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Ascari: I Leoni d' Eritrea. Coraggio, Fedeltà, Onore. Tributo al Valore degli Ascari Eritrei.

 

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L'Ascaro del cimitero d'Asmara.

Sessant’anni fa gli avevano dato una divisa kaki, il moschetto ‘91, un tarbush rosso fiammante calcato in testa, tanto poco marziale da sembrare uscito dal magazzino di un trovarobe.
Ha giurato in nome di un’Italia che non esiste più, per un re che è ormai da un pezzo sui libri di storia. Ma non importa: perché la fedeltà è un nodo strano, contorto, indecifrabile. Adesso il vecchio Ghelssechidam è curvato dalla mano del tempo......

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Lutto Aprile 2009. Terremoto Abruzzo.

Post n°249 pubblicato il 08 Aprile 2009 da wrnzla

Aprile 2009. Terremoto Abruzzo.

Condolianze alla vittime, ai loro famigliari e a quanti sono stati colpiti dal terremoto.

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ON HOLD

Post n°248 pubblicato il 30 Marzo 2009 da wrnzla

ON HOLD

 
 
 

Controstoria. Etiopia tra miti, leggende.... e finzione.

Post n°247 pubblicato il 27 Marzo 2009 da wrnzla

Controstoria - L’Etiopia e i gas asfissianti
Tratto da: http://ricordare.wordpress.com
Rif. Indice Generale - pag.82

La ricostruzione e’ fatta dal generale Alberto Rovighi, incaricato dall’ ufficio storico dello Stato Maggiore, ed e’ stata pubblicata ieri sulle pagine del quotidiano “Il Messaggero” di Roma.

Si cominciò con “lanci di iprite” . sostiene il militare . sugli itinerari che portavano ai guadi di Tacazze’ . “Localita’ e numero delle bombe sono riportati nel diario storico del comando di Badoglio” . scrive Rovighi .
“Le nostre truppe, schierate a difesa a quasi un centinaio di chilometri di distanza, non ebbero alcun sentore dell’ impiego del gas“.

“Il generale Rovighi dice la veritaà . I gas erano nei nostri magazzini. Furono sicuramente usati qualche volta. Ma il loro impiego non e’ stato determinante per la nostra vittoria. Noi ufficiali subalterni delle truppe avanzate comunque non ce ne siamo mai accorti“, dice Indro Montanelli, all’ epoca ufficiale in Etiopia, che non contraddice, nelle sue conclusioni, il racconto del generale Alberto Rovighi.
“Gli ufficiali non volevano impiegarle perche’ avevano paura che i nostri soldati, scalzi, passando sui terreni bombardati col gas si sarebbero potuti piagare“.
Il giornalista racconta che solo una volta giunse la notizia che sull’ altro fronte gli abissini “avevano fatto a pezzi un aviatore italiano e per rappresaglia vennero impiegate delle bombe con i gas“.

E di questo episodio parla anche Rovighi.

Lo storico militare ricorda date e battaglie combattute con i gas (seppure “l’ impiego difficile e gli scarsi risultati anche per la ridotta persistenza del gas alle temperature elevate e la dispersione degli avversari sconsigliarono l’ uso“) arrivando a concludere che l’ impiego fu propagandato dalla stampa e dai capi etiopici ma che la vittoria fu “essenzialmente assicurata da un migliore armamento e da uno sforzo logistico di grandi dimensioni“
(2 novembre 1995) - Corriere della Sera

La testimonianza di Indro Montanelli
“Dopo qualche giorno Badoglio capitò sul mio avamposto, a Mai Agulà. Ci arrivò a dorso di mulo, seguito da due Ascari a piedi, non volle i regolari squilli di trombe, ma solo vedere come avevo disposto le mie povere tre mitragliatrici Breda, me ne fece cambiare la disposizione spiegandone il perché. Dopo circa tre mesi arrivarono le strade costruite dai soldati bianchi in funzione di stradini. Con le strade arrivarono i camion coi rifornimenti, lo schieramento si mise in movimento, e Badoglio con tre spallate annientò quello avversario. Fu dopo tanti anni che sentii parlare di gas, l’iprite, con cui avremmo avvelenato le acque del Lago Ascianghi. Sull’Ascianghi io fui, data la straordinaria mobilità degli Ascari, uno dei primi ad arrivare, ne bevvi l’acqua, ci feci per tre giorni il mio bagno (di cui avevo urgente bisogno), né mai ho visto qualcuno dei miei Ascari - che marciavano a piedi nudi - piagato dall’iprite. Più tardi mi fu spiegato che l’uso dei gas - o meglio della lontana bisnonna dei gas qual era l’iprite - era stato ordinato dal Duce, che voleva dare prova di terribilismo, e che qualche lancio ne era stato effettivamente fatto, ma sul fronte Sud, quello di Graziani.” (Indro Montanelli - ‘La stanza di Montanelli, Corriere della Sera,15-2-2001)

