Zagara&Pepe

ELEGIA del SILENZIO


Il rumore dei passi sull’acciottolato di quella via del centro che, solo poche ore prima e di certo ancora, fra qualche ora, si sarebbe affollata di voci, di traffico di disinteresse comunque, era l’unico suono che si distingueva nitidamente in quel silenzio assoluto in cui le ore della notte avevano sprofondato quella parte di Città. Giorgio lo ascoltava prestando attenzione ad ogni inflessione di quell’alternarsi dei suoi piedi: destro, sinistro,destro…. e via ancora nell’intercalare consueto che segna un cammino, il moto di un corpo animato, lungo una direzione. Destro, sinistro, destro….. in quel mantello di silenzio pareva disperdersi con un eco il rintoccare secco delle suole di cuoio. Destro, sinistro, destro…. solo lo scalpiccio sembrava fendere con il suo sopravanzare, la folla di buio tutt’attorno; milioni, miliardi di molecole mute che si scansavano al passare di Giorgio e di quel suo transitare, per poi ricomporsi, ordinate, silenziose, alle sue spalle, come una scia dentro il lago che sembra sconvolgere l’onda ma che poi in breve, l’onda ringoia riportando l’ordine delle cose della superficie piatta, per l’assenza di vento o di qualunque altro stimolo che agiti quell’acqua, resasi cheta, pacata. Muta. Muta era la natura delle cose quella notte. Muti i mattoni, l’aria, mute erano le case e il cielo. Pure i cani che in lontananza, Giorgio, avrebbe voluto sentir latrare, tacevano. Mute erano le strade, non le attraversava nemmeno una macchina, nessun mezzo meccanico neppure il camion che  di solito verso quell’ora gira a raccogliere i cassonetti dell’immondizia. Così si presenta a volte il silenzio, come una cappa, un nebbia che avvolge ogni cosa. Come un sorriso, quando riempie le stanze, e lo vedi, e non sai, non trovi posto attorno che non sia sorriso, e non tocchi niente, non appoggi niente per non turbare quell’aria, e quasi non sai come fare, ma ti lasci condurre via in quello spazio di tempo che non ha tempo o forma. E’ solo un attimo, diresti. Che dura un infinito. Muta era la voce di Elena che Giorgio non aveva sentito il giorno prima e neanche quello innanzi, muta da una settimana, un mese. Muta l’aveva vista voltarsi e poi allontanarsi col profilo che s’era fatto piccino, a poco a poco. Col profilo che da nitido, stagliato, ritagliato, inciso, s’era confuso lentamente prima in un gruppo di persone e poi, fattosi indistinto in una scena di altri, di gente, di cose che come un sipario animato s’era chiuso sul quel suo allontanarsi decisa, passo dopo passo anch’ella, ma silenziosi. Col rumore dei tacchi confuso fra lo sciamare delle cose del giorno. Gli addii alla luce del sole, nel pieno della vita quotidiana, non fanno rumore, pensò Giorgio, se ne vanno sommersi, come il battere d’una singola goccia d’acqua mentre scroscia la tempesta. Ripensava ad Elena in quel buio che lo invischiava. Ripensò alle sue prime parole, a quelle di lei, a tutti gli attimi di quel loro scoprirsi l’una all’altra. Ripensò alle parole che lei aveva chiamato e lui scritto per lei. Alle mille immagini e metafore di quel loro amore fattosi a poco a poco sorgente, ruscello, e poi fiume, e lago, e mare e poi mare oceano con cavalloni ed onde alti da sovvertire l’ordine del creato e invadere e sconvolgere….. sconvolgere, si, sconvolgere le vite, scuoterle da quel loro torpore e far battere i cuori, di paura, a volte, di speranza. Onde capaci di sferzare la pelle, dischiudere e poi richiuderne i pori, accelerare i liquidi dentro i corpi, il sangue dentro le vene o nelle arterie, seccare le bocche e sudare per l’emozione o gli spasmi dell’amore e poi vedere quel sudore trasformarsi in vapore e sublimare in cielo, si in cielo, là dove i destini degli amanti sembrano compiersi e avere un senso, una meta. Una casa. Ripensò ad Elena in quel buio che lo macchiava, ripensò a quelle conseguenze quasi logiche dove il gridar dei cuori e dei corpi e l’accavallarsi delle voci precede alle volte un silenzio che diventa preludio di addio, un addio che consuma dal di dentro, e corrode le anime e le rende mute. O solamente sorde alle parole dell’altro. Così, colto in quel paradosso Giorgio si fermò un istante. Tacquero i suoi passi e tutto fu silenzio attorno. E provò a domandarsi se quello fosse davvero il silenzio o solamente fosse lui divenuto improvvisamente sordo, incapace di percepire il parlare delle pietre, e della case attorno, e dell’aria immobile, e della terra, dei ciotoli, del selciato. E si trovò a domandarsi se davvero i cani tacessero in lontananza o fosse lui divenuto incapace di ascoltarne il