Archivio per : ottobre, 2016

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La Vecchia

No, non mi volto indietro quando la notte chiudo l’auto e rientro in casa. Il silenzio non mi spaventa perché sono in compagnia dei miei pensieri…certo, non sempre in buona compagnia, ma chi può dire di esserlo sempre?

La chiave nella porta deve girare piano o potrei svegliare chi c’è di sopra e allora chi lo sente Dio, se gli sveglio la moglie…TRANQUILLI…non sono pazza, è solo il suo cognome.

Il corridoio è buio, ma a me non serve la luce per arrivare alla porta d’ingresso del mio appartamento…ECCO….ora viene il bello, perché c’è sempre una parte difficile in ogni missione: apro la porta, PIAAAaaaano….ed accendo la luce prima di entrare.

 

“Non urlare, ti prego, non urlare, o mi farai spaventare…”

 

ripeto con insistenza, in quella frazione di secondo che divide buio e luce.

SOSPIRO…godendomi il sollievo del silenzio, quella vecchia pazza dorme ed io mi posso rilassare. Ogni notte vivo nell’ansia che resti ad aspettarmi all’ingresso, avvolta nel buio della sua lucidità, persa in una sola notte.

Ci sono volte in cui penso che dovrei mandarla via, poi se ne sta buona buona per un po’ ed io mi scordo pure di averla in casa.

A volte, invece, si infila di soppiatto in camera mia e fa rumore nell’armadio, lo fa apposta per svegliarmi; per non parlare di quando mi spia mentre faccio la doccia o mi preparo per uscire…ma cosa dovrei fare? Forse è pure colpa mia se lei se ne sta così, intrappolata nella sua malattia, vittima della mia.

Credo voglia vendicarsi di me, forse vuole farmi morire di paura; ECCOLA…mi ha sentita…meglio che mi metta a letto…è vecchia e sorda ma sembra senta solo ciò che non dovrebbe sentire; d’altronde COMARE era e COM’ERA resta, cieca spiona, religiosa bestemmiatrice, moglie di un uomo a cui è bastato uno sguardo per volare via.

Le brucia ancora, eh sì…BRUCIA come il legno di cui sento ancora il rumore.

Invidia il mio fare l’amore e se mi sente sparisce, la gioia che prova nel guardare la avvilisce o forse son io, che quando amo non la lascio entrare, pur ammettendo che mi piace averla complice del mio fare.

Sotto le coperte fingo di dormire, ma ho paura che mi senta pensare, ho paura persino di sognare…forse mi dovrei solo rilassare, in fondo che può mai fare?

Per quanto possa urlare e farmi spaventare, se la TOCCO, si lascia sempre ATTRAVERSARE.

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Il Pescatore di Rose

In questa notte che mi parla da lontano sogno il mio capitano e lo vedo tornare a bordo di quella donna che sfida la mia gelosia. Il risveglio mi lascia il sapore di una speranza viva che io ingoio, conservando la perla di una promessa. Della mia vanità ho fatto una collana che nascondo sotto la divisa dell’ingenuità e che io porto, obbligata dalla mia età.

 

Nel tempio abbandonato da un culto superato, io facevo voti per il mio amato e mi promettevo ad un dio perché lo facesse mio. Pregavo per farmi amare, come lo vedevo fare la notte, quando la sua forza mi portava a scappare e l’innocenza la potevo toccare con carezze rubate a donne fortunate, che la mia fantasia sostituiva a quelle mancate.

Pensavo che una volta cresciuta anche lui mi avrebbe voluta, così proteggevo quel mio segreto mentre imparavo a diventare grande, fra le carezze di chi mi scopriva e quella suora che mi rivestiva.

“I tuoi capelli sono il segno del demonio!”

Che abominio.

E mi insegnava nel sangue a tenere chiuse le gambe, ma io scappavo nel vento del mare e quelle ferite non ancora guarite sotto il sale le sentivo bruciare.

Oggi, nelle forme frastagliate della mia gioventù, lo vedo desiderare la mia virtù e il senso di colpa per volermi amare pesa sulle botte che viene a darmi di notte.

Mia madre mi osserva con gli occhi della sofferenza e un misto di invidia e diffidenza, quando mi vede ballare e sorprende lui a guardare, mentre io gioco a farmi desiderare e fingo di promettere ad un dio dimenticato la mia verginità.

