Truncare sas cadenascun sa limba e sa cultura sarda - de Frantziscu Casula. |
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Messaggi di Gennaio 2016
Post n°855 pubblicato il 30 Gennaio 2016 da asu1000
Eliseo Spiga, l'intellettuale controcorrente. di Francesco Casula. Inizio con l'analisi del suo romanzo: Capezzoli di pietra Capezzoli di pietra è un avvincente e suggestivo romanzo costruito con fraseggiare, periodare e passaggi agili e felici; con un lessico acuminato, con straordinari intrecci che hanno inizio, si interrompono, si intessono di nuovo, si spezzano e infine si risolvono, facendo abbondante uso dei flash-back. Con soluzioni linguistiche e prosadiche fortemente personali: perché Spiga ha pochissimi debiti con la cultura accademica e difficilmente gli si può attagliare qualche "ismo" tradizionale. Spiga si ribella allo sfacelo e alla società alienata della apparente razionalità capitalistica del sistema economico e sociale occidentale. In altre parole non si conforma e non si arrende alle logiche e alle ragioni della modernizzazione tecnicista, al mito dello Stato e del mercato, al dio moneta: ma non in nome di qualche società perfetta e ideale, di qualche "città del sole" utopica - alla Tommaso Moro o alla Campanella, tanto per intenderci - bensì della comunità nuragica, della sua organizzazione politica e sociale, della sua economia e dei suoi valori. Il tema che attraverserà l'intero romanzo è annunciato solennemente ed affermato apoditticamente fin dalla prima pagina e dal primo capitolo che sopra si riporta: "I miti della moneta e dello stato, che erano affluiti in cielo per oltre 50 secoli da tutti i punti dell'orizzonte e che si erano addossati gli uni agli altri fino a formare un'unica coltre, quasi un altro cielo, si squarciavano fragorosamente e rovesciavano sulla terra grandine vento e fuoco". La razionalità del sistema, la visione rettilinea e lineare della storia, la fede , sono fatte a pezzi, ridotte in frantumi, fin dall'esordio del romanzo. La civiltà industriale, - o più propriamente l'inciviltà industriale, per usare un'espressione del grande scrittore italiano PaoloVolponi- produce infatti immani catastrofi, mostruosi disastri, ciclopiche sciagure. L'Ordigno -questa è la potente immagine e il simbolo che Spiga utilizza per riassumere il trinomio città/stato/moneta- cui si oppone l'Organismo, ovvero la triade campagna/comunità/beni d'uso, ha creato nuove barbarie: la pascoliana "truce ora dei lupi". La Sardegna è diventata così "un atollo nuclearizzato" in mezzo al mediterraneo e "l'occhio vitreo" dell'Ordigno, da milioni di teleschermi impone ordini sul mangiare, sul vestire, sul pensiero e sul sapere. Perché vuole ridurre tutto all'unità: "Un mondo. Una legge. Un'umanità indistinta, Una coscienza frollata. Un paesaggio spianato,. Una luce fredda". Insieme nelle città "persino l'aria scarseggiava e l'acqua era diventata quasi un articolo da farmacia". Cagliari è distrutta da un uragano di fuoco e di acqua e Nurgulè - il protagonista del romanzo è "trasportato dal diluvio come arca inzuppata, sullo sperone più alto del promontorio di Sant'Elia, nella sfera del delirio, al di là del tempo e dello spazio". Perché - ecco un altro suggestivo tema del romanzo - l'uomo contemporaneo non è più in nessun luogo e il tempo non sa ormai cosa sia. La moderna inciviltà urbana e industriale crea infatti sradicamento, estraneità, tragica solitudine, costante declino di tutti i valori, perdita orribile e insanabile del senso della totalità, disperante lacerazione e cancrena dell'individuo. E insieme cancella la dimensione del tempo storico: sia lo spessore del passato che la prospettiva del futuro, riducendo tutto a un presente astorico e senza tempo. A fronte di tale catastrofe e disfatta, Nurgulè rientra nel ventre materno e risale il tempo, con il suo spirito disincarnato, fino all'origine della biforcazione fatale in cui si era smarrita una parte dell'Umanità. Ritorna così al mondo delle origini, al mondo della natura, a uno splendido passato di bellezza: che ci lascia un'impressione di letizia, come se avessimo attraversato un paese amabile e felice. Il periodo nuragico, la società nuragica è infatti vista, descritta, rappresentata, cantata e celebrata nel romanzo come l'età dell'oro, arcana e felice,- soprattutto a confronto con
