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Post N° 6

Post n°6 pubblicato il 15 Novembre 2008 da violadelpensier_1965

Grazie di cuore per avermi invitata
a partecipare a questo bellissimo blog..

Riporto di seguito un episodio tratto dal
celeberrimo libro di CURZIO MALAPARTE,
"LA PELLE" (1949) . Ma non si tratta delle
pagine più famose, quelle che riguardano la
fame e le miserie di Napoli o l'entrata degli
americani a Roma. No, quello che riporto è
un episodio se vogliamo minore all'interno
dell'opera. Però è quello che mi ha colpito
di più: sarà per l'amore che nutro verso i cani
e gli animali in genere; sarà perché è una storia
in sé triste e meravigliosa, ed un esemplare
manifesto delle azioni assurde e nefande che
l'uomo compie contro gli animali e la natura.
Spero che almeno qualcuno dei lettori del blog
riesca a leggere questo brano fino alla fine.

Avevo riconosciuto quel silenzio. Nell'inverno
del 1940, per fuggire la guerra e gli uomini,
per guarirmi di quello schifoso male che la
guerra fa nascere nel cuore degli uomini, m'ero
rifugiato a Pisa, in una casa morta, in fondo a
una delle strade più belle e più morte di questa
bellissima e morta città. Avevo con me Febo, il
mio cane Febo, che avevo raccolto morente di
fame sulla spiaggia di Marina Corta, nell'isola
di Lipari, che avevo curato, allevato, cresciuto
nella mia morta casa di Lipari, e m'era stato
unico compagno durante i miei deserti anni
d'esilio in quella triste isola, così cara al
mio cuore.

Non ho mai voluto tanto bene a una donna, a un
fratello, a un amico, quanto a Febo. Era un cane
come me. Per lui ho scritto le pagine
affettuose di 'Un cane come me'. Era un essere
nobile, la più nobile creatura che io abbia mai
incontrato nella vita. Era di quella famiglia di
levrieri, rari ormai e delicati, venuti in
antico dalle rive dell'Asia con le prime
migrazioni joniche, che i pastori di Lipari
chiamano 'cerneghi'. Sono i cani che gli
scultori greci scolpivano nei bassorilievi
tombali. «Cacciano la morte» dicono i pastori di
Lipari.

Aveva il manto del color della luna, roseo e
dorato, del color della luna sul mare, del color
della luna sulle scure foglie dei limoni e
degli aranci, sulle scaglie di quei pesci morti
che il mare, dopo le tempeste, lasciava sulla
riva, davanti alla porta della mia casa. Aveva
il colore della luna sul mare greco di Lipari,
della luna nel verso dell'Odissea, della luna su
quel selvaggio mare di Lipari che Ulisse navigò
per giungere alla solitaria riva di Eolo, il re
dei venti. Del colore della luna morta, poco
prima dell'alba. Lo chiamavo Caneluna.

Non si allontanava mai di un sol passo da me. Mi
seguiva come un cane. Dico che mi seguiva come
un cane. La sua presenza, nella mia povera casa
di Lipari, flagellata senza riposo dal vento e
dal mare, era una presenza meravigliosa. La
notte, egli illuminava la mia nuda stanza col
chiaro tepore dei suoi occhi lunari. Aveva gli
occhi di un azzurro pallido, del colore del mare
quando la luna tramonta. Sentivo la sua
presenza come quella di un'ombra, della mia
ombra. Egli era come il riflesso del mio
spirito. M'aiutava, con la sua sola presenza, a
ritrovare quel disprezzo degli uomini, che è la
prima condizione della serenità e della saggezza
nella vita umana. Sentivo che mi assomigliava,
che altro non era se non l'immagine della mia
coscienza, della mia vita segreta. Il ritratto
di me stesso, di tutto ciò che v'è di più
profondo, di più intimo, di più proprio in me:
il mio subcosciente e, per così dire, il mio
spettro.