da (LA GUERRA D’ETIOPIA E “I GAS DI MUSSOLINI/post/1809626.html
Allora, gli italiani nella guerra etiopica usarono o no i gas asfissianti?

Prima di entrare nel merito sarà bene ricordare che quando l’Italia affrontò quell’impresa, Francia e Inghilterra profetizzarono che, qualora il nostro Paese fosse riuscito a vincere quella guerra, questa sarebbe durata non meno di cinque anni e con perdite inimmaginabili.
Grande fu lo scorno della “Perfida Albione” allorquando quel conflitto si risolse per noi vittoriosamente in una manciata di mesi. Ecco allora venir fuori il motivo: “Hanno vinto perché usarono i gas asfissianti”. E’ sempre difficile tentare di confutare certi argomenti, quelli cioé che riguardano “il feroce volto del fascismo”, il minimo che può capitare al malcapitato che si dovesse avventurare nell’impresa sarebbe quella di essere marchiato di “revisionismo”, il che equivale ad una infamia.

In occasione del cinquantenario dell’impresa etiopica ed esattamente il 3 ottobre 1985, il primo canale televisivo della RAI, mandò in onda una trasmissione che doveva essere rievocativa e la direzione fu affidata ad Angelo Del Boca. Come è ormai uso in casi del genere, il programma “non prevedeva” alcuna controparte e, di conseguenza, lascio al lettore stabilire il livello di quello che doveva essere una tale ricostruzione storica.
Angelo Del Boca, è l’autore del volume “I gas di Mussolini” e non centellina le accuse di “brutalità” e “la ferocia del tiranno” a danno di quell’infelice Paese: l’Etiopia.

Per inquadrare il grado di attendibilità dell’Autore, trascrivo quanto ha riportato a pagina 45 del libro in questione: ‘Montanelli ad esempio ha finalmente (?) ammesso l’impiego dei gas in Etiopia (…)‘;. E’ oltremodo strano che uno “storico”, fornito di ampia documentazione, senta la necessità di ricevere approvazione alle sue tesi da parte di un giornalista anche se del prestigio di Indro Montanelli.

Nella realtà il De Boca asserisce una grossa inesattezza; infatti Montanelli in data 12 gennaio 1996 su “Il Messaggero” ribadisce: ‘Se la guerra a cui ho partecipato corrisponde a questi conntati, vuol dire che io ne ho fatta un’altra. Che non c’ero. Ma quali gas?‘;.
Alla domanda: ‘Lei continua a non credere nei gas?‘; Montanelli rispose: ‘Vorrebbe dire che ero cieco, sordo, imbecille. No, guardi di quelle cose non c’era traccia. Una cosa sono le carte, che possono anche essere scritte per la circostanza, un’altra le testimonianze vissute‘.

Prima di passare alle “testimonianze vissute”, per inquadrare nel suo insieme quanto si sta trattando, è interessante riportare:

* un altro passo del volume in questione, dove l’Autore attesta: “Il mio lavoro vuol essere una sorta di deterrente contro i fantasmi del passato (…)“. Non è certamente una garanzia di indipendenza di giudizio questa dichiarazione: un ricercatore non può scrivere “contro qualcosa o qualcuno”;
* una precisazione del De Boca che attesta che i bombardamenti chimici continuarono fino al ‘39, nella fase di ‘pacificazione’ delle colonie conquistate. Precisa lo ‘storico’: “Non ho dubbio alcuno e i documenti comprovano che sulla testa degli etiopici il regime (!) scaricò dalle 2000 alle 2500 bombe per complessive 500 tonnellate di aggressivi chimici. Questo è stato il nostro regalo. Sono cifre assodate“.