Così, metto su una bilancia le lacrime che verso ad ogni partenza, a cui mia madre risponde con sorrisi invisi e l’ago della verità rimane sempre sospeso a metà, fra la mia voglia di sentirlo morire e la suora che mi vuole guarire. Ogni giorno rimango per ore a parlare con il mare, provando ad ascoltare, per riuscire a sentire la sua voce, e mi sembra più leggero il peso di questa croce, che mi condanna ad amare un uomo ed il suo viaggiare.

 

Ma nel risveglio di questo mattino, con la voce di mia madre, irrompe nella mia vita il sapore della realtà.

 

“Questa volta non tornerà! La Prime Rose affonderà”

 

E mi parla di una punizione divina, di una tempesta vicina che mi avrebbe salvata dalle pene dell’inferno e piange l’unico uomo per cui è giusto dare la vita

 

“Solo Gesù non mi ha mai tradita!”

 

E il cielo si rovescia, nel pianto della sconfitta e nel tremore della collina realizzo che è finita, il suo triste inacidire me l’ha fatto morire. Nella pioggia urlo contro Dio, perché a soffrire sono rimasta solo io. Non c’è riposo al mio sentire disperato e perdo a poco a poco il senso dell’uomo desiderato, insieme al sapore del suo desiderio, del mio cuore questo triste martirio.

 

E non ha più senso ballare e non ha più senso giocare su questa rosa e il mare che ne ha fatto la sua sposa. E ritorno a camminare ai confini della vita, io che sul quel legno usurpato ho trovato la spina che mi ha colpita.

 

Una piccola folla ascolta la storia di un marinaio e della sua dipartita ed il pianto di quelle mogli ha una sola voce, che non posso avvicinare alla mia, per onore di una verità che rimarrà solo mia. I bambini lo guardano rapiti e forse il pianto di oggi diventa quello di domani, per una sorte condivisa, divisa da una madre che smette di rimpiangere un marito e inizia a piangere un figlio; cambiano i nomi ma la sorte è sola ed io con lei nella sfida ad una nuova vita. Cala il sipario sull’ennesimo racconto di morte, il profumo di storia lascia spazio all’odore di pesce, le donne si allontanano perché è tempo di pensare alla vita, mentre io mi avvicino a quell’uomo che assomiglia a mio padre solo se chiudo gli occhi.

 

“Pescatore, ti prego portami via”

 

E scopro che tutto ha un costo e che per navigare bisogna pagare. Così ripenso ai motti di mia madre

 

“Se al cielo vuoi esser gradita, non fare merce della tua vita”

 

Ma la mia recita è finita, la mia innocenza è bella che smarrita. Non ho più bisogno di far credere ad un uomo che la conservo come un dono, così mi vendo per un’altra partita e per un viaggio di coraggio.

 

“Forza cara, che questa è solo la salita”

 

E mentre mi spoglia con avidità e ingordigia aumenta il peso della mia valigia, fatta di sogni, di speranze perdute, di orrori e malattia, la mia

 

“E sì, Confesso padre, perché ho peccato”

 

Nel tradire l’unico uomo che io abbia mai amato.

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Me Dea

La terra ha già asciugato il loro sangue, mentre sulle mie mani ormai rinsecchite, il loro colore non sbiadisce. Il carro del dio mi ha portata nel sole, in alto, a toccare le stelle, ad abbracciare la più grande, avrei voluto essere capace di stringere l’amore, ne ho abbastanza di questa luce, vorrei la profondità della notte che mi ha dato la vita.

Ricordo ancora la corsa disperata a fuggire la mia terra, nelle mani di un uomo che aveva conquistato il mare, sulla nave che leggera solcava le onde disperate, mentre nel blu più profondo vedevo le lacrime di mio padre, e già le mie mani erano sporche di sangue.

Addio fratello, sfogliavo i petali di un fiore oscuro fatto di membra.

Addio fratello mio, un petalo era la tua mano

Addio fratello mio, un altro petalo era la tua gamba

Sul percorso di briciole, nostro padre ti ha raccolto, mentre io ti salutavo fuggendo, sangue del mio sangue, primo martirio d’amore.