Da lui, assai più che dagli uomini, dalla loro
cultura, dalla loro vanità, ho appreso che la
morale è gratuita, che è fine a se stessa, che
non si propose neppure di salvare il mondo
(neppure di salvare il mondo!), ma soltanto di
creare sempre nuovi pretesti al suo
disinteresse, al suo libero gioco. L'incontro di
un uomo e di un cane, è sempre l'incontro di
due liberi spiriti, di due forme di dignità, di
due morali gratuite. Il più gratuito, e il più
romantico, degli incontri. Di quelli che la
morte illumina del suo pallido splendore, simile
al color di una luna morta sul mare, nel cielo
verde dell'alba.

Riconoscevo in lui i miei moti più misteriosi, i
miei istinti segreti, i miei dubbi, i miei
spaventi, le mie speranze. Mia era la sua
dignità di fronte agli uomini, miei il suo
coraggio e il suo orgoglio di fronte alla vita,
mio il suo disprezzo per i facili sentimenti
dell'uomo. Ma più di me egli era sensibile agli
oscuri presagi della natura, alla invisibile
presenza della morte, che sempre si aggira
tacita e sospettosa intorno agli uomini. Egli
sentiva venir di lontano per l'aria notturna le
tristi larve dei sogni, simili a quegli insetti
morti che il vento porta non si sa di dove. E in
certe notti, accucciato ai miei piedi nella mia
nuda stanza di Lipari, egli seguiva intorno a
me, con gli occhi, una parvenza invisibile, che
si avvicinava, si allontanava, restava lunghe
ore a spiarmi di dietro il vetro della finestra.
Ogni tanto, se la misteriosa presenza mi si
avvicinava sino a sfiorarmi la fronte, Febo
ringhiava minaccioso, il pelo irto sul dorso: e
io udivo un grido lamentoso allontanarsi nella
notte, morire a poco a poco.

Era il più caro dei miei fratelli, il mio vero
fratello, colui che non tradisce, che non
umilia. Il fratello che ama, che aiuta, che
capisce, che perdona. Soltanto chi ha sofferto
lunghi anni d'esilio in un'isola selvaggia, e
tornando fra gli uomini si vede schivare e
fuggir come un lebbroso, da tutti coloro che un
giorno, morto il tiranno, faran gli eroi della
libertà, soltanto costui sa che cosa può essere
un cane per un essere umano. Febo mi fissava
spesso con un rimprovero nobile e triste nel suo
sguardo affettuoso. Provavo allora una strana
vergogna, quasi un rimorso, della mia tristezza,
una specie di pudore davanti a lui. Sentivo
che, in quei momenti, Febo mi disprezzava: con
dolore, con un tenero affetto, ma certamente
v'era nel suo sguardo un'ombra di pietà e,
insieme, di disprezzo. Era non solo il mio
fratello, ma il mio giudice. Era il custode
della mia dignità, e al tempo stesso, dirò con
antica voce greca, il mio 'doruforema'.

Era un cane triste, dagli occhi gravi. Tutte le
sere passavamo lunghe ore sull'alta soglia
ventosa della mia casa, guardando il mare. Oh,
il greco mare di Sicilia, oh, la rossa rupe di
Scilla, là, di fronte a Cariddi, e la vetta
nevosa dell'Aspromonte, e la spalla candida
dell'Etna, Olimpo di Sicilia. Veramente non v'è
al mondo, come canta Teocrito, nulla di più
bello che il contemplare dall'alto di una riva
il mare di Sicilia. Si accendevano sui monti i
fuochi dei pastori, uscivano le barche verso
l'alto incontro alla luna, e il grido lamentoso
della conche marine, con le quali i pescatori si
chiamano sul mare, si allontanava nell'argentea
caligine lunare. La luna sorgeva sulla rupe di
Scilla, e lo Stromboli, l'alto, inaccessibile
vulcano in mezzo al mare, divampava come un rogo
solitario dentro la profonda foresta turchina
della notte. Noi guardavamo il mare, aspirando
l'odore amaro del sale, e l'odore forte e
inebriante degli aranceti, e l'odore del latte
di capra, dei rami di ginepro accesi nei
focolari, e quell'odore caldo e profondo di
donna che è l'odore della notte siciliana,
quando le prime stelle si levano pallide in
fondo all'orizzonte.