latrare. Forse tutto palava ed era lui, lui soltanto a non riuscire a coglierne il suono. Portò la mano al petto, aprì il palmo e se lo appoggiò sul cuore cercando di percepirne il battito. Ma la pelle era lontana sotto lo spesso giubbotto, ed il maglione e quant’altro ancora la difendeva da quel freddo pungente che s’accompagnava alla notte. Lanciò un urlo per sentirsi gridare. La sua voce si disperse a poco a poco, con una scia, che decadde in breve. Non era sordo, o forse non lo era solo alla sua voce. L’essersi potuto ascoltare lo fece sentire meno solo. Forse non percepiva altro rumore se non se stesso. Ma almeno lui stesso si ascoltava.Forse ascoltarsi e non sentire altro è solo un atto di egoismo. Forse era l’egoismo che aveva invaso i suoi organi ricettori. Le sue orecchio, forse. O qualsiasi cosa gli permettesse di ascoltare. Altre volte avrebbe detto gli occhi, per quanto taluni non l’avessero mai creduto, o, addirittura il cuore. Forse aveva gli occhi ed il cuore pervasi, invasi dal suo egoismo. Forse era diventato egoista e quell’egoismo di allora era .la causa di tutto quel silenzio. Riprese a camminare, ritrovò così anche il rumore dei suoi passi. Anche quel rumore gli apparteneva. Sentì un brivido, la paura d’esser divenuto sordo al mondo esterno lo affollò. Per un istante.Istintivamente temette che il silenzio di Elena non fosse per davvero un silenzio ma soltanto una sua incapacità di ascoltarla. Pensò, immaginò che anche i suoi occhi l’avessero ingannato. Che il profilo che aveva visto allontanarsi e farsi confuso ed inghiottire dal sipario delle cose attorno non fosse quello di lei bensì di un’altra figura, magari un’altra donna o nemmeno un donna chissà. Provò, immaginò che Elena non se ne fosse mai andata ma forse era ancora lì, accanto a lui e lui, soltanto lui non riusciva né a vederla né a sentirla. Lui soltanto lui aveva perso il contatto con la realtà. Appoggiò le spalle al muro e si girò d’attorno. Elena magari era lì accanto. Allungò le braccia, le mani per cercar di afferrarla fra le cose che il bui nascondeva. Nulla rispose a quel gesto. Le sue dita non incontrarono quelle di lei con cui altre volte s’erano intrecciate in giochi ripetuti. Guardò le mani, vuote. Poi le ripose in tasca. Il suono d’una campana squarciò quel velo di buio.Un suono che Giorgio riconobbe e accolse come la fine d’un sortilegio. Ci sentiva, ci sentiva ancora o forse sentiva quella campana. Al più. Pensò era il suo udito  ad essersi fatto, come dire, selettivo. Pensò ad Elena, ancora, all’attimo in cui il suo profilo s’era fatto indistinto. Al punto limite in cui la vista si confonde con l’immaginazione per trasmutar l’immagine in ricordo. Pensò a quell’istante preciso, l’ultimo dove la realtà e la fantasia si contendono il primato. E in quell’istante ricordò un particolare che forse gli era sfuggito. Elena in quel preciso istante s’era girata, si, aveva interrotto il suo cammino da lui verso un punto lontano e s’era voltata a guardarlo. Forse era lo sguardo dell’ultima volta, come di chi lascia un porto o uno scoglio e s’abbandona al mare per non far più ritorno o forse era uno sguardo d’arrivederci altrove, in alto tempo, in altro luogo in altro chissà.  Quanti pensieri affollano la notte, la navigano la invadono. Quanti incroci di variabili s’incontrano nel buio.  Terminò l’eco dell’ultimo rintocco di campana e proprio mentre il silenzio stava per riaffiorare sentì cantare un gallo destatosi d’improvviso. Ad est il cielo stava colorandosi d’un rosato tenue, poi d’un azzurrino.. Girato l’angolo trovò una saracinesca semi alzata. Dal di dentro si sentiva un buon odore di pane appena sfornato. S’abbassò entrò la testa dalla porta socchiusa. :-“avete pane caldo?”- un’anziana signora lo guardò, prese un panino dalla teglia lo posò in un foglio di carta marrone e glie porse. :-“quant’è?”- chiese Giorgio. La donna lo guardò e poi rispose –“hai l’aria stanca di chi ha sofferto e non dorme. Pagalo il prezzo di un sorriso, poi mangialo e coricati, per un sonno sereno. Certe volte i giorni iniziano col terminare d’una notte. Altri quando la notte viene. Ma è sempre un nuovo giorno quello che ci troviamo davanti. Sappilo accogliere con la semplicità del pane caldo e con un sorriso stampato nel cuore”-. Giorgio prese il pane sentì il suo calore fra le mani a poco a poco salirgli dentro. E portò una mano calda al cuore. Fu allora che sorrise alla vecchina. E lei gli rispose con lo stesso sorriso. Dietro di lui un nuovo giorno invadeva l’aria. Il sole si preannunciava coi primi lampi e il cielo non ospitava neanche una nuvola.