Ho toccato l’uomo e ho sussultato, io che mi vestivo da amazzone e facevo pozioni e recitavo incantesimi, io che parlavo alla luna, mentre la notte mi rispondeva, dall’oscurità sentivo una voce familiare, mia madre mi parlava …ora non mi parla più, o forse non la sento, perchè non merito una voce.

Abbiamo fatto l’amore sulla conquista, ti ho detto: “proteggimi” e tu mi hai stretta a te dicendo “Ti amerò”, io amavo un uomo e tu amavi il potere, la gloria, la fama ed ogni donna che non ero io.

Ti servivi di me ma ti voltavi dall’altra parte come il migliore degli assassini, per non avere la colpa dei miei gesti. Ed io, straniera, estranea dell’amore avevo una vita dentro di me, figlia del peccato, dell’esilio, dell’odio più che dell’amore. Che vita…poveri figli, condannati ad una donna che non doveva fare la madre.

Sulle coste di un riparo ho trovato la mia pena, incatenata come un cane, mentre tu cercavi di riconquistare ciò che ti spettava in un’altra terra, lontana dalla tua, vecchia amica, perché le colpe si pagano mio caro e vecchio amore; avrei dovuto convincere te a quel bagno farmacologico.

Cantavano le nozze, cantavano la mia fine, mentre io pregavo la loro, la tua più di tutte le altre.

Ho fatto la guerra alla mia natura amandoti, fino a ritrovarmi in lei nell’abbraccio del sangue che ha strappato da te ogni legame, ogni fortuna, ogni eternità.

Figli, non ricordo più nemmeno il vostro nome, amore, non ricordo più il tuo volto. Il sole mi ha accecato i ricordi più dolorosi.  Non vedo più, non sento più, sono sola nella luce ed è la mia condanna. Voglio la notte, voglio tornare da mia madre, io che sarei dovuta rimanere eternamente figlia, senza desideri, se non quelli altrui che sentivo miei nel silenzio. Avrei dovuto continuare ad ascoltare le voci per non sentire la tua, amore dimenticato.

Posso morire? Portami a casa, notte…spegni la luce e fammi addormentare nel tuo abbraccio, devo forse pentirmi per ciò che ho fatto? Aspetti questo dio? Io del pentimento ne ho fatto preghiera di morte, pregherò per me ora.

Lasciami sola, battito. Lasciami andare amore.

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Senza Cornice

La sua pelle parlava un’altra lingua, diversa dalla mia, diversa persino da quella che parlavamo per capirci, anche se la lingua del piacere, quella era la stessa.

Nella pelle aveva colorato il suo destino, schiavo del mio candore, che ancora una volta, forse, aveva sbagliato epoca. Gli occhi erano tagliati su misura di un segreto, mentre la bocca aveva la misura dell’amore. Le sue mani erano un ossimoro, elegantemente grandi per fare del corpo un’arte da riguardare. I suoi vestiti, un tempo, erano stati nuovi ed avevano avuto il profumo della commissione ed il sapore che sembrava quello del successo, per come gliel’avevano descritto. Se l’avessi incontrato per strada, senza la sua tela, avrei giurato che si occupasse della sicurezza del mulino, perché mi sembrava il giusto gorilla per quello zoo di ormoni. Ma lui il mulino lo sognava da bambino, aspettando di essere abbastanza uomo per entrarvi; si diceva che ci sarebbe andato un giorno con suo padre, ma la nave se lo era portato via, con il mio, su un diverso mare.

Non sapevo nulla di sua madre, ma nelle sue lacrime di solitudine l’avevo conosciuta, sola e perduta in un amore che le aveva svuotato il cuore e riempito il grembo e così, nelle notti in cui il pittore distruggeva le tele ed urlava il suo abbandono, piangeva due donne in una sola, e mentre lo chiamavo in un bagno di piacere, urlando:

 

“Jean Philippe…”

 

lui mi stringeva in silenzio, pensando:

 

“mamma…”

 

Salire sul monte era la sua aspirazione, ma una volta in cima, l’aria si era fatta più difficile da respirare e la caduta, dolce tentazione, si era trasformata in un Rembrandt che gli aveva mostrato il vero volto disperato di una città, dietro ad una maschera verde d’assenzio e profumata di vita i cui organi interni erano andati a male.

Jean mi guardava passare, ogni giorno, mettendo da parte la fame ed i soldi per potermi comprare ed io, che sapevo vendermi meglio dei suoi quadri, lo avrei lasciato sulla porta di quella casa in cui non l’avrei mai fatto entrare, perché un giorno di primavera ho deciso che un pittore era l’unica cosa che mi restava da comprare.

