Ciò che resta  

Post n°86 pubblicato il 12 Maggio 2008 da zackdelarocha3
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Sospiri profondi. Ebbrezza
nell’anima assente.
I vuoti mari
di sensazioni colmano.
Le voci diventano nulla
anonime, assenti
suoni perduti
nell’io sconosciuto.
Nessuna stella appare
e non è ancor nero il celeste.
Sfilacciato rosa
scivola sulle pareti
con sottili dita,
ma si oscura ovunque
lontano dal tuo sole.
Ora che l’erba
lascia lo spazio
a fragili anemoni,
ora che il miraggio
le ciglia ha dischiuso
respiro, piano,
acquerello di te.

 

 
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L'infinito surreale 

Post n°85 pubblicato il 12 Maggio 2008 da zackdelarocha3
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..questo universo (da altri denominato la Biblioteca) si compone
di un numero indefinito (e forse infinito), di gallerie esagonali, con vasti
pozzi di ventilazione nel mezzo, bordati di basse ringhiere. Da qualsiasi
esagono si vedono i piani superiori ed inferiori, interminabilmente. La
distribuzione degli oggetti nelle gallerie è invariabile. Venticinque vasti
scaffali, in ragione di cinque per lato, coprono tutti i lati, meno uno (…). Il
lato libero dà su un angusto corridoio che porta ad un’altra galleria, identica
alla prima ed a tutte (…). Di qui passa la scala a spirale, che s’inabissa e
s’innalza, nel remoto. Nel corridoio è uno specchio, che, fedelmente, duplica
le apparenze. Gli uomini sogliono infierire da questo specchio che la Biblioteca non è
infinita (se lo fosse realmente, perché questa duplicazione illusoria?). Io
preferisco sognare che queste superfici argentate figurino e promettano
l’infinito…La luce procede da frutti sferici che hanno il nome di lampade. Ve
ne sono due per esagono, su una traversa. La luce che emettono è insufficiente,
incessante.



Come tutti gli uomini della Biblioteca, in gioventù ho
viaggiato; ho peregrinato alla ricerca di un libro, forse del catalogo dei
cataloghi; ora, che i miei occhi quasi non riescono a decifrare ciò che scrivo,
mi preparo a morire a poche leghe dall’esagono in cui nacqui. Morto, non
mancheranno mani pietose che mi gettino fuori dalla ringhiera; mia sepoltura
sarà l’aria insondabile, la caduta continua, fino alla completa dissoluzione
della materia di cui ora è composto il mio corpo.



Io affermo che la Biblioteca è interminabile. Gli idealisti
argomentano che le sale esagonali sono una forma necessaria dello spazio
assoluto o, per lo meno, della nostra intuizione dello spazio. Ragioniamo che è
inconcepibile una sala triangolare o pentagonale (i mistici pretendono di
avere, nell’estasi, la rivelazione d’una camera circolare con un gran libro
circolare dalla costola continua, che fa il giro completo delle pareti; ma la
loro testimonianza è sospetta; le loro parole, oscure. Questo libro ciclico è
Dio). Mi basti, per ora, ripetere la classica sentenza: “La Biblioteca è una sfera
il cui centro esatto è qualsiasi esagono, e la cui circonferenza è
inaccessibile”.



A ciascuna parete di ciascun esagono corrispondono cinque
scaffali; ciascuno scaffale contiene trentadue libri di formato uniforme;
ciascun libro è di quattrocentodieci pagine; ciascuna pagina, di quaranta
righe; ciascuna riga, di quaranta lettere di colore nero; non, però, che
indichino o prefigurino ciò che diranno le pagine. So che questa incoerenza, un
tempo, parve misteriosa. Prima d’accennare alla soluzione (la cui scoperta, a
prescindere dalle sue tragiche proiezioni, è forse il fatto capitale della
storia) voglio rammentare alcuni assiomi.



Primo: la
Biblioteca esiste ab aeterno. Di questa verità, il
cui corollario immediato è l’eternità futura del mondo, nessuna mente
ragionevole può dubitare. L’uomo, questo imperfetto bibliotecario, può essere
opera del caso o da demiurghi malevoli; l’universo, con la sua elegante
dotazione di scaffali, di tomi enigmatici, di infaticabili scale per il
viaggiatore e di latrine per il bibliotecario seduto, non può che essere l’opera
di un dio. Per avvertire la distanza che c’è tra il divino e l’umano, basta
paragonare questi rozzi, tremuli simboli che la mia fallibile mano sgorbia compone
sulla copertina di un libro, con le lettere organiche dell’interno: puntuali,
delicate, nerissime, inimitabilmente simmetriche.



