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cun sa limba e sa cultura sarda - de Frantziscu Casula.

 

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Messaggi del 17/09/2016

Francesco Masala

Post n°873 pubblicato il 17 Settembre 2016 da asu1000

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DI Francesco Casula

A Nughedu San Nicolò (SS) il 17 settembre 1916 nasceva Francesco Masala. Lo voglio ricordare, in occasione del Centenario della sua nascita, con questa nota incentrata sul suo rapporto con la politica e i Partiti italiani.

Masala è stato militante nel PSI prima e nello PSIUP poi.

Nel PSI si iscrisse agli inizi degli anni ’60 per uscirne subito dopo, nel 1964, seguendo l’amico Lussu nel  Partito socialista di unità proletaria. Questo Partito nacque in seguito alla scissione del PSI, accusato di aver tradito gli ideali socialisti, dopo l’ingresso nel Governo di centro-sinistra, voluto da Nenni e guidato dal democristiano Aldo Moro.

Nello PSIUP fa parte del Comitato regionale: ma per poco tempo. Inizia infatti a muovere forti critiche alla forma-Partito e ai Partiti italioti in genere al loro rapportarsi con la Sardegna, in forme di colonialismo politico e culturale..

“Presi coscienza – scriverà – che la scissione era stata un’operazione di vertice e, anche e soprattutto, che la dirigenza sarda dello PSIUP (purtroppo tutti figli e nipoti politici di Lussu) nella quasi totalità, altro non era che la filiale isolana della fabbrica politica italiota, cioè si limitava a importare nell’Isola i manufatti politici prodotti in Continente:insomma una grave forma di centralismo burocratico, di colonialismo politico-culturale, senza nessun approfondimento né della Questione sarda né della grande lezione del sardismo lussiano”.

Scrive dunque una lettera a Lussu. Eccone alcuni scampoli: ”I padroni del Partito, cioè i baroni delle tessere, hanno adottato una tattica adoperata in Sardegna già nel periodo dei Nuraghi: i cacciatori nuragici avevano scoperto che, riunendosi in gruppo, potevano cacciare meglio, cioè potevano procurarsi maggior cibo, nei territori di caccia. Naturalmente i moderni cacciatori, a differenza dei clan nuragici, non usano le clave ma le tessere. Esse le tessere contano più di qualunque corretta ideologia…esse le tessere procurano ai baroni un maggior peso e un maggior potere…dentro le riserve di caccia del Partito – continua la lettera –  di necessità i clan devono darsi battaglia fra di loro, litigare insomma, per il maggior cibo, su futili pretesti ideologici e senza comprensibili motivazioni politiche: prima si stabilisce di essere contro e poi si inventano le motivazioni per cui si è contro. Così l’ideologia diventa aria fritta, nebbia, catrame e il Partito stesso diventa un cane che si morde la coda. Insomma questi baroni delle tessere  fanno come il figlio Giove col padre saturno:per paura di essere divorati dal padre (il Partito), essi i figli espropriano il potere egualitario di tutto il Partito, cioè si divorano il padre. E non basta. I padroni del Partito, oltre a uccidere il padre, ammazzano anche la madre, la Sardegna, distrutta dalla logica del centralismo burocratico italiota. Caro Lussu – conclude Masala – c’è veramente del marcio in Danimarca!”.

Lussu rimase molto male: Masala voleva distruggere, ammazzare la sua creatura prediletta: lo PSIUP sardo. Lussu, rispondendo a Masala che voleva portare al mattatoio tutti gli psiuppini sardi, afferma che li vorrebbe tutti in Consiglio regionale…

Ormai il dissenso fra i due è totale, almeno per quanto atteneva al Partito. Masala riscrive a Lussu un’altra lettera che servirà a aumentare il solco profondo che ormai li separa, non solo in merito al Partito ma  anche su altre questioni importanti.

