Zampette_blog

Post N° 6


Grazie di cuore per avermi invitata a partecipare a questo bellissimo blog..Riporto di seguito un episodio tratto dal celeberrimo libro di CURZIO MALAPARTE, "LA PELLE" (1949) . Ma non si tratta delle pagine più famose, quelle che riguardano la fame e le miserie di Napoli o l'entrata degli americani a Roma. No, quello che riporto è un episodio se vogliamo minore all'interno dell'opera. Però è quello che mi ha colpito di più: sarà per l'amore che nutro verso i cani e gli animali in genere; sarà perché è una storia in sé triste e meravigliosa, ed un esemplare manifesto delle azioni assurde e nefande che l'uomo compie contro gli animali e la natura. Spero che almeno qualcuno dei lettori del blogriesca a leggere questo brano fino alla fine.Avevo riconosciuto quel silenzio. Nell'invernodel 1940, per fuggire la guerra e gli uomini,per guarirmi di quello schifoso male che laguerra fa nascere nel cuore degli uomini, m'erorifugiato a Pisa, in una casa morta, in fondo auna delle strade più belle e più morte di questabellissima e morta città. Avevo con me Febo, ilmio cane Febo, che avevo raccolto morente difame sulla spiaggia di Marina Corta, nell'isoladi Lipari, che avevo curato, allevato, cresciutonella mia morta casa di Lipari, e m'era statounico compagno durante i miei deserti annid'esilio in quella triste isola, così cara almio cuore.Non ho mai voluto tanto bene a una donna, a unfratello, a un amico, quanto a Febo. Era un canecome me. Per lui ho scritto le pagineaffettuose di 'Un cane come me'. Era un esserenobile, la più nobile creatura che io abbia maiincontrato nella vita. Era di quella famiglia dilevrieri, rari ormai e delicati, venuti inantico dalle rive dell'Asia con le primemigrazioni joniche, che i pastori di Liparichiamano 'cerneghi'. Sono i cani che gliscultori greci scolpivano nei bassorilievitombali. «Cacciano la morte» dicono i pastori diLipari.Aveva il manto del color della luna, roseo edorato, del color della luna sul mare, del colordella luna sulle scure foglie dei limoni edegli aranci, sulle scaglie di quei pesci mortiche il mare, dopo le tempeste, lasciava sullariva, davanti alla porta della mia casa. Avevail colore della luna sul mare greco di Lipari,della luna nel verso dell'Odissea, della luna suquel selvaggio mare di Lipari che Ulisse navigòper giungere alla solitaria riva di Eolo, il redei venti. Del colore della luna morta, pocoprima dell'alba. Lo chiamavo Caneluna.Non si allontanava mai di un sol passo da me. Miseguiva come un cane. Dico che mi seguiva comeun cane. La sua presenza, nella mia povera casadi Lipari, flagellata senza riposo dal vento edal mare, era una presenza meravigliosa. Lanotte, egli illuminava la mia nuda stanza colchiaro tepore dei suoi occhi lunari. Aveva gliocchi di un azzurro pallido, del colore del marequando la luna tramonta. Sentivo la suapresenza come quella di un'ombra, della miaombra. Egli era come il riflesso del miospirito. M'aiutava, con la sua sola presenza, aritrovare quel disprezzo degli uomini, che è laprima condizione della serenità e della saggezzanella vita umana. Sentivo che mi assomigliava,che altro non era se non l'immagine della miacoscienza, della mia vita segreta. Il ritrattodi me stesso, di tutto ciò che v'è di piùprofondo, di più intimo, di più proprio in me:il mio subcosciente e, per così dire, il miospettro.Da lui, assai più che dagli uomini, dalla lorocultura, dalla loro vanità, ho appreso che lamorale è gratuita, che è fine a se stessa, chenon si propose neppure di salvare il mondo(neppure di salvare il mondo!), ma soltanto dicreare sempre nuovi pretesti al suodisinteresse, al suo libero gioco. L'incontro diun uomo e di un cane, è sempre l'incontro didue liberi spiriti, di due forme di dignità, didue morali gratuite. Il più gratuito, e il piùromantico, degli incontri. Di quelli che lamorte illumina del suo pallido splendore, simileal color di una luna morta sul mare, nel cieloverde dell'alba.Riconoscevo in lui i miei moti più misteriosi, imiei istinti segreti, i miei dubbi, i mieispaventi, le mie speranze. Mia era la suadignità di fronte agli uomini, miei il suocoraggio e il suo orgoglio di fronte alla vita,mio il suo disprezzo per i facili sentimentidell'uomo. Ma più