Poi, un giorno, fui condotto con i ferri ai
polsi da Lipari a un'altra isola, e di lì, dopo
lunghi mesi, in Toscana. Febo mi seguì di
lontano, nascondendosi fra le botti di alici e i
rotoli di cordame sul ponte del Santa Marina,
il piccolo piroscafo che ogni tanto va da Lipari
a Napoli, e fra le ceste di pesce e di pomodori
sulla barca a motore che fa servizio tra
Napoli, Ischia e Ponza. Con quel coraggio che è
proprio dei vigliacchi, ed è l'unico merito che
abbiano i servi per aver anch'essi diritto alla
libertà, la gente si fermava a guardarmi con
occhi pieni di rimprovero e di disprezzo,
insultandomi fra i denti. Soltanto i
"lazzaroni", distesi al sole sulle banchine del
porto di Napoli, mi sorridevano di nascosto,
sputando in terra fra le scarpe dei carabinieri.
Io mi voltavo indietro ogni tanto a guardar se
Febo mi seguiva, e lo vedevo camminare con la
coda fra le gambe lungo i muri, per le strade di
Napoli, dall'Immacolatella al Molo Beverello,
con una meravigliosa tristezza negli occhi
chiari.

A Napoli, mentre camminavo ammanettato fra i
carabinieri in Via Partenope, due signore mi si
avvicinarono sorridendo: erano la moglie di
Benedetto Croce, e Minnie Casella, la moglie del
mio caro Gaspare Casella. Mi salutarono con la
gentilezza materna delle donne italiane,
m'infilarono dei fiori tra le manette e i polsi,
e la signora Croce pregò i carabinieri che mi
conducessero a bere, a rifocillarmi. Erano due
giorni che non mangiavo. «Fatelo almeno
camminare all'ombra» disse la signora Croce. Era
il mese di giugno, e il sole batteva in testa
come un martello. «Grazie, non ho bisogno di
nulla» dissi «vi pregherei soltanto di dar da
bere al mio cane.»

Febo s'era fermato a pochi passi da noi, e
guardava in viso la signora Croce con
un'intensità quasi dolorosa. Era quella la prima
volta che vedeva il viso della bontà umana,
della pietà e della cortesia femminili. Fiutò a
lungo l'acqua, prima di bere. Quando, alcuni
mesi dopo, venni trasferito a Lucca, fui chiuso
in quella prigione, dove rimasi a lungo. E
quando uscii in mezzo alle guardie, per esser
condotto al mio nuovo luogo di deportazione,
Febo mi aspettava davanti alla porta del
carcere, magro e infangato. I suoi occhi
splendevano chiari, pieni di un'orribile
dolcezza.
Altri due anni durò il mio esilio, e per due
anni vivemmo nella piccola casa in fondo al
bosco, dove in una stanza abitavamo Febo ed io,
e nell'altra i carabinieri di guardia.
Finalmente riebbi la mia libertà, quel che in
quei tempi era la libertà, e per me fu come
uscir da una stanza senza finestre per entrare
in una stretta stanza senza mura. Andammo a star
di casa a Roma: e Febo era triste, pareva che
lo spettacolo della mia libertà lo umiliasse.
Egli sapeva che la libertà non è un fatto umano,
che gli uomini non possono, e forse non sanno,
esser liberi, che la libertà, in Italia, in
Europa, puzza quanto la schiavitù.

* * *

Per tutto il tempo che passammo a Pisa,
rimanevamo quasi tutto il giorno chiusi in casa,
e solo verso mezzogiorno uscivamo a spasso
lungo il fiume, lungo il bel fiume pisano,
l'Arno dal colore d'argento, sui bei Lungarni
chiari e freddi: poi andavamo nella Piazza dei
Miracoli, dove sorge la torre pendente che fa
Pisa famosa nel mondo. Salivamo sulla torre, e
di lassù miravamo la pianura pisana fino a
Livorno, fino a Massa, e le pinete, e il mare
laggiù, la palpebra lucente del mare, e le Alpi
Apuane bianche di neve e di marmi. Quello era il
mio paese, quello era il mio paese toscano,
quelle erano le mie selve e quello il mio mare,
quelli erano i miei monti, quelle le mie terre,
quelli i miei fiumi.