Scrive Masala:

1.Lo PSIUP in Sardegna come tutti gli altri Partiti italioti, è funzionale allo Stato accentratore;

2. L’Italia è uno Stato ma non una Nazione, mentre la Sardegna è una Nazione ma non è uno Stato;

3. La cosiddetta Autonomia è una perfetta Eteronomia;

4. L’esperienza sarda dimostra che lo stato, comunque esso sia è un nemico. Lussu risponde in modo secco e acre, quasi indispettito: in merito allo Stato ma non solo. Il modo in cui rievochi lo Stato –scrive Lussu –  fa pensare che tu sia con gli anarchici non con Marx.

Altrettanto secca è la nuova lettera di Masala:”A pensarci bene – scrive – l’ultimo e più felice stadio di una società comunista è l’anarchia, cioè una società di liberi e uguali, senza governanti e governati, senza dominatori e senza dominati, senza vincitori né vinti.

Per conto mio – prosegue  Masala – non sono per l’anarchia borghese ma per l’etnia egualitaria, cioè per una comunità etnica che produce beni materiali e culturali da distribuire in parti uguali. Se è vero come è vero che la proprietà privata ha creato il codice per legalizzare e sacralizzare le disuguaglianze, allora è vero che per desacralizzare la proprietà, per decodificare lo Stato è necessario ritornare alle etnie egualitarie.

Inoltre Masala, pur sapendo che Lussu come una malabestia odiava il separatismo, conclude la lettera affermando che: ”A pensarci proprio bene l’Italia non è la nostra madrepatria ma è la nostra matrigna e non è più una donna giovane e bella, con la corona in testa, come appare nelle carte bollate postrisorgimentali, ma è una vecchia che puzza, non c’è quindi da addolorarci molto se l’etnia sarda comincia a prendere le distanze da questa salma”.

A questo punto la polemica epistolare fra Lussu e Masala si interrompe. Anche perché in una ultima, provocatoria e “cattiva” lettera Masala ricorda a Lussu alcune posizioni del passato che a suo dire sarebbero in contraddizione con quelle del presente. In modo particolare un articolo  contro le leggi antiebraiche in Italia, pubblicato in Giustizia e Libertà del 21-10-1940, in cui il cavaliere dei Rossomori aveva parlato di “Repubblica sarda indipendente”.

Nonostante le scaramucce epistolari rimarrà comunque intatta la stima e l’ammirazione di Masala nei confronti di Lussu.

Dopo l’esperienza politica nello PSIUP Masala – è lui stesso a sottolinearlo più volte –  non aderirà più ad alcun Partito politico e sarà un libero “cane sciolto”. Con l’esplosione del Movimento del ’68 simpatizzerà con gli studenti e gli extraparlamentari ma anche a loro rimprovererà forme di colonialismo politico: con l’importazione in Sardegna di gruppi e gruppuscoli da Milano e altre città italiane e relativi programmi e proposte.

La sua battaglia politico-culturale (scriverà oltre saggi, romanzi, poesie, moltissimi articoli su Quotidiani e riviste, in modo particolare nel periodico Nazione sarda, con Lilliu, Eliseo Spiga, Antonello Satta, Elisa Nivola) sarà sempre più incentrata nella difesa della lingua sarda e dunque nella rivendicazione del Bilinguismo perfetto. Lingua sarda – me lo ripeteva fino all’ossessione –  la cui salvezza e salvaguardia dipendeva soprattutto dal suo insegnamento, come materia curriculare, nelle scuole di ogni ordine e grado.

Non aderirà neppure ai Movimenti e Partiti indipendentisti: pur essendo ormai la sua posizione di critica radicale all’Italia (un cadavere che puzza) da cui dunque occorreva allontanarsi al più presto.

