto o mancato, ma una casa in costruzione, in cui ciascuno ha un compito, di cui doni e limiti personali sono le istruzioni. La divina provvidenza non è in un Dio tappabuchi a cui il mondo è venuto male, ma siamo noi stessi, ricchi di doni e di limiti: sono io che decido se mettere al servizio degli altri i doni che ho, o farmi i fatti miei; sono io che decido di chiedere aiuto a chi ha doni che io non ho, senza vergognarmi dei miei limiti. Le relazioni sono generative quando decidiamo di prenderci la responsabilità del destino delle cose e delle persone. A volte qualcuno riesce a dare solo il suo dolore e la sua fragilità, ma anche questi sono doni che invitano a offrire cura. La storia così diventa uno scenario fatto per dare e ricevere, ciascuno nel suo ambito e come può. Per esempio nel mio questo significa mettere al primo posto alunni e colleghi, e scoprire che cosa ciascuno ha di unico da dare e che cosa invece ha bisogno di ricevere. Se non lo si fa le relazioni diventano degenerative, che non vuol dire faticose o difficili (è normale nelle relazioni vere) ma prive di vita, cioè le energie e la gioia si spengono, e arrivano nell’ordine: solitudine, stanchezza, disperazione e distruzione. Tutto sta a noi, ancora una volta.

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