Zagara&Pepe

Intermittenze del Cuore


Vengono improvvisi ed imprevisti come il primo bacio preso a prestito sotto quel ponte durante un temporale, o come la sorpresa di aprire la finestra una mattina e scoprire la neve, lì. a Venezia e svegliarla subito dopo con un bacio e la gioia di un bambino che poi sarebbe corso giù, per le calli, con lei a perdifiato, con le gote rosse e le risate squillanti d’un tempo fattosi quasi remoto.-“C’è la neve!, corri!”-  E correre non era un modo di dire dell’anima o del pensiero. Correre era l’intercalare rapido, svelto, dei passi, uno dopo l’altro, e poi l’ansimare caldo, col fiato che s’addensava davanti il viso in vapore ed i polmoni che urlavano  chiedono aiuto ed ancora al tempo stesso, ma tanto, tanto tempo dopo aver lasciato il punto di partenza. Correre era correre a quel tempo, per chilometri e mica per metri, o al più per traversare di fretta una strada.Correre era correre anche tenendosi per mano, fingendo di lasciarsi per ritrovarsi solo pochi metri dopo, per provare il dolore dell’abbandono e la gioia del ritrovarsi, per concordare a turno, muti, senza parlare senza un’esplicita intesa,  il ruolo di preda e di cacciatore.Correre era correre, in un presente pieno di sorprese dove anche l’aria  era sorpresa, figuriamoci una svolta, o un camera, sia pur piccola piccola, con un letto enorme e  la trapunta a fiori e l’armadio cigolante sotto il peso degli anni.Correre era il correre delle mani sui nostri corpi curiosi, e lo stingerci ed il condurci in alto, dove l’alto era solamente volare, almeno, verso un cielo che non si misurava in metri per la sua distanza, che tre, di metri, erano davvero l’infinito. Perché allora volare era essere nel cielo attorno, e a volte superare in altezza pure dio o almeno arrivargli tanto vicino da poterlo guardare in faccia, con un sorriso sornione, altre solamente stupito, per essere arrivati così facilmente tanto in alto.Perché allora era facile volare in cielo come in ogni altro luogo. Ed esserci anzi alle volte voleva dire solo pensare d’esserci. Bastava quella forza infinita, del pensare, che allora non occorreva sforzo, e come d’incanto si era lì e non solo per modo di dire.Pensare era un modo come un altro, forse il migliore, di arrivare. Perché ogni meta era possibile. Poco oltre il dito e a volerlo spingere un poco oltre, il dito, la poteva sfiorare. Mica come il futuro di adesso che molti non lo vedono e nemmeno lo sanno immaginare.Vengono, si diceva prima,  improvvisi come folate di vento avvolte dal profumo d’una zagara che annuncia primavera nelle prima calde giornate.Vengono come lo scirocco e la terra rossa dei prati sabbiosi d’oriente. Vengono come le carezze del mare sulla pelle quando ti sdrai sul bagnasciuga e l’onda lambisce le tue gambe con impudenza insinuandosi per poi ritrarsi, pavida, e ritornare con rinnovato ardire.Vengono come l’intercalare ritmico dei giorni e delle notti, attimi nel continuo del tempo, scanditi da istanti brevi, sommessi, urlati.Vengono come l’alba un mattino mentre tu l’abbracci lungo l’argine d’una roggia padovana e la guardi negli occhi sorridere e in quel sorriso ti perdi confuso che il sole che sorge poco lì ad est non immagina nemmeno di poterti  scaldare allo stesso modo.Vengono così, a frotte come i voli d’uccelli sopra il cielo su un lungo mare che non pare ma c’è, poco distante da Porta Felice, e mentre li guardi, improvvisamente cambiano il verso del volo. Sembrano partire ma poi ritornano verso riva. Sembrano voler fuggire lontani, ma poi rimangono, per un qualche misterioso vezzo di dio o del loro destino, attaccati a quella stessa, solida riva che anche se sai che non è la più bella del mondo, è pur sempre riva. La tua riva.Sono loro, solo loro, gli amori che vale la pena di raccontare. Quelli che sembra svaniscano dentro lo sbuffo d’un velo di nebbia ma poi, basta un niente di sole e ritornano a sorriderti dentro, come il primo giorno, come il primo bacio, come il primo bagno in estate, o la tua prima, unica, caccia alla volpe.