 

 
 
 

Raimondo Manelli

Post n°872 pubblicato il 17 Settembre 2016 da asu1000

 

 

Ricordando Raimondo Manelli, il valente poeta gavoese cantore dei vassallos.

di Francesco Casula

Ricorreva l’8 settembre scorso il centenario della nascita di Raimondo Manelli, valente poeta,cantore dell’Isola “conchiglia” e del  riscatto sociale dei poveri e dei vassallos. A quanto mi consta, nessun ricordo. La data è sfuggita pure a me. Con questa nota voglio in qualche modo “riparare”.

 Manelli nasce a Gavoi (Nu) l’8 settembre 1916. Si laurea in materie letterarie a Cagliari nel 1940. Nel 1943, torna a Gavoi come sfollato antifascista sotto il governo Badoglio. Nel dopoguerra svolge un'attività politica prima a Gavoi e poi a Cagliari, al fianco di Sebastiano Dessanay: di queste battaglie epiche, dalla parte dei contadini e dei pastori, c'è un riflesso immediato nelle sue poesie, che per la maggior parte hanno per tema la Sardegna, ma soprattutto Gavoi, il suo paese natale, raffigurato in tutti i suoi aspetti: le dure condizioni di vita, i personaggi caratteristici, l'impatto con la modernità. In una delle sue poesie più felici dal titolo Gavoi 1958, si legge: Ora le ultime bettole si chiamano bar;/ i maestri del ferro sono meccanici;/ l'ultimo fabbricante di speroni/ è morto bruciato dall'alcool;/ e la domenica non si odono più/ gli accordi vocali del "bomborobò"./ È giunta la televisione/ coi ministri e le prime pietre,/ con le annunciatrici che sorridono sempre.

Dedicherà tutta la sua vita all’insegnamento e alla scuola (sarà maestro elementare prima di diventare professore e poi preside) e alla sua passione per la poesia. Scriverà ininterrottamente dall’adolescenza fino alla tarda età. Muore a Cagliari il 5 Maggio del 2006.

Una delle sue poesie che mi ha sempre colpito è Mia madre popolana, contenuta nella silloge La strada dei poveri del 1947, la seconda raccolta di poesie di Manelli, dopo Filo d’acqua del 1939. In essa l’Autore, cristiano e comunista, canta e sta dalla parte di un’umanità povera e dolente, che attende da tempo immemorabile, nella terra dei pastori e dei braccianti, un riscatto e una liberazione dalle prepotenze dei prinzipales e dei sennores. Non solo. Il poeta estraneo alla giungla imperante/di faccendieri e commedianti, confessa d’aver diffuso tra la buona gente/dottrine incendiarie/che mettevano in forse l’antica virtù dei notabili,/l’onestà dei mercanti//che lungo le strade maestre/ostentano le case a molti piani.

In Mia madre popolana ricorda con smisurato affetto e forte commozione la mamma, pensando anche alla umanissima vicenda che essa ha vissuto. Quella mamma  incerta nel leggere e nello scrivere che ha appreso nella scuola serale. Quella mamma religiosissima, che recita a gran voce il Miserere a fronte di un improvviso temporale.

Che pur fatta curva dagli stenti/ e dalle notti insonni, continua a lavorare  stoiando seggiole, ovvero confezionando sedie con le stuoie, in quel tempo largamente usate, della povera gente di Gavoi e della Barbagia, ma non solo.

La madre che ormai ridotta a una lampada presso alla fine dell’olio, leggeva negli anni futuri. E il figlio-poeta che si avvide che Dio si rivela ai più buoni. Ovvero a quelli come la madre. Ai poveri e  – evangelicamente – agli ultimi.

L’amore immenso del poeta per i genitori ma in particolare per la mamma non è presente solo in questa lirica, ne attraversa molte altre e comunque ricorre spessissimo nei suoi versi. E insieme agli affetti a ai sentimenti amicali è prepotentemente presente nella sua poesia l’amore per la sua gente.