di me egli era sensibile aglioscuri presagi della natura, alla invisibilepresenza della morte, che sempre si aggiratacita e sospettosa intorno agli uomini. Eglisentiva venir di lontano per l'aria notturna letristi larve dei sogni, simili a quegli insettimorti che il vento porta non si sa di dove. E incerte notti, accucciato ai miei piedi nella mianuda stanza di Lipari, egli seguiva intorno ame, con gli occhi, una parvenza invisibile, chesi avvicinava, si allontanava, restava lungheore a spiarmi di dietro il vetro della finestra.Ogni tanto, se la misteriosa presenza mi siavvicinava sino a sfiorarmi la fronte, Feboringhiava minaccioso, il pelo irto sul dorso: eio udivo un grido lamentoso allontanarsi nellanotte, morire a poco a poco.Era il più caro dei miei fratelli, il mio verofratello, colui che non tradisce, che nonumilia. Il fratello che ama, che aiuta, checapisce, che perdona. Soltanto chi ha soffertolunghi anni d'esilio in un'isola selvaggia, etornando fra gli uomini si vede schivare efuggir come un lebbroso, da tutti coloro che ungiorno, morto il tiranno, faran gli eroi dellalibertà, soltanto costui sa che cosa può essereun cane per un essere umano. Febo mi fissavaspesso con un rimprovero nobile e triste nel suosguardo affettuoso. Provavo allora una stranavergogna, quasi un rimorso, della mia tristezza,una specie di pudore davanti a lui. Sentivoche, in quei momenti, Febo mi disprezzava: condolore, con un tenero affetto, ma certamentev'era nel suo sguardo un'ombra di pietà e,insieme, di disprezzo. Era non solo il miofratello, ma il mio giudice. Era il custodedella mia dignità, e al tempo stesso, dirò conantica voce greca, il mio 'doruforema'.Era un cane triste, dagli occhi gravi. Tutte lesere passavamo lunghe ore sull'alta sogliaventosa della mia casa, guardando il mare. Oh,il greco mare di Sicilia, oh, la rossa rupe diScilla, là, di fronte a Cariddi, e la vettanevosa dell'Aspromonte, e la spalla candidadell'Etna, Olimpo di Sicilia. Veramente non v'èal mondo, come canta Teocrito, nulla di piùbello che il contemplare dall'alto di una rivail mare di Sicilia. Si accendevano sui monti ifuochi dei pastori, uscivano le barche versol'alto incontro alla luna, e il grido lamentosodella conche marine, con le quali i pescatori sichiamano sul mare, si allontanava nell'argenteacaligine lunare. La luna sorgeva sulla rupe diScilla, e lo Stromboli, l'alto, inaccessibilevulcano in mezzo al mare, divampava come un rogosolitario dentro la profonda foresta turchinadella notte. Noi guardavamo il mare, aspirandol'odore amaro del sale, e l'odore forte einebriante degli aranceti, e l'odore del lattedi capra, dei rami di ginepro accesi neifocolari, e quell'odore caldo e profondo didonna che è l'odore della notte siciliana,quando le prime stelle si levano pallide infondo all'orizzonte.Poi, un giorno, fui condotto con i ferri aipolsi da Lipari a un'altra isola, e di lì, dopolunghi mesi, in Toscana. Febo mi seguì dilontano, nascondendosi fra le botti di alici e irotoli di cordame sul ponte del Santa Marina,il piccolo piroscafo che ogni tanto va da Liparia Napoli, e fra le ceste di pesce e di pomodorisulla barca a motore che fa servizio traNapoli, Ischia e Ponza. Con quel coraggio che èproprio dei vigliacchi, ed è l'unico merito cheabbiano i servi per aver anch'essi diritto allalibertà, la gente si fermava a guardarmi conocchi pieni di rimprovero e di disprezzo,insultandomi fra i denti. Soltanto i"lazzaroni", distesi al sole sulle banchine delporto di Napoli, mi sorridevano di nascosto,sputando in terra fra le scarpe dei carabinieri.Io mi voltavo indietro ogni tanto a guardar seFebo mi seguiva, e lo vedevo camminare con lacoda fra le gambe lungo i muri, per le strade diNapoli, dall'Immacolatella al Molo Beverello,con una meravigliosa tristezza negli occhichiari.A Napoli, mentre camminavo ammanettato fra icarabinieri in Via Partenope, due signore mi siavvicinarono sorridendo: erano la moglie diBenedetto Croce, e Minnie Casella, la moglie delmio caro Gaspare Casella. Mi salutarono con lagentilezza materna delle donne italiane,m'infilarono dei fiori tra le manette e i polsi,e la signora Croce pregò i carabinieri che miconducessero a bere, a rifocillarmi. Erano duegiorni che non mangiavo. «Fatelo