Secondo: Il numero
dei simboli ortografici è di venticinque
. Questa constatazione permise, or
sono tre secoli, di formulare una teoria generale della Biblioteca e di
risolvere soddisfacentemente il problema che nessuna congettura aveva mai
permesso di decifrare: la natura informe e caotica di quasi tutti i libri. Uno
di questi, che mio padre vide in un esagono del circuito quindici
novantaquattro, constava delle lettere M C V, perversamente ripetute dalla prima
all’ultima riga. Un altro (molto consultato in questa zona), è un mero
labirinto di lettere, ma l’ultima pagina dice: Oh tempo le tue piramidi. E’ ormai risaputo: per una riga
ragionevole, per una notizia corretta, vi sono leghe e leghe di insensate
cacofonie, di ferragini verbali e di incoerenze. (So di una regione barbarica i
cui bibliotecari ripudiano la superstiziosa e vana abitudine di cercare un
senso nei libri, e la paragonano a quella di cercare un senso nei sogni o nelle
linee caotiche della mano…Ammettono che gli inventori della scrittura imitarono
i venticinque simboli naturali, ma sostengono che questa applicazione non è
casuale, e che i libri non significano nulla di per sé. Questa affermazione, lo
vedremo, non è del tutto erronea)…(continua)



 



Jorge Luìs Borges
 

 
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Il traditore, l'eroe, il diavolo. 

Post n°84 pubblicato il 12 Maggio 2008 da zackdelarocha3
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Ho immaginato questo tema, che forse oggi scriverò, e che
già in qualche modo mi giustifica, nei pomeriggi inutili, sotto l’influenza di
Coleridge (creatore ed alchemico di inquietanti misteri) e del consigliere aulico
Leibniz (che inventò l’armonia prestabilita).
Mancano dettagli, rettifiche, messe a punto; vi sono, poi,
zone di questa storia che non mi sono state ancora rivelate. Oggi, la intravedo
così.
L’azione si svolge in un paese oppresso e tenace: un
qualche stato balcanico, o sudamericano, o l’Irlanda, forse, la Polonia, la Repubblica di
Venezia..O meglio: l’azione si svolse;dato
che, sebbene il narratore sia contemporaneo, il tempo della sua storia è la
metà o il principio del secolo XIX. Diciamo (per comodità narrativa) l’Irlanda.
Diciamo il 1831.
Il narratore si chiama Ethan, Ethan Wilcox. E’ il
bisnipote del giovane, dell’eroico, del bello, dell’assassinato Spencer Wilcox,
la cui tomba fu misteriosamente violata, e la cui statua domina una collina
grigia, tra rosse paludi.
Spencer Wilcox fu un cospiratore; un segreto e glorioso
capitano di cospiratori: come Mosè, che dalla terra dei moabiti avvistò la
terra promessa, e non potè calcarla. Wilcox morì alla vigilia della rivolta vittoriosa
che aveva premeditato e sognato.
S’avvicina la data del primo centenario della sua morte;
le circostanze del delitto sono enigmatiche; Ethan, che sta lavorando ad una
biografia dell’eroe, scopre che l’enigma non è puramente poliziesco. Wilcox fu
assassinato in un teatro; la polizia britannica non trovò mai l’autore, e gli
storici affermano che questo insuccesso non intacca la buona reputazione della
polizia, poiché fu essa stessa, probabilmente, a farlo uccidere.
Altri aspetti dell’enigma inquietano Ethan. Sono di
carattere ciclico: sembrano ripetere o combinare fatti di regioni remote, di
remote età. Si sa, per esempio, che gli sbirri che esaminarono il cadavere
dell’eroe trovarono una lettera chiusa, che avvertiva Wilcox del pericolo che
avrebbe corso andando a teatro quella sera. Anche Giulio Cesare, mentre si
avviava al luogo dove l’attendevano i pugnali dei suoi amici, ricevette il
biglietto, che non potè leggere, ed in cui gli si scopriva il tradimento, con i
nomi dei traditori. La moglie di Cesare, Calpurnia, vide rovinare in sogno una
torre che il Senato aveva tributato al marito. Voci false e anonime, la vigilia
della morte di Wilcox, annunciarono a tutto il paese l’incendio della torre
circolare di Kilgarvan.
Ebbene, questi parallelismi (insieme ad altri) della storia
di Cesare col cospiratore irlandese indussero Ethan a supporre una forma
segreta del tempo, un disegno in cui molte linee si ripetono. Pensò alla storia
decimale che ideò Eulero; alle morfologie che proposero Spengler, Hegel e Vico;
agli uomini di Eratostene, che degenerarono dall’oro al ferro. Pensò alla
trasmigrazione delle anime, dottrina che fa l’orrore della letteratura celtica
e che lo stesso Cesare attribuì ai druidi britannici.
Da questi labirinti lo salvò una curiosa scoperta, che poi
lo inabissò in altri labirinti ancor più inestricabili ed eterogenei: certe
parole che un mendicante scambiò con Spencer Wilcox, il giorno della morte di
quest’ultimo furono prefigurate da Shakespeare nella tragedia del Macbeth.
Che la storia avesse copiato la storia era già abbastanza
stupefacente; che la storia copi la letteratura è inconcepibile…Ethan accerta
che, nel 1818, Randall Stevens, il più antico dei compagni dell’eroe, aveva
tradotto in gaelico i principali drammi di Shakespeare, tra cui il Giulio Cesare. Scopre anche, negli
archivi, un articolo manoscritto di Stevens sui Festspiele svizzeri: vaste ed erranti rappresentazioni teatrali che
richiedono migliaia di attori e che reiterano episodi storici nelle stesse
città in cui accaddero.
Un altro documento inedito gli rivela che, pochi giorni
prima della fine, Spencer Wilcox, presiedendo l’ultimo consiglio, aveva firmato
la sentenza di morte di un traditore il cui nome, in seguito, fu cancellato.
Una simile condanna non è nelle abitudini di Wilcox. Ethan ne indaga le ragioni
(questa indagine è una delle lacune della storia) e riesce a decifrare
l’enigma.
Wilcox fu ucciso in teatro, ma da teatro gli servì anche
l’intera città, e gli attori furono legione, e il dramma, che ebbe come atto
finale la sua morte, si consumò in molti giorni e molte notti.
Ecco cosa avvenne:

il 6 luglio 1831 i cospiratori si riunirono. Il paese era
maturo per la rivolta; qualcosa, tuttavia, mancava sempre; c’era un traditore,
nel consiglio. Spencer Wilcox aveva incaricato Randall Stevens di scoprire
questo traditore.
Stevens eseguì il compito: annunciò che il traditore era
lo stesso Wilcox. Dimostrò con prove irrefutabili la verità dell’accusa; i
congiurati condannarono a morte il loro presidente. Questi firmò la propria
condanna, ma implorò che il suo castigo non pregiudicasse la rivolta, e la
patria.
L’Irlanda idolatrava Wilcox; il più tenue sospetto su di
un suo tradimento avrebbe compromesso il colpo di Stato. Allora Stevens concepì
un ingegnoso progetto, che fece dell’esecuzione del traditore uno strumento,
anzi, per aumentare il fermento popolare. Suggerì che il condannato morisse per
mano di un assassino sconosciuto, in circostanze particolarmente drammatiche,
che rimanessero scolpite nell’immagine popolare ed affrettassero, così, l’insorgere
della rivolta. Wilcox giurò di collaborare a questo progetto, che gli offriva
l’occasione per redimersi.
Stevens, pressato dal tempo, non seppe inventare
interamente le circostanze di quella esecuzione dai molti e controversi
aspetti; dovette plagiare un altro drammaturgo, guarda caso, il nemico inglese
William Shakespeare. Ripetè scene del Macbeth, del Giulio Cesare. La pubblica e
segreta rappresentazione occupò vari giorni. Il condannato entrò a Dublino,
discusse, pregò, riprovò, pronunciò parole patetiche, e ciascuno di questi
atti, che ne avrebbe accresciuto la gloria, era stato prefissato da Stevens.
Centinaia di attori collaborarono con il protagonista. La
parte di alcuni fu complessa; quella di altri, momentanea. Le cose che dissero
e che fecero durano ancor oggi nei libri di storia, nella memoria appassionata
dell’Irlanda. Wilcox, animato da questo insolito, minuzioso destino, che lo
redimeva e che lo perdeva, più di una volta arricchì con parole improvvisate il
testo del suo giudice. Così venne dispiegandosi il dramma, finchè, il 6 luglio 1931, in un parco dalle
funeree cortine che prefigurava quello di Lincoln, una pallottola desiderata
entrò nel petto del traditore e dell’eroe, tra due fiotti di sangue improvviso,
alcune parole previste.