il buio del presente - solcata com'è da lampi di magia che creano nel lettore stati d'incanto. E' la civiltà della sovranità comunitaria, che non costruisce città ma villaggi, perché "la città è ostile alla terra, agli alberi, agli animali e inselvatichisce gli uomini, pretende tributi insopportabili per accrescere le sue magnificenze...crea i funzionari del tempio e del sovrano...i servi e gli schiavi". E' la civiltà della gestione comunitaria delle risorse, della democrazia, dell'egalitarismo, dei rapporti amichevoli con gli altri popoli del Mediterraneo. E' la civiltà che rispetta l'ambiente, la natura, gli equilibri dell'ecosistema, della terra perché "non ci appartiene e siamo noi che le apparteniamo, siamo solo i suoi figli e non i suoi padroni". E' la civiltà che identifica la Comunità e la Nazione sarda con i suoi nuraghi, "fiaccole perenni di indipendenza", simbolo "della libertà eterna della Confederazione delle Comunità nuragiche" che si oppone "alla pretesa eternità delle monarchie divine raffigurate dalle piramidi nilotiche". E' la civiltà con il suo peculiare idioma, che sarà e proibito dai Romani, che avevano decretato il taglio della lingua e la crocifissione per chiunque fosse stato sorpreso a pronunciare una parola nuragica. "Le croci da quel momento furono i nuovi alberi piantati dallo stato: Ne furono piantati dovunque e in tutte le stagioni. Ciascuna di esse riguardava l'obbligo del mutismo. E col l'abolizione della lingua si dissolveva anche l'ultimo segno di riconoscimento e di appartenenza alla Comunità. Un mutismo che sapeva di peste. E la peste spingeva tutti verso l'ebetudine, dissecava il pensiero, calcificava le idee, annientava la creatività". Si tratta solo di lacerti lirici e onirici? Di struggente nostalgia per un antico splendore? Di una favola - sia pure bella - che Spiga sogna, invoca, almanacca, come una necessità fantastica e biologica, ma pur sempre una favola? L'invocazione di un mondo salvo e salvifico, di una tana, di un'arca di Noè per salvarci dalla disumanizzazione di una realtà dominata dall'Ordigno? Certo, può darsi. Ma non solo. E comunque se di favola si tratta, è una favola che parla di noi, di noi sardi e di noi uomini e donne del 2007. Dei nostri problemi. Delle nostre
FINE DEL REGNUM SARDINIAE [tratto da La Sardità come utopia- note di un cospiratore, Ed. CUEC, Cagliari 2006 pagine 151-154]. "L'evento politicamente più significativo dell'Ottocento sardo è senza dubbio la perfetta fusione, 29 novembre 1847, della Sardegna con gli Stati sabaudi di Terraferma e la fine del Regnum Sardiniae. Il pretesto per decretare la fusione fu dato dalle manifestazioni pubbliche di Cagliari e Sassari per invocare che venissero estese alla Sardegna riforme liberali quali l'attenuazione della censura sulla stampa, la limitazione degli abusi polizieschi e qualche libertà commerciale. Dentro la cortina fumogena del riformismo liberale europeo, avanzavano, in posizione preminente, i nobili ex-feudali che, illecitamente arricchitisi con la cessione dei feudi in cambio d'esorbitanti compensi, ritenevano più garantite le loro rendite dalle finanze piemontesi piuttosto che da quelle sarde. In prima fila c'erano anche vescovi e preti, impiegati statali desiderosi di carriera e di migliori stipendi, un po' d'avvocati e altri professionisti in cerca di lustrini, commercianti e affaristi, specialmente continentali, razzolanti sempre più numerosi nelle aie sarde, e, infine, coro vociante e allucinato, folti gruppi di studenti universitari opportunamente masturbati dai gesuiti. Ad una delegazione di quest'accozzaglia reazionaria, espressa dagli Stamenti, ormai ridotti a stato larvale, e da alcuni consigli comunali, sua Maestà Carlo Alberto espettorò con paterna tenerezza la sua intenzione di formare con Sardi e Piemontesi, e qualche altro, una sola famiglia. In effetti, al Re erano state presentate, in seguito ad una perfida manipolazione che si abbracciava con la perfida malafede del sovrano, non tanto programmi riformatori quanto la richiesta di perfetta fusione. In altre parole, gli autori della iniziativa scellerata, dichiaravano la rinuncia dei Sardi, commenta Girolamo Sotgiu, a quella indipendenza nazionale che aragonesi e spagnoli avevano secolarmente rispettato e che il regno sabaudo non aveva osato mettere in discussione anche se l'aveva svuotata di contenuto. La Sardegna, che era stata un regno con relativa autonomia all'interno del grande Impero di iberica magnificenza, si ritrovò ad essere provincia di uno staterello ottuso e famelico. E finì così, in una bolla regale, il Regnum sortito da una Bolla pontificia. I Sardi, ovviamente, erano tutt'altro che convinti della rinuncia. Da più parti furono minacciati, ai piemontesi un'altra edizione dello scommiato del 1794, e ai gesuiti espulsione e morte, mentre i contadini scalpitavano all'idea della imminente sollevazione. Da Teulada vennero a Cagliari in moltissimi credendo di dover partecipare