I “documenti” a cui Del Boca fa riferimento sono noti da diversi anni, ma quel che non è noto è la conseguenzialitità con cui si giunse a quei “documenti”, non la loro reale autenticità, e attesto questo perché da troppi anni, per motivi che nulla hanno a che vedere con la Storia, troppi falsi hanno circondato gli avvenimenti di “quei” venti anni.

E passiamo alle “testimonianze vissute”.

Pietro Romano, “Il Giornale” del 18/2/96: “All’epoca ero un semplice gregario del gruppo Diamanti. Poiché il mio reparto, come è risaputo, operò sempre in avanguardia nel Tigrai e altrove, nessuno dei suoi gregari sarebbe sfuggito alle contaminazioni, se fossero stati usati i gas (…). Posso assicurare che i gas non furono mai usati“.

Il Colonnello Giuseppe Spelorzo in data 18/3/96 mi ha, fra l’altro, scritto: “Ho la buona sensazione che il Sig…. e gli altri cretinissimi italiani ne sappiano molto meno di me. Già, io ho avuto la ventura di percorrere tutto l’Impero A.O.I. (…) mai sentito parlare di gas (…)”.
Sempre il Colonnello Spelorzo, ma in data 12/6 ha ribadito: “I gas! Nessun militare del nostro esercito conquistatore era dotato di maschere antigas! Ne sono testimone vivente: sbarcato a Mogadiscio il 24 giugno 1935, rimbarcato a Massaua il 28 marzo 1938!“.

Uno dei punti nodali è “la maschera antigas”. Nessuno, per quanto ne sappia, ha mai accennato che il nostro contingente avesse in dotazione quel tipo di protezione; infatti se il vento avesse cambiato improvvisamente direzione (e in quelle latitudini la cosa era più che probabile), l’iprite avrebbe investito coloro che l’avevano lanciata e disporre della “maschera” doveva essere il minimo della prevenzione.

Segue l’interessante dichiarazione del Sig. Giovanni De Simone su “Il Giornale d’Italia” del 23 marzo 1996: “(…) In A.O.I. non vennero usati i gas. Se così non fosse io sarei stato il primo a saperlo prestando servizio al Sim ove giungevano decrittati tutti i messaggi della intera rete radio del nemico captati dal “Centro intercettazioni” di Forte Bracci; un vero libro aperto per noi in possesso di “decifratore”. Mai rilevata una parola sui gas.“

E ancora “Il Giornale d’Italia” del 29/4/96, il Sig. Giulio Del Rosso testimonia: “Posso tranquillamente affermare che nel settore del fronte etiopico, dal fiume Mareb, confine fra l’Eritrea e l’Etiopia, fino al Lago Tana (oltre 1000 Km. pedibus calcantibus) ove ha operato il VI° Corpo d’Armata, comandato dal generale Babbini e del quale faceva parte il mio reparto, non sono mai stati impiegati gas tossici. Avevo raggiunto, io, Addis Abeba dopo le ostilità ed avevo avuto l’occasione di contatti con commilitoni provenienti da altri fronti e da altre località ove si susseguirono battaglie cruente e sanguinose, non ho mai sentito la parola ‘gas’ (…)”.

Altra perla, me la riferì una graziosa francesina incontrata a Firenze nel ‘37, secondo la quale giornali francesi ed inglesi riportavano che noi Cc.Nn. avremmo mangiato a colazione bambini abissini.

Lo stesso Winston Churchill nella sua “La Seconda Guerra Mondiale”, a pag. 210, esclude l’uso dei gas nei seguenti termini: “I gas asfissianti sebbene di sicuro effetto contro gli indigeni non avrebbero certo accresciuto prestigio al nome d’Italia nel mondo“.

Vittorio Mussolini che all’epoca era al comando di una squadriglia di bombardieri mi disse: “Mai usati i gas. E noi dell’aeronautica che avremmo dovuto trasportarli e sganciarli, dovevamo pur esserne a conoscenza“.