almenocamminare all'ombra» disse la signora Croce. Erail mese di giugno, e il sole batteva in testacome un martello. «Grazie, non ho bisogno dinulla» dissi «vi pregherei soltanto di dar dabere al mio cane.»Febo s'era fermato a pochi passi da noi, eguardava in viso la signora Croce conun'intensità quasi dolorosa. Era quella la primavolta che vedeva il viso della bontà umana,della pietà e della cortesia femminili. Fiutò alungo l'acqua, prima di bere. Quando, alcunimesi dopo, venni trasferito a Lucca, fui chiusoin quella prigione, dove rimasi a lungo. Equando uscii in mezzo alle guardie, per essercondotto al mio nuovo luogo di deportazione,Febo mi aspettava davanti alla porta delcarcere, magro e infangato. I suoi occhisplendevano chiari, pieni di un'orribiledolcezza.Altri due anni durò il mio esilio, e per dueanni vivemmo nella piccola casa in fondo albosco, dove in una stanza abitavamo Febo ed io,e nell'altra i carabinieri di guardia.Finalmente riebbi la mia libertà, quel che inquei tempi era la libertà, e per me fu comeuscir da una stanza senza finestre per entrarein una stretta stanza senza mura. Andammo a stardi casa a Roma: e Febo era triste, pareva chelo spettacolo della mia libertà lo umiliasse.Egli sapeva che la libertà non è un fatto umano,che gli uomini non possono, e forse non sanno,esser liberi, che la libertà, in Italia, inEuropa, puzza quanto la schiavitù.* * *Per tutto il tempo che passammo a Pisa,rimanevamo quasi tutto il giorno chiusi in casa,e solo verso mezzogiorno uscivamo a spassolungo il fiume, lungo il bel fiume pisano,l'Arno dal colore d'argento, sui bei Lungarnichiari e freddi: poi andavamo nella Piazza deiMiracoli, dove sorge la torre pendente che faPisa famosa nel mondo. Salivamo sulla torre, edi lassù miravamo la pianura pisana fino aLivorno, fino a Massa, e le pinete, e il marelaggiù, la palpebra lucente del mare, e le AlpiApuane bianche di neve e di marmi. Quello era ilmio paese, quello era il mio paese toscano,quelle erano le mie selve e quello il mio mare,quelli erano i miei monti, quelle le mie terre,quelli i miei fiumi.Verso sera andavamo a sederci sul parapettodell'Arno (quello stretto parapetto di pietrasul quale Lord Byron, durante i suoi giornid'esilio a Pisa, galoppava ogni mattina in sellaal suo bell'alesano, fra le grida di spaventodei quieti cittadini), e guardavamo il fiumescorrere trascinando nella chiara correntefoglie bruciate dall'inverno e le nuvoled'argento dell'antico cielo di Pisa.Febo passava lunghe ore accucciato ai mieipiedi, e ogni tanto si alzava, si avvicinavaalla porta, si voltava a guardarmi. Io andavo adaprirgli la porta: e Febo usciva, tornava dopoun'ora, dopo due ore, ansante, il pelo levigatodal vento, gli occhi schiariti dal freddo soled'inverno. La notte, egli levava il capo adascoltare la voce del fiume, la voce dellapioggia sul fiume. Ed io, talvolta svegliandomi,sentivo su me il suo sguardo tiepido e lieve,quella sua presenza viva e affettuosa nellastanza buia, e quella sua tristezza, quel suodeserto presentimento della morte.Un giorno uscì, e non tornò più. Lo aspettaifino a sera, e scesa la notte corsi per lestrade, chiamandolo per nome. Tornai a casa anotte alta, mi buttai sul letto, col viso versola porta socchiusa. Ogni tanto mi affacciavoalla finestra, e lo chiamavo a lungo, gridando.All'alba corsi nuovamente per le strade deserte,fra le mute facciate delle case che, sotto ilcielo livido, parevano di carta sporca.Non appena si fece giorno, corsi alla prigionemunicipale dei cani. Entrai in una stanzagrigia, dove, chiusi in fetide gabbie, gemevanocani dalla gola ancora segnata dalla stretta dellaccio del chiappino. Il guardiano mi disse cheforse il mio cane era rimasto sotto unamacchina, o era stato rubato, o buttato a fiumeda qualche banda di giovinastri. Mi consigliò difare il giro dei canai, chi sa che Febo non sitrovasse nella bottega di qualche canaio?Tutta la mattina corsi di canaio in canaio, efinalmente un tosacani, in una bottegucciapresso la Piazza dei Cavalieri, mi domandò seero stato alla Clinica Veterinariadell'Università, alla quale i ladri di canivendevano per pochi soldi gli animali destinatialle esperienze cliniche. Corsi all'Università,ma era già passato mezzogiorno, la