alla rivolta. A Selargius c'erano cinquecento uomini armati sul piede di guerra e circa ottocento ce n'erano ad Aritzo, Orgosolo e Fonni. La Sardegna contadina, osserva ancora Sotgiu, sembrava rivivere l'ansia e la speranza dei giorni esaltanti dell'Angioy, pronta ancora una volta a scendere in armi per la sarda rigenerazione. Gli avvenimenti, com'è noto, presero tutt'altra piega. Il tenente generale Alberto La Marmora, proprio quello del Voyage en Sardaigne, giunse, ai primi del 1849, come commissario regio per pacificare l'Isola scossa da continui tumulti esplosi dalle gravissime condizioni economiche e anche da rinnovati sentimenti repubblicani filofrancesi. Conservatore e militaresco, il Generale si dedicò alla pacificazione affrontando il dissenso e la protesta con la repressione più brutale e la violazione sistematica delle meschine libertà statutarie. Per lui lo stato d'assedio divenne sistema di governo inaugurando la pratica della dittatura militare che, poco più di dieci anni dopo, diventerà usuale durante la guerra di conquista del Mezzogiorno da parte della monarchia italiana. Il 24 febbraio del 1852, lo stato d'assedio, con l'invio del generale Durando e di 500 soldati, fu imposto su tutta la provincia di Sassari per domare le agitazioni che vi si erano accese. Ancora nel 1855, lo stato d'assedio fu proclamato ad Oschiri per l'omicidio di un ingegnere. Nel frattempo, tanto per non dimenticare, venne ribadito il divieto della lingua sarda e, da una Corte reale che parlava francese, fu confermato l'obbligo dell'italiano già in vigore dal 19 maggio 1726 con l'incarico al gesuita Antonio Falletti di provvedere con un suo piano. Evidentemente, non era l'amore per la lingua italiana che spingeva la Corte, ma la preoccupazione per la lingua che alimentava una cultura politica popolare di cui conoscevano bene la verve eversiva. Perciò, la Corte soffiava sempre sulla propaganda razzistica contro i sardi ancora più brutti, sporchi, cattivi e anche pelosi, persino le donne avevano lunghi baffoni ed erano capaci di sparare da cavallo, e già diventati pocos, locos y malunidos. Ma ormai Annibale è alle porte, come dicevano i sardisti quando temevano o si inventavano un pericolo, e si prepara il tempo in cui le catastrofi dei sardi da grandi si sarebbero trasformate in grandissime e, forse, irreparabili. La Sardegna diventa subito terreno di conquista e di caccia per i nuovi capitali mercantili e industriali che la politica affaristica della Corte sabauda aveva mobilitato nei mercati finanziari d'oltralpe per dare sostegno al progetto cavourriano dell'Unità nazionale. Il sogno dell'indipendenza finisce nella soffitta o nascosto in qualche piega della coscienza. La dipendenza della Sardegna diventa totale, generale. Da dipendenti del Piemonte passiamo alle dipendenze di tutte le regioni del Nord-Italia e dei loro affaristi e speculatori. E, oggi, esiste al mondo qualcosa, qualche potere o volere, da cui non dipendiamo? Ma questo non è lo status di una colonia? Lo Stato italiano, sin dai suoi primi mugolii, considerò la Sardegna come una sua appendice molto incerta, una colonia insomma e come tale barattabile. La cessione ai francesi fu ipotizzata per molto tempo. Quella a favore degli inglesi con minore convinzione. A quando la cessione piena agli Stati Uniti d'America?"
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Post n°854 pubblicato il 25 Gennaio 2016 da asu1000
In occasione del Giorno della memoria che sarà celebrato il 27 gennaio prossimi mi piace pubblicare un articolo di Emilio Lussu su:
"Sardegna, Ebrei e «razza italiana»"
Giustizia e Libertà, 21 ottobre 1938
Le Journal des Débats pubblica, tra il serio ed il faceto, uno scritto in cui si attribuisce a Mussolini il proposito di relegare in Sardegna tutti gli ebrei italiani. Con i tempi che corrono, queste cose vanno prese sempre sul serio. Come sardo, nato in Sardegna e rappresentante di sardi, io mi considero direttamente interessato [...] .
Così stando le cose, è troppo giusto che gli ebrei italiani vengano a finire in Sardegna: essi sono i nostri più prossimi congiunti. Per conto nostro, noi non sentiamo che pura gioia. Essi saranno accolti da fratelli. La famiglia semitica uscirà rafforzata da questa nuova fusione. Semitici con semitici, ariani con ariani.
Mussolini va lodato per tale iniziativa. Anche perché rivela, verso noi sardi, un mutato atteggiamento.
Nel 1930, davanti a un giornalista e uomo politico francese che gli aveva fatto visita, pronunziò parole e propositi ostili contro l'isola fascisticamente malfida, e affermò che avrebbe distrutto la nostra razza, colonizzandoci con migliaia di famiglie importate da altre regioni d'Italia. Egli mantenne la parola e popolò le bonifiche sarde di migliaia di romagnoli e di emiliani.
Ma, a difesa della razza sarda, vigilavano impavide le zanzare, di pura razza semitica. L'immigrazione ariana è stata devastata dalla malaria e ora non ne rimane in piedi che qualche raro esemplare superstite.
Con gli ebrei, sarà un'altra questione. Essi saranno i benvenuti per noi e per le zanzare fedeli, le quali saranno, con loro, miti e discrete come lo sono con noi.
Sardi ed ebrei c'intenderemo in un attimo. Come ci eravamo intesi con gli ebrei che l'imperatore Tiberio aveva relegato nell'isola e che Filippo II di Spagna scacciò in massa. Quello fu un gran lutto per noi.