Non so se il Del Boca, nel suo libro, ha ricordato che ai prigionieri caduti in mano abissina venivano riservati trattamenti diabolici: l’evirazione era la norma comune.
Non è male ricordare un fatto che traumatizzò l’opinione pubblica nazionale:
il 13 febbraio 1936 a Mai Lahlà operava, ubicato imprudentemente oltre il Mareb, un cantiere Gondrand. Su questo opificio piombò una banda di 2.000 guerriglieri abissini al comando del Ras Immirù, che dopo aver ucciso in modo atroce tutti gli operai, torturarono, come sapevano far loro, l’ingegnere milanese Cesare Rocca fino ad ucciderlo. Violentarono ripetutamente la moglie Lidia Maffioli e, prima di finirla, le misero in bocca i testicoli del marito.
Nel caso del genere, contro gli autori di simili misfatti, l’uso dei gas sarebbe stato più che motivato.
Le Convenzioni de l’Aja e di Ginevra tra l’altro stabilivano: “(…) La rappresaglia è, cioé, un atto di violenza isolata nel tempo e nello spazio, avente lo scopo di imporre il rispetto del diritto in relazione ad una violazione subita“.
E ancor più chiaramente precisavano: “La scelta delle misure da infliggere spetta allo Stato offeso. Questo, però, prima di passare all’azione, deve assicurarsi che l’offensore non voglia o non possa riparare il danno“.

Questi episodi (che poi non erano tali, ma la norma), non erano “propaganda fascista”, ciò è dimostrato dal fatto che vennero denunciati anche dai Governi pre-fascisti, in occasione delle disastrose spedizioni effettuate in quel periodo e in quelle località.
In merito a quegli avvenimenti accaduti alla fine del XIX secolo, il Del Boca attesta: “E Se la prima guerra d’Africa fu condotta in maniera cavalleresca, quella intrapresa dal fascismo fu invece di sterminio (!) e di sopraffazione“.

Non so se queste dichiarazioni possono essere tacciate di impudenza o di cos’altro; infatti evirare i prigionieri e sotterrarli vivi (notizie di fonte inglese) era una “maniera cavalleresca” di condurre la guerra.
Altra testimonianza interessante è quella dello storico scozzese Denis M. Smith, non certo sospetto di nutrire simpatie per il regime mussoliniano, esprime uguali perplessità; nella sua biografia su “Mussolini” riconosce che: “L’impiego dei gas è forse un fatto meno rilevante dei grandi sforzi prodigati per celarlo (…) contrastava con la missione civilizzatrice (…) e la vittoria con atrocità illegali avrebbe danneggiato il prestigio fascista“.

Ugualmente interessante è quanto ha scritto il signor Francesco Deosanti (“Giornale d’Italia” dell’1/4/96): “Da metà febbraio 1935 a metà giugno 1936, fui sottufficiale in servizio presso la Capitaneria di Porto di Massaua (…), non dimenticherò mai quella mattina, credo di febbraio 1936, quando registrai un piroscafo di 500/600 tonnellate con un carico di 25 tonnellate di ‘iprite’ (…)“
Il Sig. Deosanti così continua: “Ho conosciuto recentemente un ex sottufficiale del Genio, che faceva parte della Colonna Graziani da Belet Ven (in Somalia) ad Addis Abeba, che mi ha detto: ‘Non ho mai sentito parlare di gas’“.

Che una nave trasporti ‘iprite’ non prova che quel gas sia stato usato per scopi bellici. Infatti, durante la Seconda Guerra Mondiale e precisamente dopo l’8 settembre 1943, alcuni bombardieri tedeschi colpirono delle navi alleate alla fonda nel porto di Bari.
Una di queste trasportava un gas venefico, probabilmente ‘iprite’. La nave, centrata da una bomba, si incendiò diffondendo il gas letale nel centro abitato che causò centinaia di morti.
Ancor oggi il fatto è accuratamente celato, anche se tanti fusti di quel pericoloso gas giacciono, tutt’ora, nel fondale Adriatico. Una nave alleata trasportava ‘iprite’ e nessuno ha mai accusato gli alleati di averlo usato per fini contrari alle Convenzioni Internazionali.

Per concludere. Nel compilare questo articolo contattai il generale Angelo Bastiani, presidente del gruppo Medaglie d’Oro, recentemente scomparso. Alla mia domanda, sdegnato mi rispose: “E’ una vigliaccata, rieccoci con le carognate. Io e i miei indigeni eravamo le avanguardie di ogni assalto, ci avrebbero almeno dato le maschere antigas. Alla battaglia conclusiva di Maiceo, al lago Ashraghi, quella a cui partecipò anche il Negus; perché lui che ne avrebbe avuto tutto l’interesse mai disse che lo combattemmo coi gas?“.