Potevo avere tutto, io che degli uomini prendevo il frutto e mai il peccato, io che li aspettavo nella mia camera e poi vi uscivo a cena per essere una donna vera, non solo la chimera di un sogno erotico rincorso e comprato senza fare la fatica di risolvere alcun enigma. Volevo che mi ritraesse, per poter buttare gli specchi, perché le creme non bastavano e non mi bastava il tempo…già, il tempo, quello non mi è proprio bastato.

 

La stanza in cui lui viveva, dipingeva, distruggeva e ricostruiva era pagata dal mio corpo, quello stesso corpo che lui prendeva, sfiniva, sfondava, segnava e sul quale moriva. Diceva di amarmi, mi chiedeva di smettere, di vivere con lui d’amore e d’arte, poveri, su un letto sfatto, in un appartamento sfitto, abusivi di quella vita di cui io stessa abusavo. Ci ferivamo, come fanno gli amanti, e ci tenevamo, con le unghie e con i denti, come ci si aggrappa alla vita, ma la mia era stretta, così sottile da correre sul filo del pericolo, così pesante da dover rendere il mio corpo leggero, per camminare in equilibrio.

E mi chiamava amore e mi chiamava puttana, in quelle notti malate in cui mi pregava di non uscire, per passare agli schiaffi, convinto che qualche segno mi avrebbe fermata. Ma chi mi fermava? Passavo ore a truccarmi, a rendermi bella e con la cipria coprivo i segni per tornare innocente e farmi scoprire da nuove mani che avrebbero pagato per rincorrersi su di me. Poi tornavo da lui e ritornavo io, libera di ballare, di ridere e viaggiare, portandolo con me in una terra di ricordi, in un uomo che mi ha lasciato, in un’isola stretta dalla quale volavo via, con una madre arida ed inacidita più del vino che imbottigliava.

In quei momenti potevamo dire di essere felici, ma la vita non la si può chiudere fuori dalle finestre e un giorno Jean si ammalò di sospetto: pensava che me ne sarei andata con il Marchese, lasciandolo solo con le sue cornici vuote, che l’ avrei amato e ancor di più, che gli sarei stata fedele.

E in una notte ha rincorso i suoi sintomi, per poterli curare, giù da quelle scale, senza pensare a ritornare. E’ bastato un attimo per avere le mani sporche e non più solo di colore; la sua anima aveva preso lo stesso colore della sua pelle e quanta fatica avrebbe dovuto fare per poterla sbiancare, ma ci avrebbe pensato poi, perché prima doveva pensare a scappare.

 

Un uomo che scappa ritorna sempre a casa e così aveva fatto anche Jean, ritornando in quell’appartamento che sapeva di noi. Il tempo delle fragole e dello Champagne era finito, Dio ci aveva punito, perché il peccato iniziava a pesare su entrambi, e allora la notte si faticava a respirare, si tossiva e si sputava sangue.

 

“Je suis malade….”

 

E il sonno mi ha portata via, in fretta, senza nemmeno avere il tempo di dire addio, Oh Dio, addio a chi? Che nemmeno avevo avuto la forza di dirgli che l’amavo. Ho lasciato Jean solo con un cadavere che profumava di un solo amore e puzzava di usura, ma che lui amava a tal punto da prendersi in giro, dipingendolo ancora nelle notti in cui l’aria si respirava e in una di quelle notti, soffrendo e firmando nel sangue la sua tela, mi ha raggiunta, giù da un’altra scala che non portava più ad un lampione ma che sapeva di disperazione. L’ho guardato ed in silenzio l’ ho preso per mano, dicendogli:

 

“Andiamo amore mio che l’Inferno ci aspetta…”

 

E nel preambolo della desolazione, mi ha sorriso d’eterno amore.

Questa è la storia del mio pittore, del nostro malato amore e di un quadro mai finito, sporco di sangue, vernice e che non ha mai trovato la sua cornice.

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D’oro e D’io

Maestoso sfarzo, d’oro e d’estate luceva il suo vestito, l’arma sublime d’immortale respiro raccoglieva nel sangue il potere del dio.

