zona a rischio

Un cuore semplice


Un cuore semplice Un cuore semplice è una perfetta esemplificazione - quasi un caso da manuale - di come la qualità dell'interpretazione non basti a sostenere uno spettacolo se non
funziona il testo, se non funziona la regia, o se entrambi gli elementi si rivelano insufficienti. In questo monologo Maria Paiato è brava, bravissima, forse persino più brava che in altre occasioni: la sua bravura diventa però addirittura irritante nel momento in cui viene applicata a un copione che sciorina sentimentalismo a piene mani, ma neppure per un attimo riesce a dare la vaga sensazione di trasmettere un significato, di riflettere un'autentica emozione.A chi sarà venuta l'infelice idea di spingere l'attrice a cercare di ricalcare i caratteri di un personaggio che le ha dato successo, la Maria Zanella, attingendo a questo racconto di Flaubert? Portata in palcoscenico, la storia dell'ingenua campagnola che diventa la domestica di una ricca signora, e passa la sua intera vita nella casa di quest'ultima assistendo alla morte dell'amata figlia di lei, poi del proprio nipote stroncato dalla febbre gialla nelle Americhe, poi dell'adorato pappagallo Lulù - con l'intermezzo del suo unico uomo che sposa un'altra - si trasforma in un monotono catalogo di disgrazie, uno sterile esercizio di retorica del cordoglio.La vicenda non è solo priva delle più elementari risorse teatrali, statica, ripetitiva, priva di una qualsiasi progressione drammatica in virtù della quale l'azione, prima o poi, trovi uno sbocco, uno scarto rispetto alla situazione di partenza: è soprattutto costruita su una serie di effetti melodrammatici di un anacronismo quasi offensivo, che tanto più risalta se inserito in una rassegna, come questa del Teatro Franco Parenti - che si intitola "Racconto italiano" e vuole riflettere sulla nostra società di oggi. Avrà qualcosa a che fare con la nostra società di oggi il pappagallo Lulù che si trasforma alla fine nella colomba dello Spirito Santo?Alle prese con una simile materia, la Paiato adotta uno stile di recitazione cui forse solo il leggendario Ermete Zacconi - quello che andava nei manicomi a studiare le turbe e le convulsioni dei pazzi - si sarebbe volentieri abbandonato: agonizza, tossisce, ha le visioni, rantola come il Firs di Renzo Ricci nel finale del Giardino dei ciliegi. Ovviamente, da artista di talento, lo fa benissimo. Ma proprio in quanto artista di talento si assume una scomoda responsabilità: questo sfoggio di istrionismo, assecondato dalla pallida regia di Luca De Bei, non è innocuo, riporta il pubblico a dei cliché ottocenteschi che sono regressivi, fuori dalla storia. di Renato Palazzi