Anzi sono le redici stesse della sua poesia   – è il poeta stesso a ricordarlo in un suo scritto –  che affondano sostanzialmente nella terra sarda e più particolarmente nelle vicende e nel destino dei contadini e dei pastori del suo paese.

Ovvero nella dolorosa realtà della sua terra, la Sardegna, impronta di piede contadino, che si va gradualmente trasformando dietro l’incalzare del progresso scientifico e tecnico. E anche quando la tematica si allarga via via per comprendere i problemi e le ansie del più vasto mondo contemporaneo, del gramsciano  mondo grande e terribile, il sapore delle immagini e le predilezioni culturali e sociali dell’autore saranno sempre

coerenti con l’autenticità delle proprie origini e delle proprie radici della sua piccola patria sarda. Infatti, L’isola è una conchiglia/e vi respira il mare/con le voci del mondo. Ferma restando nella sua poetica – scrive Alberto Frattini, suo critico e grande estimatore –  l’istanza di comunicare, di farsi intendere dagli altri e non solo dai professionisti della Letteratura.

Si inserisce su questo crinale proprio Mia madre popolana, la sua poesia più famosa e dal poeta stesso la più amata, degna comunque di essere inserita a mio parere, nelle Antologie. Il componimento piacque talmente al linguista Georges Mounin che lo tradusse in francese, ritrovando in esso una libertà e una scioltezza nel parlare delle così dette cose trite e prosaiche. Con un libero verseggiare e con un lessico realistico, piano e comune, senza sperimentalismi né contorsioni intellettualistiche, in cui la testimonianza di affetto e di amore per la madre trae forza dalla sobrietà e dall’incisività delle strutture e dei registri espressivi.

Oltre alla poesia dedicata alla madre voglio ricordare (e riportare) due belle poesie “storiche”:

-LA PASSERELLA:L'Isola fu, nel Mar Mediterraneo,/la passerella dei conquistatori:/ogni ribaldo che venne da fuori /ottenne almeno un feudo temporaneo./Oggi, ancora, se un invadente estraneo/aspira a conquistarsi nuovi allori,/verrà scelto dai nostri reggitori/innanzi a ogni aspirante conterraneo./Vige il mito dell'ospitalità/col motto:"Il miglior letto al forestiero!/Per ogni familiare c'è una stuoia"./E fummo generosi coi Savoia,/ offrimmo le miniere allo straniero,/riservandoci invidie e crudeltà.

-IL TURNO DEI PADRONI: Cartagine ci indusse a fare a meno dei frutteti;/ ci disse: E' meglio il grano./E quando giunse il milite romano/ci tolse il grano e ci concesse il fieno./Di bene in meglio, qualche saraceno/visitava le coste e, a mano a mano,/portava nei mercati del sultano/uomini e donne del nostro terreno./Ma in nostro aiuto vennero i Pisani/in gara coi mercanti genovesi/ e sorsero conventi da ogni parte./Allora il Papa mescolò le carte:/invitò Aragonesi e Catalani /e restammo infeudati e vilipesi.

 

 

 
 
 
 
 

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Questo blog, bilingue ( in Sardo e in Italiano) a disposizione, in modo particolare, di tutti i Sardi - residenti o comunque nati in Sardegna - pubblicherà soprattutto articoli, interventi, saggi sui problemi dell'Identità, ad iniziare da quelli riguardanti la Lingua, la Storia, la Cultura sarda.

Ecco il primo saggio sull'Identità, pubblicato recentemente (in Sardegna, university press, antropologia, Editore CUEC/ISRE, Cagliari 2007) e su Lingua e cultura sarda nella storia e oggi (pubblicato nel volume Pro un'iscola prus sarda, Ed. CUEC, Cagliari 2004). Seguirà la versione in Italiano della Monografia su Gramsci (di prossima pubblicazione) mentre quella in lingua sarda è stata pubblicata dall'Alfa editrice di Quartu nel 2006 (a firma mia e di Matteo Porru).

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