Ben vengano ora, aumentati di numero. Che razza magnifica uscirà dall'incrocio dei due rami!
Per quanto federalista e autonomista, io sono per la fusione dei sardi e degli ebrei. In Sardegna, niente patti federali. I matrimoni misti si faranno spontanei e la Sardegna sarà messa in comune. E quando saremo ben cementati, chiederemo che ci sia concesso il diritto di disporre della nostra sorte. L'Europa non vorrà negare a noi quanto è stato accordato ai Sudeti. Una Repubblica Sarda indipendente sarà la consacrazione di questo nuovo stato di fatto. Il presidente, almeno il primo, mi pare giusto debba essere un sardo, ma il vice-presidente dovrà essere un ebreo. Modigliani può contare sul nostro appoggio che gli sarà dato lealmente. Penso che dovremmo respingere la garanzia delle grandi potenze mediterranee e svilupparci e difenderci da noi stessi. Se gli ebrei d'Europa e d'America vorranno accordarci la decima parte di quanto hanno speso in Palestina, è certo che la Sardegna diventerà, in cinquant'anni, una delle regioni più ricche e deliziose del mondo, la cui cultura non avrà riscontro che in poche nazioni avanzate.
Ciò non toglie che i nostri rapporti non possano essere buoni, inizialmente, anche con l'Italia ariana; ma, da pari a pari. Vi sarà uno scambio di prodotti, e noi potremo, data la ricchezza delle nostre saline, rifornire l'Italia ariana, specie di sale, che ne ha tanto bisogno.
Naturalmente, non accoglieremo tutti gli ebrei italiani. Ve ne sono parecchi che, per noi, valgono gli ariani autentici. Il prof. Del Vecchio [1][2], per esempio, noi non lo vogliamo. E vi saranno parecchi ariani di razza italica che noi terremo a fare semitici onorari. Problemi tutti che risolveremo presto e facilmente.
V'è la questione del re-imperatore che, come si sa, ha fatto la sua fortuna come re di Sardegna. Si ha l'impressione che il decalogo razzistico sia stato compilato anche per lui. Non esiste infatti nessuna famiglia, in Italia, meno italiana della famiglia reale: essa non appartiene più alla razza italica pura. Di origine gallica, i matrimoni misti l'hanno corrotta a tal punto che il sangue straniero vi è in predominio palese. E il principe ereditario, figlio di una montenegrina, è sposato con una belga-tedesca; una principessa con un tedesco, e un'altra con uno slavo-bulgaro. Ariani ma non italiani. La futura repubblica sarda sarà magnanima anche col re di Sardegna. Lo accolse l'isola, fuggiasco dall'invasione giacobina, lo accoglierà ancora una volta, profugo dal dominio ariano-italico. L'isola dell'Asinara gli sarà concessa in usufrutto fino all'ultimo dei suoi discendenti. E potrà tenervi corte, liberamente, a suo piacere.
Colpisce invece che, per restare alla stessa fase storica, sia pressoché assente nella nostra memoria collettiva la deportazione di qualcosa come 50.000 sardi, a seguito della spedizione di Tiberio Sempronio Gracco nel 237 a.C. o, secondo altri, a seguito di quella del nipote omonimo nel 175 a.C. Sono i "sardi venales", sardi di poco valore economico, perché per la loro quantità fecero crollare il prezzo degli schiavi.
Perché in effetti la rimozione di quella lontana deportazione di 50.000 sardi fa compagnia all'oblio pressoché totale della deportazione di circa 290 sardi, tra politici ed ebrei, e di circa 12.000 internati militari sardi nei lager nazisti. E si trattava nella stragrande maggioranza di giovani. Una enormità di gente nostra allora e oggi. Fino a pochi anni fa, questa realtà restava totalmente sconosciuta ai più e, nel migliore e raro dei casi, il nome di una via in qualche nostro paese serbava il ricordo ormai smemorizzato.