Giro le domande:

1. perché nessun milite italiano fu mai fornito di maschere antigas?
2. Perché il Negus, benché fosse di casa alla Società delle Nazioni, mai denunciò l’uso di ‘armi illegali’ da parte degli italiani?

 
 
 

Africa Orientale Italiana - A.O.I. 1936 -

Post n°246 pubblicato il 27 Marzo 2009 da wrnzla

Africa Orientale Italiana - A.O.I. 1936 -

Italian East Africa Map

Mappa Africa Orientale Italiana 1936 - Italian East Africa Map 1936

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Gli ascari e l' avventura italiana.

Post n°245 pubblicato il 26 Marzo 2009 da wrnzla

Gli ascari e l' avventura italiana.

Qualche anno fa, durante una delle riprese di fuoco dell' intermittente guerra tra Etiopia ed Eritrea, caso classico di popoli confinanti che si odiano, arrivò dall' Asmara una notizia che suscitò un minimo di commenti e anche di emozioni, rispetto al massimo di disinteresse mostrato dagli italiani verso la loro ex colonia. Diceva che il comando militare eritreo stava creando nuovi battaglioni, che sarebbero stati chiamati Battaglioni Ascari, con riferimento non casuale alle truppe di colore mercenarie quando l' Eritrea era una colonia, impiegate in battaglia dagli italiani durante cinquant' anni con risultati straordinari. Risuscitando questo nome glorioso (l' aggettivo è di fonte africana, non mio) il comando eritreo pensava di riportare nell' animo dei soldati moderni quella fierezza e quella irriducibilità anche davanti a un nemico superiore per uomini e mezzi, che erano state due delle molte qualità militari degli ascari. Non era difficile, all' Asmara o anche altrove, incontrare fino ai primi anni '80 qualche vecchio ascaro, sopravvissuto alla pessime strategie degli ufficiali italiani, alle carestie e alla fame. Erano sempre loro, vecchi dignitosi, che ti fermavano davanti all' albergo o al caffè Roma, mormorando la parola «taliano» e tirando fuori, da sotto la futa, un mucchio di carte oramai semicancellate e inservibili, che dovevano costituire, per quel che si capiva, la corrispondenza con la burocrazia italiana per ottenere una miserabile pensione. Ma non era questa la vera ragione dell' incontro, anche perché credo che quei poveretti, nel tentativo di farsi pagare una pensione del genere, avranno sperimentato qualcosa di simile a una discesa negli inferi. In realtà volevano solo conoscerti in quanto «taliano», e mostrare che non si erano scordati di noi e per provarlo, elencavano, uno di seguito all' altro, vocaboli italiani, tra i quali, quasi sempre, compariva il nome proprio di Gasparini, uno dei migliori governatori che l' Eritrea abbia mai avuto. Gli ascari erano tutti mercenari, ma faceva un certo effetto misurare quanto era grande ancora il loro affetto per un paese che li aveva fregati, per dirla in chiaro. Perché l' Italia, partecipando alla seconda guerra mondiale dalla parte sbagliata, aveva fregato prima di tutti se stessa e poi anche gli ascari eritrei. Nel bene e nel male, noi eravamo i meno adatti, per una serie infinita di ragioni, a gestire i paesi d' oltremare, quando gestivamo già male il nostro, sperando di far nascere dal nulla un' organizzazione, un costume, una mentalità che non avevano mai fatto parte della nostra tradizione. Questa illusione, così antistorica, di diventare in poco tempo una potenza coloniale saltando tutte le scuole e frequentando solo corsi serali, nemmeno tanto buoni, si dissolse in tre giorni, dal 9 all' 11 dicembre 1940 in una località dell' Africa Settentrionale chiamata Sidi el Barrani, quando le truppe italiane, disposte sul terreno in modo tatticamente demenziale da Graziani, furono travolte dall' attacco anglo-coloniale guidato dal generale Archibald Wawell, che costò all' Italia quasi 40.000 prigionieri, 237 pezzi di artiglieria e 73 carri armati, e questo fu solo l' inizio. Eppure l' impero inglese non era perfetto e da tempo stava dando segnali non equivoci ed emettendo scricchiolii e qualcuno in India diceva che era l' ora di farla finita col dominio inglese ed era seguito da masse deliranti. Me se un paese, come ad esempio l' Italia, si era fisso in capo l' avventura coloniale con notevole ritardo, l' unica cosa da fare era: seguire il modello e invece di credere ciecamente alla propaganda di un ex giornalista che non si era più aggiornato - a ogni piè sospinto il duce ripeteva che gli inglesi erano diventati molli per troppa ricchezza - bastava mandare qualche funzionario del ministero delle colonie a Londra per un week-end, saltando il sabato fascista, a prendere appunti su come la Perfida Albione avesse aumentato in misura impensabile le dimensioni del suo esercito, servendosi delle migliori truppe di colore del mondo, che aveva prima sconfitto e poi arruolato. Gli inglesi hanno sempre avuto lo straordinario talento di entrare in un numero incredibile di guerre e di vincerle, mandando gli altri a combattere. Prima, quando non c' era ancora l' impero, gli irlandesi, gli