Nell’opera di Stevens, i passi imitati di Shakespeare sono
i meno drammatici; Ethan sospetta che
l’autore li intercalasse affinché qualcuno, più tardi, potesse scoprire la
verità.
Sospetta di far parte egli stesso della trama di Stevens…
Dopo tenace cavillare, risolve di tenere segreta la
scoperta. Pubblica un libro, dedicato alla memoria dell’eroe; ed anche questo, forse,
era già stato previsto…



 

 
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Acqua su tela 

Post n°83 pubblicato il 12 Maggio 2008 da zackdelarocha3
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Vento avevano i giorni
increspata linea
scompigliata del blu.
Un mulinello
d’irrequiete chimere
digrada i colori
d’iridato pastello.
Lago di cielo
tela infinita
giochi di vapore
universo bianco.
Grigio di un muro
accenno di strada
gualcito fucsia
s’affaccia pallido.
Anfratto di roccia
carezza il declivio
guizzo di rami
geometrie di luce obliqua.
Colori annunciati
tavolozza di passi
pellicola che scorre
nello sguardo proteso.
Lampade fioche, ocra
tenui capezzali
di nebbioso sopore
frammenti di presagi
in un giorno mai nato.



 

 
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L'incubo di Sigurd (cap. IV) 

Post n°82 pubblicato il 12 Maggio 2008 da zackdelarocha3
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La prima luna dell’anno del Serpente nacque nella
carestia,
nella pestilenza e nell’inquietitudine. Il Morbo correva per le
strade dei regni, abbattendo il mercante al bancone di vendita,
lo schiavo nel
tugurio, il nobile al tavolo dei banchetti..
Di fronte ad Esso, le arti dei chirurghi vedevano morire
le loro speranze. Le genti mormoravano che fosse stato
mandato dall’inferno per
punire i peccati dell’orgoglio
e della lussuria. Era rapido e mortale come il
veleno dell’aspide.
Chi ne veniva colpito si faceva violaceo e poi nero,
ed in
capo a pochi minuti cadeva morente, e il fetore della sua stessa putrefazione
era avvertito nelle sue narici ancor prima che
la morte avesse rapito l’anima
dal corpo in disfacimento.
Un vento caldo ruggiva senza posa da meridione;
i
raccolti inaridivano nei campi, e le mandrie cadevano
e morivano nei tratturi..
..la moltitudine si lamentava a gran voce della collera
del Dio,
e mormorava contro il Re, perché per tutto il regno qualcuno
aveva
sparso ad arte la voce che egli, in segreto,
fosse dèdito a pratiche orrende, a
ripugnanti orge
che avevano luogo nelle solitudini del palazzo reale
ammantato
dalle tenebre notturne.
Poi, la morte si avventò sogghignando anche
in quella dimora
reale, e, in una sola notte,
rapì il sovrano e i suoi tre figli, mentre i
tamburi,
che scandivano il ritmo del lamento funebre del Re,
coprivano il
rumore dei sonagli macabri e infausti dei carri,
che sferragliavano per le
strade raccogliendo cadaveri..
Quella notte, poco prima dell’alba, il soffio rovente
che
aveva continuato, tenace, per settimane,
cessò di sibilare sinistramente tra i
tendaggi di seta.
Un forte vento si alzò da nord, mugghiando fra le torri.
Ci
furono tuoni da apocalisse, accecanti bagliori in
rapida successione, ed
una pioggia scrosciante, continua,
impetuosa. Ma l’alba sorse radiosa, verde, chiara;
la terra bruciata si velò di
tenera erba, le messi assetate
si alzarono ancora, e la peste sparì; i miasmi
erano stati
completamente spazzati via da quel vento possente.
Gli uomini
dissero che gli dèi erano soddisfatti,
perché il Re malvagio e la sua progenie
erano morti, e,
quando incoronarono il suo fratello minore, Jodir,
nella grande
sala delle cerimonie, la popolazione lo salutò
con tale entusiasmo da far
tremare la terra,
acclamando il nuovo monarca gradito agli dèi...(continua)



 

 
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