(EMILIO LUSSU)
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Post n°853 pubblicato il 16 Gennaio 2016 da asu1000
Peppino Mereu: il poeta maledetto e socialista 16 gennaio 2016 Francesco CasulaIl 14 gennaio scorso ricorreva il 144° anniversario della nascita del poeta tonarese Peppino Mereu. Giovanissimo inizia a cantare e a scrivere poesie. A 19 anni si arruola volontario carabiniere: durante i cinque anni della vita militare in vari paesi dell'Isola, conosce alcuni poeti sardi. Canta le sue poesie nelle feste e nelle sagre paesane dimostrando grandi capacità poetiche e di improvvisazione. Questi anni (1891-1895) segnano profondamente la sua formazione: prende coscienza delle ingiustizie e degli abusi di potere, tipici del sistema militare. Di qui la sua critica spietata al ruolo dei carabinieri, che invece di essere difensori della giustizia sono spesso alleati degli stessi trasgressori della legge. Significativi a questo proposito i versi, diventati a livello popolare famosissimi, soprattutto nel Nuorese: Deo no isco sos carabineris/in logu nostru proite bi suni/e non arrestan sos bangarutteris. Proprio in questi anni prende consapevolezza dei problemi socio-economici-culturali della Sardegna e aderisce alle idee socialiste del tempo, un socialismo utopistico in cui il poeta individua la soluzione per i problemi delle classi lavoratrici e oppresse. Idee e valori socialisti che Mereu diffonde affidandosi alle sue poesie per sostenere con nettezza, prima di tutto la libertà e l'uguaglianza: Senza distintziones curiales/devimus esser, fizos de un'insigna/liberos, rispettaos, uguales. Per continuare con la rivendicazione del suffragio elettorale che i Socialisti propugnavano con forza e che il poeta di Tonara così canterà, - proprio nel 1892, anno della nascita del Partito socialista - Si s'avverat cuddu terremotu/su chi Giacu Siotto est preighende/puru sa poveres' hat haer votu/happ'a bider dolentes esclamende/"mea culpa" sos viles prinzipales/palattos e terrinos dividende. Oltre a denunciare le ingiustizie sociali e i soprusi subiti dal popolo - che in A Genesio Lamberti, invita alla ribellione - Mereu mette a nudo la "colonizzazione" operata dal regno piemontese e dai continentali, cui è sottoposta la Sardegna: Sos vandalos chi cun briga e cuntierra/benint dae lontanu a si partire/sos fruttos da chi si brujant sa terra/s'istranzu pro benner cun sa serra/a fagher de custu logu unu desertu. Il poeta nel Dicembre del 1895 per motivi di salute viene congedato: ritorna così al suo paese. La sua produzione poetica se da una parte è pervasa da motivi melanconici, dall'altra accentua la critica ai rappresentanti della Chiesa e del potere locale; se da una parte srotola poesie "della morte", dall'altra dipana componimenti scherzosi e allegri, brevi ritratti schizzati in punta di penna di figure e fatti di paese, irridente e maledicente come quando in Su Testamentu, sentendo ormai prossima la morte, nel confessarsi accusa e maledice, cantando con tutta l'amarezza di un cuore esacerbato, che raggiunge toni epici di violenza espressiva: pro ch'imbolare unu frastimu ebbia/a chie m'hat causadu custa rutta/vivat chent'annos ma paralizzadu/dae male caducu e dae gutta. Consumato dalla tisi, che candela de chera muore l'11 marzo 1901 a soli 29 anni. La sua poesia più famosa è Nanneddu meu conosciuto in tutta la Sardegna grazie anche al fatto che è stato musicata e cantata da moltissimi gruppi musicali e cantanti sardi. Tra i componimenti che conosciamo è uno di quelli in cui sono maggiormente presenti finalità satiriche e politiche, civili e sociali, con una netta e precisa presa di posizione del poeta contro la malasorte, le ingiustizie del suo tempo e indirettamente contro la politica nordista e colonialista del governo sabaudo che sarà più esplicita in altri componimenti. Ricordiamo infatti che siamo alla fine dell'Ottocento, quando il nuovo stato unitario, nel tentativo di omogeneizzare gli "Italiani" emargina e penalizza - dal punto di vista economico e sociale ma anche culturale e linguistico - la Sardegna e il meridione, favorendo invece il Nord del paese. Soprattutto in seguito alla rottura dei Trattati doganali con la Francia e al protezionismo, tutto a beneficio delle industrie del Nord e a danno del commercio dei prodotti agro-pastorali dell'Isola. Il quadro che emerge da Nanneddu meu è quello di un'Isola dominata da tempos de tirannias; assediata da carestias che producono fame, costringendo il popolo a nutrirsi cun pane, castanza e lande; devastata da catastrofi naturali che distruint campos e binzas con sa filossera e sas tinzas; popolata da avvocadeddos ispiantados e quindi facilmente ricattabili; da preti avidi, tristos corvos/ pienos de tirrias/ e malas trassas. Il tono è ora di denuncia, aspro, acre e amaro; ora disincantato, malinconico e perfino tenero. Leonardo Sole a proposito di Nanneddu meu scrive che Mereu "offre un bell'esempio di poesia sociale, aspra e pungente contro gli sfruttatori continentali che hanno disboscato l'isola e continuano a spogliarla con l'aiuto dei printzipales sardi". Mentre Francesco Masala sostiene che "Si comprendono bene l'importanza e l'affetto che ebbe Peppinu Mereu nella