scozzesi e i gallesi (ma gli ufficiali erano sempre inglesi), poi tutti i guerrieri con i quali avevano fatto conoscenza al di là dei sette mari e di cui avevano sperimentato tutta l' audacia e la resistenza, inquadrandoli in formazioni regolari e rendendoli consapevoli dell' immenso onore di essere ora al servizio di Sua Maestà Britannica. Da tempo immemorabile i bambini d' oltre Manica erano stati abituati a giocare con soldatini che avevano facce colorate: i sikh, i rajaputi, i gourkha, i dayaki, i maharatti, i malesi, gli egiziani, i sudanesi, i maori. E quando i bambini crescevano, andavano in colonia a prendere il contatto con «the real stuff», i veri soldati di colore, che potevano anche odiare i loro arroganti padroni, ma la loro ambizione era di passare per un inglese o almeno di averne le maniere (non solo gli snob, ma ancora oggi persone del calibro di Naipaul). E ne conserveranno, oltre alle divise eleganti e ai calzoni corti, i modi irritanti, l' abominevole taglio dei capelli e la bacchetta di bambù, simbolo di un limitato ma sicuro comando. E naturalmente, anche parte della mentalità. Gli unici nativi ai quali Londra impedì di combattere sotto i colori della Union Jack erano i più gagliardi di tutti: si chiamavan Zulù, avevano fisici che ricordavano il Lotar dei fumetti che girava in coppia con Mandrake, erano capaci in una giornata di trotterellare per sessanta, settanta chilometri attraverso le colline del Transvaal, presentandosi poi in battaglia ancora freschi e minacciosi come sempre (i «muli» di Mario, i legionari romani veterani di molte battaglie, a suo tempo avevano marciato compiendo la stessa distanza, ma a passo veloce e con un carico molto superiore). E nella seconda metà dell' Ottocento avevano annientato un corpo di spedizione inglese in un posto chiamato Isandhlwana e solo gli intrighi interni ai clan riuscirono ad impedire che i loro «impies», i temibilissimi battaglioni con i colori bianchi e neri, spazzassero via le giubbe rosse dagli altopiani ad ovest del Nataal con la loro celebrata tattica a tenaglia. Non c' è mai stato nulla che gli inglesi abbiano ammirato più del coraggio fisico, ma il costume degli Zulù di non fare prigionieri era eccessivo anche per il loro cinismo strategico degli inglesi. Da noi l' italiano medio, a meno che non avesse parenti che vivevano oltremare, raggiungeva solo una conoscenza molto approssimativa e superficiale delle colonie, essendo normalmente interessato al paesello natio e al campanile e, come viaggi, al giro della propria stanza o intorno alla propria seggiola. Spesso confondeva i reparti regolari con quelli irregolari, gli zaptiè - carabinieri neri - con i doubat, gli spahis - che pure andavano a cavallo - con le truppe cammellate. Gli inglesi nominavano con evidente disinvoltura tutte le loro più grandi sconfitte coloniali - la ritirata della colonna inglese da Kabul, quando un solo europeo riuscì a raggiungere Jalalabad, l' annientamento di quasi due reggimenti bianchi a colpi di cannone, all' inizio delle guerre sikhs - sapendo naturalmente di aver vinto alla fine le guerre (ma non erano poi tanto sportivi, e se trovavano qualcuno più abile di loro, come il leggendario colonnello Paulus von Lettow Vorbeck, che riuscì a non farsi mai prendere, portandoli in giro per i laghi e le boscaglie del Tanganyka durante la prima guerra mondiale, cercavano di ignorarlo nei libri di storia). Da noi invece c' era stata Adua, e bastava pronunciare questo nome in pubblico per avvertire un lutto profondo e quasi fisico, come qualcuno che stesse tirando un telo nero sopra di noi. I militari dovevano certamente avere informazioni più dettagliate, per quanto non sarei così sicuro, e si era visto di peggio nel passato. Ma il loro settario, angusto, spirito di corpo era così forte che molti tendevano a svilire qualsiasi cosa uscisse fuori dei ranghi e non avesse l' impronta sabauda o fascista. Un fare anche altezzoso, fatto passare per nobiltà di sentire che gli veniva pe li rami, abbandonato di colpo quando si trattava di arraffare i meriti e le conquiste altrui. Durante tutto il Risorgimento i garibaldini, anche dopo aver conquistato il Regno delle due Sicilie nella gloriosa maniera che sappiamo, vennero sempre trattati da pezzenti, con rare eccezioni. I Savoia arrivarono al punto di lasciar partire Garibaldi da Napoli senza che nessuno di quei supponenti ufficiali piemontesi andasse a stringergli la mano mentre saliva su una barchetta diretta a Caprera portandosi dietro le solite sementi, salutato solo dalle navi inglesi in rada che si schierarono immediatamente, come per fare ala all' amatissimo eroe, cominciando a sparare salve in suo onore. Seguendo questa linea, gli alti comandi coloniali in Africa tennero nei riguardi degli ascari un atteggiamento che definirei una variabile dipendente: se ne servivano in tutte le occasioni, sempre più consapevoli di non poter fare a meno di loro; ma qualsiasi