Costruitegli un tempio per poterlo adorare, voi, piccoli servitori, che lo vestite come si fa di una statua, scolpitegli addosso la potenza che si legge nel suo sguardo, accarezzate l’ego che gli imbottite fra le gambe e tenete fuori le donne che la sventura si deve cacciare insieme alle gonne.

 Si sentono le urla lontane che sembran preghiere ed il dio vestito scende dal suo piedistallo per andare a battagliare col titano.

Uno sguardo al cielo, le mani a segnare la croce e una preghiera a Lui, perché c’è sempre qualcuno più in alto da supplicare.

Il sole lo bacia ed il riflesso accecante sui suoi vestiti incanta la folla che grida, gioisce ed eccitata applaude la sua danza.

Guardatelo scendere dal suo carro dorato e Giove gli bacia i piedi, perché Pablo non corre dietro ad una giovenca, ma di un toro sfida la potenza.

 La polvere si solleva ad ogni alito di vento e brucia d’invidia, come chi vuole colpirlo; il titano entra ed il dio lo guarda, lasciandosi alle spalle l’animale cornuto che ha sposato per far felice sua madre.

Dolores lo chiama nel silenzio, ma ormai non si aspetta più risposta. E mentre la moglie piange nel cuore, trafitta dal solito dolore, Pablo solleva lo sguardo in cerca di lei; un gesto fra i due e la dedica di sangue è la sua mano tra le gambe, sotto la gonna sporca di peccato e pesante di piacere.

Ora è l’unica, non vi è altra donna e la battaglia si fa per lei. Che si aprano le quinte dal suo mantello rosso, che siano fianchi e flamenco e che sia la spada a dirigere l’orchestra su questo palco di terra.

magia.

sfida.

 

Maria non sa quanto Pablo di lei sia in balìa, quanto quegli occhi neri siano palpito d’amore, perchè la bocca di lui resta cucita sul cuore, aperta solo sulle porte del piacere.

 

“Non avrai altro Dio all’infuori di me…”

 

le sussurra all’orecchio, la notte, morendo tra le sue gambe.

 

E tu, piccola Maria Che ti condanni a  questa triste danza di amplessi ed abbandoni, tu, che vorresti il figlio di Dio, tu donna segreta , prega….quel dio e Maria, che blasfemia.

 

“Odio le tue donne…”

 

gli aveva detto lei più volte, stringendolo, sfinita da un amore infinito.

 

“Odio tua moglie…l’unica vacca tra i tuoi tori…”

 

gli diceva spesso, con una faccia da schiaffi che Pablo baciava di desiderio e sorrisi.

 

“Basta è finita!Voglio essere l’unica!!”

 

E lui l’avrebbe incatenata nel suo odore.

Quante volte aveva dovuto fermare il suo istinto, mentre sul punto di morire, pensava ad una vita con lei e dentro di lei.

 

Il grido del toro tiene Pablo nella cornice dell’arena, tra le ovazioni e le richieste di tributo di sangue fatte dai sudditi…come cambiano i tempi.

Anche il sole ha abbassato ormai la testa, i riflessi diventano lame, colpiscono gli occhi e non gli lasciano vedere il pericolo che si insinua a fendenti.

 

Il toro punta rosso, mentre a Pablo resta il nero e in un istante le scommesse di una vita perdono senso a battaglia finita, l’ultimo segnale rimane sulle dita, solo la Morte non verrà tradita.

 

Non ci è dato sapere dei pensieri che hanno afflitto il toreador in quegli ultimi istanti; A chi avrà pensato? Di quale donna avrà rimpianto l’ultimo bacio? E se lo shock non gli avesse dato nemmeno il permesso di morire pensando?

A noi restano le parole ufficiali della signora che sedeva in tribuna, al posto d’onore, e che vestita a lutto piange il suo ruolo di donna, cornuta, ma moglie ufficialmente voluta.

Così, mentre lei  versa lacrime che sembra estrarre da un serbatoio del quale ci si chiede se esista una fine e di nascosto, si dice, si lasci baciare dal sole, io vado da Maria, che ogni notte torna al suo personale sepolcro, vestita solo di “vorrei”.

La guardo ballare e la vedo sognare, su quel rilievo quasi impercettibile che si sfiora a passo di danza e se qualcuno le chiede di Pablo, Maria risponde che è partito e che non vede l’ora di vederlo tornare.