comunità di Tonara e la permanenza della sua poesia nella tradizione orale della società barbaricina: su cantadore malaittu, ripudiato dai ricchi parenti borghesi, viene assunto dalla comunità popolare tonarese, a coscienza critica dell'ingiustizia sociale e dell'egoismo di classe. Presso le fonti di Galusè, il poeta malato, pallido, vestito coi tristi panni della malinconia e dell'ironia, bizzarro, selvatico, non bello, non simpatico, già vecchio a venticinque anni, appoggiato all'inseparabile bastone, sembra un asfodelo roso dal male, in attesa di un improbabile riscatto di giustizia, di salute e di amore". Sempre a parere di Masala, "per capire la poesia e la figura di Peppinu Mereu, spirito inquieto e ribelle, non si tratta di frugare fra gli archivi, dove gli storici di professione trovano sos papiros, i documenti lasciati dai vincitori a futura memoria della loro bontà e della loro civiltà, ma si tratta di frugare dentro le viscere della nostra tradizione popolare, dentro la tradizione orale dei nostri pastori, dei nostri contadini, dove è rimasta la memoria collettiva dei nostri dolori, dei nostri terrori, dei nostri rancori, insomma della nostra di storia di vinti ma non convinti". - See more at: http://www.manifestosardo.org/peppino-mereu-il-poeta-maledetto-e-socialista/#sthash.l6LePbBR.iwZhznln.dpuf
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Post n°852 pubblicato il 16 Gennaio 2016 da asu1000
LA SARDEGNA CHE VORREI/1 ENERGIA E LAVORO di Vincenzo Sardu Vi siete chiesti come mai in Sardegna c'è una disoccupazione così radicata? Colpa della crisi certo, ma questo problema esiste da sempre. Siamo diventati un popolo di emigranti, terra di gente che va via perché non c'è speranza e terra di gente che, se resta, soffre. Perché? Escludendo i trattamenti pensionistici, abbiamo un Pil che fa ridere persino greci, portoghesi, spagnoli, figuriamoci gli altri europei. Vuol dire che non c'è niente di niente, che non ci sono imprese, aziende industrie. Gran parte del problema, nasce da qui. E perché non ci sono queste strutture produttive? Perché fare impresa in Sardegna costa più che in qualsiasi altra parte e non per il costo della manodopera. Ma per due variabili: trasporti e, soprattutto, energia. Paghiamo l'energia mediamente il quaranta per cento in più rispetto a qualsiasi altra parte nello stivale. Il motivo? Non si sa ma di certo non per una ragione industriale: produciamo in Sardegna 1,3 volte il fabbisogno. Se il costo industriale fosse elevato, non se ne produrrebbe così tanta in più. Il fatto curioso è che quel trenta per cento di extra viene incanalato via cavo sottomarino verso la penisola e a prezzi non certo allineati a quelli che si pagano in Sardegna. Cosa provoca tutto questo, oltre alla beffa? Che le imprese non hanno alcuna convenienza a fare azienda e a produrre in Sardegna, togliendo quindi alla nostra economia uno sfogo importantissimo. Ecco spiegato come mai da noi la disoccupazione galoppa. Ma attenzione, perché un po' ce la cerchiamo. Ogni volta che si parla di energia i sardi non sanno bene di cosa parlano e si limitano a riprendere slogan che sentono in giro. Per esempio, può essere più inquinante una centrale a carbone o unaa olio oppure un campo eolico o un campo fotovoltaico? Neanche a dirlo, sono migliaia di volte più nefaste le prime due. Allora perché tutta questa paura? Non sarà per caso che a qualcuno fa comodo agitare certi spauracchi per indottrinare l'opinione pubblica a pensare in un certo modo? Svezia e Uruguay, due paesi lontanissimi e con caratteristiche differenti, hanno fatto la stessa scelta: energia pulita e rinnovabile per tutti gli usi non di grande locomozione. Per il cento per cento del fabbisogno nazionale. Avete una minima idea del potenziale che ha la Sardegna con le fonti rinnovabili? In tutta Europa è difficilissimo trovare una condizione migliore per sole, vento e mare. Abbiamo 24mila km quadrati di territorio e siamo poco più di un milione e cinquecentomila abitanti. La densità abitativa è talmente bassa che ci sono ampie porzioni di territorio dove non passa nessuno, neanche la fauna. Perché si dovrebbe avere paura di un prodotto che può dare tanta ricchezza? Tra chi obietta c'è anche la diffidenza verso i soggetti produttori. Basterebbe una legge: i titolari e i controllanti di qualsiasi punto di produzione di energia rinnovabile devono essere sardi, incensurati loro e i loro familiari più stretti, e in caso di cessione di quote o di proprietà possono farlo soltanto a soggetti analoghi. Imponendo per legge anche una filiera interamente sarda, si terrebbero lontani fenomeni di infiltrazioni poco gradite. Ci sarà sicuramente chi troverà da obiettare con le storielle sulla concorrenza eccetera: me ne frego. In Sardegna è arrivato il momento di cominciare a dire anche qualche "no" e a imporre la nostra volontà. Se a Roma o a Bruxelles questo non piace, è un problema loro. Sintetizzando: un piano energetico regionale che inizia con l'acquisizione della rete distributiva. Il gestore non è d'accordo? Si fa la legge e lo si obbliga. Anche in questo caso è giunta l'ora di far prevalere la nostra volontà. Piano energetico basato su uno sviluppo totale per la