apprezzamento pubblico dipendeva dall' umore degli ufficiali in loco, dal grado di razzismo dei generali rimasti a Roma, dai giochi e dalle gelosie interne e da una serie di fattori del tutto indipendenti dal comportamento degli ascari. Il mito degli ascari nacque quasi per sbaglio in occasione di Adua. Nel telegramma inviato al governo in cui raccontava, a modo suo, la catastrofe, il generale Baratieri, scaricando tutte le colpe sui nostri soldati, aveva indirettamente fatto l' elogio degli ascari eritrei. Era un atto assolutamente intollerabile per gli alti comandi italiani, che manovrarono subito per far scrivere ai giornali l' esatto contrario. Ma nelle colonie qualsiasi ufficiale che avesse comandato reparti indigeni era consapevole della grande superiorità degli eritrei, come combattenti, rispetto ai soldati italiani. Non solo gli ascari erano naturalmente coraggiosi, audaci e spesso feroci. Ma avevano dalla loro la conoscenza del terreno e un fisico cresciuto a queste quote, insieme ad un' estrema mobilità dovuta all' assenza di salmerie e di bagagli, con l' eccezione di un sacchetto leggero di tela infilato da un bastone, che portavano sulla spalla. Erano frugali, resistenti alla fame e alla sete - ma non al freddo - e in tutto e per tutto costituivano delle truppe scelte. A volte poteva essere imbarazzante il confronto con i coscritti italiani, che sbarcavano a Massaua, con catenine al collo, santini nel portafogli e la faccia verde per il mal di mare, ed era una pena vederli muovere con il fiato corto e tanta goffaggine tra le ambe. Per alcuni decenni si svolse tra Roma e l' Eritrea una recita a soggetto, in cui il Governo cercava di risolvere ogni problema insorto in colonia con una spedizione di soldati di leva, che nessuno all' Asmara voleva. Ed è rimasto celebre un telegramma inviato da Ferdinando Martini, considerato uno dei migliori coloniali che abbia mai avuto l' Italia, dopo aver saputo che il governo aveva intenzione di effettuare una di queste spedizioni senza il suo consenso: «Primo bersagliere imbarcato a Napoli e diretto a Massaua, governatore dell' Eritrea s' imbarcherà prima nave a Massaua diretta a Napoli». Una delle ragioni non dette dell' impiego degli ascari era totalmente opportunistica. Quando moriva un soldato italiano, magari per malattia o per un incidente, la sua morte provocava un seguito di lamenti, indignazione, richieste di indagini ed eventualmente di rimozioni, mentre gli ascari potevano defungere a battaglioni interi e in Italia tutto questo aveva un' eco molto più limitata. Quando scoppiò la seconda guerra mondiale gli ascari si erano dimostrati talmente insostituibili che l' arruolamento era stato allargato da tempo ad altre etnie simili, come gli yemeniti e gli ahmara. Ed è deprimente accorgersi come i comandi italiani, che avevano a disposizione delle truppe di colore non eccellenti, ma le migliori che si potessero trovare in Africa, le abbiano impiegate malamente, molto al di sotto delle loro capacità. La scelta del Duca d' Aosta di arroccarsi in cima alle ambe, giustificata dalla scarsezza di mezzi e di munizioni che gli impedivano la mobilità, assomiglia molto ad una mossa suicida. A distanza di oltre cinquant' anni dalla fine della guerra in Africa orientale si capisce meglio che l' andamento disastroso della campagna era dipeso dal fatto che il nostro comando aveva una conoscenza limitata delle guerriglia (mai nessuno che avesse letto il libro di Liddell Hart, il famoso esperto militare inglese, sulla guerriglia in Arabia e su T. E. Lawrence, mai nessuno che avesse studiato le tattiche e gli inganni inventati da von Lettow in Tanganyka). Solo Amedeo Guillet, di cui abbiamo già parlato nelle puntate precedenti, e pochi altri, avevano capito che in una regione accidentata come quella dell' Africa Orientale, le possibilità della guerriglia erano infinitamente superiori a quelle di azioni come vengono insegnate dai manuali. Anche se il comandante-diavolo, come veniva chiamato Guillet, dava della guerriglia un' interpretazione forse troppo eroica, guidando cariche impossibili di cavalleria contro le postazioni anglo-indiane, commentate più tardi con enorme ammirazione dagli storici inglesi. Ma che avevano corso il rischio di finire come la carica della Light Brigade a Balaklava (conosciuta in Italia come «Carica dei Seicento»). Tutto questo avveniva a guerra già conclusa, senza alcuna speranza di cambiare le sorti di un conflitto già deciso. Ed è abbastanza significativo del carattere degli eritrei che le formazioni di Guillet, chiamate «Bande Amhara a cavallo», in realtà erano composte in maggioranza da giovani eritrei. E tra loro c' erano degli ascari che avevano combattuto fino alla fine. E che invece di tornare a casa si erano arruolato sotto il comandante-diavolo, per i soldi, ma anche perché avevano molto amor proprio e ci tenevano a fare una bella figura con gli amici italiani. (3- continua) - STEFANO MALATESTA