Verso sera andavamo a sederci sul parapetto
dell'Arno (quello stretto parapetto di pietra
sul quale Lord Byron, durante i suoi giorni
d'esilio a Pisa, galoppava ogni mattina in sella

al suo bell'alesano, fra le grida di spavento
dei quieti cittadini), e guardavamo il fiume
scorrere trascinando nella chiara corrente
foglie bruciate dall'inverno e le nuvole
d'argento dell'antico cielo di Pisa.

Febo passava lunghe ore accucciato ai miei
piedi, e ogni tanto si alzava, si avvicinava
alla porta, si voltava a guardarmi. Io andavo ad
aprirgli la porta: e Febo usciva, tornava dopo
un'ora, dopo due ore, ansante, il pelo levigato
dal vento, gli occhi schiariti dal freddo sole
d'inverno. La notte, egli levava il capo ad
ascoltare la voce del fiume, la voce della
pioggia sul fiume. Ed io, talvolta svegliandomi,
sentivo su me il suo sguardo tiepido e lieve,
quella sua presenza viva e affettuosa nella
stanza buia, e quella sua tristezza, quel suo
deserto presentimento della morte.

Un giorno uscì, e non tornò più. Lo aspettai
fino a sera, e scesa la notte corsi per le
strade, chiamandolo per nome. Tornai a casa a
notte alta, mi buttai sul letto, col viso verso
la porta socchiusa. Ogni tanto mi affacciavo
alla finestra, e lo chiamavo a lungo, gridando.
All'alba corsi nuovamente per le strade deserte,
fra le mute facciate delle case che, sotto il
cielo livido, parevano di carta sporca.

Non appena si fece giorno, corsi alla prigione
municipale dei cani. Entrai in una stanza
grigia, dove, chiusi in fetide gabbie, gemevano
cani dalla gola ancora segnata dalla stretta del
laccio del chiappino. Il guardiano mi disse che
forse il mio cane era rimasto sotto una
macchina, o era stato rubato, o buttato a fiume
da qualche banda di giovinastri. Mi consigliò di
fare il giro dei canai, chi sa che Febo non si
trovasse nella bottega di qualche canaio?

Tutta la mattina corsi di canaio in canaio, e
finalmente un tosacani, in una botteguccia
presso la Piazza dei Cavalieri, mi domandò se
ero stato alla Clinica Veterinaria
dell'Università, alla quale i ladri di cani
vendevano per pochi soldi gli animali destinati
alle esperienze cliniche. Corsi all'Università,
ma era già passato mezzogiorno, la Clinica
Veterinaria era chiusa. Tornai a casa, mi
sentivo nel cavo degli occhi un che di freddo,
di duro, di liscio, mi pareva di aver gli occhi
di vetro.

Nel pomeriggio tornai all'Università, entrai
nella Clinica Veterinaria. Il cuore mi batteva,
non potevo quasi camminare, tanto ero debole e
oppresso dall'ansia. Chiesi del medico di
guardia: gli dissi il mio nome. Il medico, un
giovane biondo, miope, dal sorriso stanco, mi
accolse cortesemente, e mi fissò a lungo prima
di rispondermi che avrebbe fatto tutto il
possibile per aiutarmi.

Aprì una porta, entrammo in una grande stanza
nitida, lucida, dal pavimento di linoleum
azzurro. Lungo le pareti erano allineate l'una a
fianco dell'altra, come i letti in una clinica
per bambini, strane culle in forma di
violoncello: in ognuna di quelle culle era
disteso sul dorso un cane dal ventre aperto, o
dal cranio spaccato o dal petto spalancato.