produzione di energie rinnovabili da istituire con un piano di attenzione ambientale, utilizzando in primo luogo le maestranze delle attuali centrali, che saranno formate al riguardo, ma anche creando nuove opportunità di lavoro. L'obiettivo può e deve essere una produzione anche 2-2,5 volte il fabbisogno attuale, per abbattere il costo pagato dalle famiglie e rendere molto più vantaggiosa per le imprese la produzione dei loro prodotti in Sardegna. E magari anche vendendo le eccedenze energetiche. Pensateci. Finora ci siamo fatti abbindolare ma in realtà abbiamo sempre avuto al collo un guinzaglio con il quale siamo stati costretti a fare il percorso che qualcuno voleva che noi facessimo. L'energia è nostra, prendiamone possesso. E soprattutto diffidate dagli allarmi gratuiti. Ci possono essere la massima attenzione e rispetto per l'ambiente, ci possono essere strumenti per impedire che questo comparto diventi remunerativo per la criminalità importata, ci possono essere straordinari benefici in termini di occupazione. Da qui nasce il futuro
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Post n°851 pubblicato il 11 Gennaio 2016 da asu1000
Università della Terza Età di Quartu 10° lezione a cura di Francesco Casula DIEGO MELE Il principe dei satirici sardi in lingua sardo-logudorese (1797-1861) Nasce a Bitti (Nuoro) il 22 Gennaio 1797 da Anna Casu Delogu e Salvatore. Il padre, contadino, muore nel 1808, lasciandolo orfano a 11 anni, insieme ai fratelli, più giovani di lui, Maria Rosa e Battore. Il giovane Diego, a causa delle precarie condizioni economiche della famiglia, non può proseguire gli studi regolarmente: dopo due anni a Cagliari sarà costretto a ritornare a Bitti. Grazie alla vendita di un piccolo appezzamento di terreno, completerà gli studi in teologia a Sassari, dove si manterrà facendo da istitutore ai tre figli -Ignazio, Pietro e Gaetano- di un certo cavalier Ballero, comandante militare della piazza. Si laurerà in teologia nel 1826 e il 19 Marzo 1827 riceverà gli ordini sacerdotali. Giovanni Spano, archeologo nonché storico e studioso della Lingua sarda, suo compagno di scuola a Sassari, lo ricorda affettuosamente come faceto e improvvisatore vernacolo...di poesie giocose e satiriche. Le cui canzoni popolari, erano, come lo sono ora in bocca di tutti. Sempre lo Spano pubblicherà una decina di composizioni nelle sue antologie mentre alcune verranno riprese sporadicamente da altri, in particolare da due viaggiatori stranieri: il francese Auguste Boullier(In Le dialecte et les chants populaires, Paris 1865) e il tedesco Heinric F. Von Maltzan (In Reise auf der Insel Sardinien, Leipzig, 1869). Diego Mele ha legato il suo nome soprattutto a Olzai, villaggio della Barbagia di Ollolai di cui fu parroco per 25 anni. Ma prima, dopo aver preso gli ordini sacerdotali gli fu affidata la reggenza della piccola parrocchia di Lodè, fu poi aiutante del parroco a Bitti, vicerettore a Oliena e vice parroco a Mamoiada dove prende aperta posizione contro la Legge delle Chiudende che abolivano le terre comuni per privatizzarle, creando così quella che allora veniva chiamata la "proprietà perfetta", con cui si abolivano i diritti comunitari, penalizzando soprattutto i pastori, che non a caso saranno quelli che la combatteranno più duramente. In seguito a questa sua presa di posizione, fu confinato in un convento dei cappuccini ad Ozieri (Dicembre 1832-Febbraio 1833). "Ove -scrive Pietro Meloni Satta- addolorato di tanta ingiustizia e oppresso da crudo malore, sfogava i suoi lamenti colla Musa diletta, destando lagrime di compassione". Scriverà infatti in una sua poesia nel 1832: "O pena dolorosa/De custu coro afflittu/Senza fagher delittu/Est pianghende". Rientra poi a Mamoiada, ma a Novembre viene destinato come prorettore a Lodè. Infine nel 1836 diviene rettore di Olzai dove rimarrà fino alla sua morte avvenuta il 16 Ottobre 1861. "Una caratteristica del suo ministero -ricorda Salvatore Tola, curatore di un volume di Satiras- era la rigida osservanza delle disposizioni dei superiori, che lo spinse a far cessare la consuetudine del compianto funebre, s'attitidu, condannato come incitamento alla vendetta; e una netta inclinazione all'austerità, che finiva per scoraggiare l'uso del costume, i balli e ogni manifestazione che potesse sembrare pericolosamente profana". Il miglior necrologio per la sua scomparsa -ricorda Bachisio Porru- è quello che Giorgio Asproni, deputato e suo compaesano, annotò nel suo diario: "L'interno dolore che io provo per questa perdita non è esprimibile...era uomo nato per amare e amò sempre. Nato povero non resisteva alla vista delle miserie altrui e dava il suo necessario per soccorrere i bisognosi: morì povero. Era senza contrasto il miglior ecclesiastico della provincia di Nuoro". ((Diario politico, III, 1980, p. 145). Questo per quanto attiene alla sua figura; per quanto invece concerne la sua opera occorre tener presente che le sue poesie per decenni circolano solo oralmente, solo un anno prima della morte accetta di dettarle al figlioccio, Pietro Meloni Satta. Siamo nel 1860: ma l'edizione a stampa avverrà nel 1922 nel volumetto Il Parnaso sardo del poeta bernesco estemporaneo Teol. Diego Mele.