 
 
 
 
 

INFO


Un blog di: wrnzla
Data di creazione: 27/05/2005
 

 
   Agli Ascari d'Eritrea 

- Perchè viva il ricordo degli Ascari d'Eritrea caduti per l'Italia in terra d'Africa.
- Due Medaglie d'Oro al Valor Militare alla bandiera al corpo Truppe Indigene d'Eritrea.
- Due Medaglie d'Oro al Valor Militare al gagliardetto dei IV Battaglione Eritreo Toselli.

 

 

Mohammed Ibrahim Farag

Medaglia d'oro al Valor Militare alla Memoria.

Unatù Endisciau 

Medaglia d'oro al Valor Militare alla Memoria.

 

QUESTA È LA MIA STORIA

.... Racconterà di un tempo.... forse per pochi anni, forse per pochi mesi o pochi giorni, fosse stato anche per pochi istanti in cui noi, italiani ed eritrei, fummo fratelli. .....perchè CORAGGIO, FEDELTA' e ONORE più dei legami di sangue affratellano.....
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A DETTA DEGLI ASCARI....

...Dunque tu vuoi essere ascari, o figlio, ed io ti dico che tutto, per l'ascari, è lo Zabet, l'ufficiale.
Lo zabet inglese sa il coraggio e la giustizia, non disturba le donne e ti tratta come un cavallo.
Lo zabet turco sa il coraggio, non sa la giustizia, disturba le donne e ti tratta come un somaro.
Lo zabet egiziano non sa il coraggio e neppure la giustizia, disturba le donne e ti tratta come un capretto da macello.
Lo zabet italiano sa il coraggio e la giustizia, qualche volta disturba le donne e ti tratta come un uomo...."

(da Ascari K7 - Paolo Caccia Dominioni)

 
 
 
 

 
 
 
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ASCARI A ROMA 1937

 

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