ClinicaVeterinaria era chiusa. Tornai a casa, misentivo nel cavo degli occhi un che di freddo,di duro, di liscio, mi pareva di aver gli occhidi vetro.Nel pomeriggio tornai all'Università, entrainella Clinica Veterinaria. Il cuore mi batteva,non potevo quasi camminare, tanto ero debole eoppresso dall'ansia. Chiesi del medico diguardia: gli dissi il mio nome. Il medico, ungiovane biondo, miope, dal sorriso stanco, miaccolse cortesemente, e mi fissò a lungo primadi rispondermi che avrebbe fatto tutto ilpossibile per aiutarmi.Aprì una porta, entrammo in una grande stanzanitida, lucida, dal pavimento di linoleumazzurro. Lungo le pareti erano allineate l'una afianco dell'altra, come i letti in una clinicaper bambini, strane culle in forma divioloncello: in ognuna di quelle culle eradisteso sul dorso un cane dal ventre aperto, odal cranio spaccato o dal petto spalancato.Sottili fili di acciaio, avvolti intorno aquella stessa sorta di viti di legno che neglistrumenti musicali servono a tender le corde,tenevano aperte le labbra di quelle orrendeferite: si vedeva il cuore nudo pulsare, ipolmoni, dalle venature dei bronchi simili arami d'albero, gonfiarsi proprio come fa lachioma di un albero nel respiro del vento, ilrosso, lucido fegato contrarsi adagio adagio,lievi fremiti correre sulla polpa bianca e roseadel cervello come in uno specchio appannato, ilgroviglio degli intestini districarsi pigrocome un nodo di serpi all'uscir dal letargo. Enon un gemito usciva dalle bocche socchiuse deicani crocifissi.Al nostro entrare, tutti i cani avevano rivoltogli occhi verso di noi, fissandoci con unosguardo implorante, e al tempo stesso pieno diun atroce sospetto: seguivano con gli occhi ogninostro gesto, ci spiavano le labbra tremando.Immobile in mezzo alla stanza, mi sentivo unsangue gelido salir su per le membra; a poco apoco diventavo di pietra. Non potevo schiuder lelabbra, non potevo muovere un passo. Il medicomi appoggiò la mano sul braccio, mi disse«coraggio». Quella parola mi sciolse il gelodelle ossa, lentamente mi mossi, mi curvai sullaprima culla. E di mano in mano che progredivodi culla in culla, il sangue mi tornava in viso,il cuore mi si apriva alla speranza. A untratto, vidi Febo.Era disteso sul dorso, il ventre aperto, unasonda immersa nel fegato. Mi guardava fisso, egli occhi aveva pieni di lacrime. Aveva nellosguardo una meravigliosa dolcezza. Respiravalievemente, con la bocca socchiusa, scosso da untremito orribile. Mi guardava fisso, e undolore atroce mi scavava il petto. «Febo» dissia voce bassa. E Febo mi guardava con unameravigliosa dolcezza negli occhi. Io vidiCristo in lui, vidi Cristo in lui crocifisso,vidi Cristo che mi guardava con gli occhi pienidi una dolcezza meravigliosa. «Febo» dissi avoce bassa, curvandomi su di lui,accarezzandogli la fronte. Febo mi baciò lamano, e non emise un gemito.Il medico mi si avvicinò, mi toccò il braccio:«Non potrei interrompere l'esperienza» disse «èproibito. Ma per voi... Gli farò una puntura.Non soffrirà».Io presi la mano del medico fra le mie mani, edissi, mentre le lacrime mi rigavano il viso:«Giuratemi che non soffrirà».«Si addormenterà per sempre» disse il medico«vorrei che la mia morte fosse dolce come lasua.»Io dissi: «Chiuderò gli occhi. Non vogliovederlo morire. Ma fate presto, fate presto!».«Un attimo solo» disse il medico, e si allontanòsenza rumore, scivolando sul molle tappeto dilinoleum. Andò in fondo alla stanza, apri unarmadio.Io rimasi in piedi davanti a Febo, tremavoorribilmente, le lacrime mi solcavano il viso.Febo mi guardava fisso, e non il più lievegemito usciva dalla sua gola, mi guardava fissocon una meravigliosa dolcezza negli occhi. Anchegli altri cani, distesi sul dorso nelle loroculle, mi guardavano fisso, tutti avevano negliocchi una dolcezza meravigliosa, e non il piùlieve gemito usciva dalle loro gole.A un tratto, un grido di spavento mi ruppe dalpetto: «Perché questo silenzio?» gridai, «che èquesto silenzio?».Era un silenzio orribile. Un silenzio immenso,gelido, morto, un silenzio di neve.Il medico mi si avvicinò con una siringa inmano: «Prima di operarli» disse «gli tagliano lecorde vocali».
Dio è amore. Chi vive l'amore - solidarietà rimane in Dio e Dio rimane in questa persona" (1Gv 4,16).