IN OLZAI NON CAMPAT PIUS MAZZONE 1.In Olzai non campat pius mazzone ca nde l'hana leadu sa pastura, sa zente ingolumada a sa dulzura imbentat sapa dae su lidone. 2.De nou han bogadu cust'imbentu pro sedare veementes appetitos, leadu han a mazzone s'alimentu però l'han a piangher sos caprittos: no li faghen a isse impedimentu nemancu de Dualchi sos iscrittos, de mazzone aumentare sos delittos non podiat porcheddu ne anzone. 3.Sas puddas e caprittos e porcheddos pianghen de sa zente sos errores e de sos affligidos anzoneddos mi paret de intender sos clamores; a dolu mannu de sos pastoreddos chi nde proan e sentire sos dolores, custos sun sos gustos e sabores de sa sapa de noa invenzione. 4.Totta canta sa zent'est post'in motu pro fagher sos coccones de bennarzu, c'han isperimentadu e han connottu chi superat sa sapa de su varzu. Pera Marras accudi a s'abbolottu, no istes pro fadiga e pro incarzu ischi chi tue puru ses procarzu non ti dormas in custa occasione 5.Amigu, non ti dormas tue puru si tenes calchi pudda in su puddile, ca mazzone caminat a s'iscuru e pesat dae lettu a s'impuddile. Chi t'hat a visitare ista seguru cando tenes porcheddos in predile, si ti dormis in martu e in abrile cun sa mere has a tenner chistione. 6.Pera meu, cunsidera su male chi nos han custa orta causadu. Unu forte nimigu capitale pro sa sapa de nou han irritadu; mazzone pro istintu naturale contra de sos porcheddos hat juradu, como dae su famen apprettadu furat e tenet doppia rejone. 7.S'omine, si s'agatat in apprettu zenza provvista e privu de recattu, si furat dae famen inchiettu non cummittit culpabile reatu. Su chi leat e pigat in cuss'attu tenet de lu pigare su derettu; e nades chi mazzone est indiscrettu si famidu si leat un'anzone? 8.Si furat in cuss'attu l'iscusade ca su famen lu privat de sa vista; postu mazzone in sa nezessidade de fagher sa figura brutta e trista cun piena e cun totta libertade a ue podet si faghet provvista, e isfidat su primu rigorista a li negare s'assoluzione. [...]
IN OLZAI FIUDA E NEN BAJANA 1.SAS BAJANAS DE OLZAI. In Olzai viuda ne bajana non nde cojuat pius, est cosa intesa, sa levata nos faghet grav'offesa però chie nos bocchit est Ottana. 2.Feminas chi maridu disizamus nois semus andende malamente, de cust'affare gasi nos nd'istamus, non pensamus remediu niente? Si custu male avanzare lassamus pianghimus, creide, inutilmente; eo bido s'infilu de sa zente ch'est in catza e in pisca fittiana. 3de nos torrare dae caddu a pè est sa idea chi jughent in testa: sas de Ottana dividint cun su re et omine pro nois non nde resta'. Si leades consizu dai me nde faghimus formale una protesta: chi de issas non benzant ad sa festa, antis ne mancu a comporare lana... 4.Si non ponimus rimediu prestu Non codian de omine carrone Su nde pigat una porzione E issas si nd'acollini su restu. Chi benin pro servir est su pretestu però jughen diversa intenzione: dae 'ucca nos lean su buccone lassende nois a morrer de gana. [...]
Traduzione IN OLZAI VEDOVA NE' NUBILE 1. LE NUBILI DI OLZAI. In Olzai vedova né nubile si sposa piú, è risaputo: la leva (militare) ci fa un grande danno, ma chi ci getta a terraè Ottana. 2. Va male per noi donne che desideriamo maritarci: restiamo così (indifferenti) verso questa questione, non cerchiamo di trovare rimedio? Se lasciamo avanzare questo male non faremo altro che piangere, credete, senza scopo; io guardo (piuttosto) all'affaccendarsi delle persone che con tenacia si danno alla caccia ed alla pesca. 3. Il progetto che hanno in mente è di toglierci da cavallo per ridurci a piedi: quelle di Ottana dividono col Re e per noi non restano uomini. Se accettate un consiglio da me eleviamo per questo una vera e propria protesta: quelle non possano venire alla festa, e neppure a comprare lana. 4. Se non mettiamo subito rimedio non lasciano (neppure) un calcagno d'uomo, il Re ne prende una parte e loro catturano il resto. Quello di venire come domestiche è un pretesto, in effetti hanno tutt'altra intenzione: ci tolgono il boccone di bocca lasciandoci a morire dal desiderio.
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Ecco il primo saggio sull'Identità, pubblicato recentemente (in Sardegna, university press, antropologia, Editore CUEC/ISRE, Cagliari 2007) e su Lingua e cultura sarda nella storia e oggi (pubblicato nel volume Pro un'iscola prus sarda, Ed. CUEC, Cagliari 2004). Seguirà la versione in Italiano della Monografia su Gramsci (di prossima pubblicazione) mentre quella in lingua sarda è stata pubblicata dall'Alfa editrice di Quartu nel 2006 (a firma mia e di Matteo Porru).
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