Sottili fili di acciaio, avvolti intorno a
quella stessa sorta di viti di legno che negli
strumenti musicali servono a tender le corde,
tenevano aperte le labbra di quelle orrende
ferite: si vedeva il cuore nudo pulsare, i
polmoni, dalle venature dei bronchi simili a
rami d'albero, gonfiarsi proprio come fa la
chioma di un albero nel respiro del vento, il
rosso, lucido fegato contrarsi adagio adagio,
lievi fremiti correre sulla polpa bianca e rosea
del cervello come in uno specchio appannato, il
groviglio degli intestini districarsi pigro
come un nodo di serpi all'uscir dal letargo. E
non un gemito usciva dalle bocche socchiuse dei
cani crocifissi.

Al nostro entrare, tutti i cani avevano rivolto
gli occhi verso di noi, fissandoci con uno
sguardo implorante, e al tempo stesso pieno di
un atroce sospetto: seguivano con gli occhi ogni
nostro gesto, ci spiavano le labbra tremando.
Immobile in mezzo alla stanza, mi sentivo un
sangue gelido salir su per le membra; a poco a
poco diventavo di pietra. Non potevo schiuder le
labbra, non potevo muovere un passo. Il medico
mi appoggiò la mano sul braccio, mi disse
«coraggio». Quella parola mi sciolse il gelo
delle ossa, lentamente mi mossi, mi curvai sulla
prima culla. E di mano in mano che progredivo
di culla in culla, il sangue mi tornava in viso,
il cuore mi si apriva alla speranza. A un
tratto, vidi Febo.

Era disteso sul dorso, il ventre aperto, una
sonda immersa nel fegato. Mi guardava fisso, e
gli occhi aveva pieni di lacrime. Aveva nello
sguardo una meravigliosa dolcezza. Respirava
lievemente, con la bocca socchiusa, scosso da un
tremito orribile. Mi guardava fisso, e un
dolore atroce mi scavava il petto. «Febo» dissi
a voce bassa. E Febo mi guardava con una
meravigliosa dolcezza negli occhi. Io vidi
Cristo in lui, vidi Cristo in lui crocifisso,
vidi Cristo che mi guardava con gli occhi pieni
di una dolcezza meravigliosa. «Febo» dissi a
voce bassa, curvandomi su di lui,
accarezzandogli la fronte. Febo mi baciò la
mano, e non emise un gemito.

Il medico mi si avvicinò, mi toccò il braccio:
«Non potrei interrompere l'esperienza» disse «è
proibito. Ma per voi... Gli farò una puntura.
Non soffrirà».

Io presi la mano del medico fra le mie mani, e
dissi, mentre le lacrime mi rigavano il viso:
«Giuratemi che non soffrirà».

«Si addormenterà per sempre» disse il medico
«vorrei che la mia morte fosse dolce come la
sua.»

Io dissi: «Chiuderò gli occhi. Non voglio
vederlo morire. Ma fate presto, fate presto!».

«Un attimo solo» disse il medico, e si allontanò
senza rumore, scivolando sul molle tappeto di
linoleum. Andò in fondo alla stanza, apri un
armadio.

Io rimasi in piedi davanti a Febo, tremavo
orribilmente, le lacrime mi solcavano il viso.
Febo mi guardava fisso, e non il più lieve
gemito usciva dalla sua gola, mi guardava fisso
con una meravigliosa dolcezza negli occhi. Anche
gli altri cani, distesi sul dorso nelle loro
culle, mi guardavano fisso, tutti avevano negli
occhi una dolcezza meravigliosa, e non il più
lieve gemito usciva dalle loro gole.

A un tratto, un grido di spavento mi ruppe dal
petto: «Perché questo silenzio?» gridai, «che è
questo silenzio?».

Era un silenzio orribile. Un silenzio immenso,
gelido, morto, un silenzio di neve.

Il medico mi si avvicinò con una siringa in
mano: «Prima di operarli» disse «gli tagliano le
corde vocali».

Dio è amore. Chi vive l'amore - solidarietà rimane in Dio e Dio rimane in questa persona" (1Gv 4,16).

 
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