Creato da sanavio.stefano il 09/01/2010

Anniversarock

Ricorrenze e anniversari della musica rock

 

 

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Accadde quarant'anni fa: Kraftwerk "Autobahn"

Post n°87 pubblicato il 19 Novembre 2014 da sanavio.stefano

La musica elettronica è sempre stata snobbata. Beh non proprio snobbata, diciamo non considerata quanto sarebbe doveroso. Si perché se il rock da che mondo è quel qualcosa di indefinito che genera emozioni, solitamente ha bisogno di una chitarra che eroghi decibel a profusione, possibilmente manipolata da uno scalmanato e sudato musicista dalla folta chioma. Questa è l’immagina da stereotipo immediatamente riconducibile alla musica che amiamo. 

Per una serie di fattori invece la genesi dell’elettronica riconosciuta nel mondo rock ha avuto origine da una pletora di gruppi tedeschi che ebbero la loro massima espressione negli anni settanta, la kosmische musik o krautrock. Ma non dimentichiamo che l’idea che la musica potesse scaturire da una macchina fu, guarda un po’, di un italiano, Luigi Russolo, futurista che ad inizio del novecento redasse il manifesto “l’arte dei rumori” secondo il quale i fragorosi rumori dell’era industriale avevano pari dignità a quelli scaturiti da violoncelli, xilofoni e pianoforti. Un altro personaggio, il compositore francese Edgar Varese, alla fine degli anni venti, riuscì a brevettare degli strumenti di carattere pre elettronico. Negli anni seguenti videro la luce strumenti tradizionali elettrificati quali l’organo Hammond e la chitarra Rickenbacker, così chiamati dal nome degli artigiani che li avevano amorevolmente assemblati. Prima della seconda guerra mondiale avvenne la prima rudimentale impressione su nastro magnetico di rumori di origine musicale dalla tedesca AEG, pratica che si diffuse a macchia d’olio al di la dell’oceano atlantico. Anche in Italia qualcosa si mosse dopo la fine della guerra; in anticipo sui tempi la radio televisione italiana instaurò lo studio di fonologia musicale, un po’ come faceva John Cage in America dove parlava di musica aleatoria, cioè la casualità introdotta nella composizione. E cosa c’è di più aleatorio del suono che può fuoriuscire da un marchingegno elettronico? La RCA negli anni cinquanta produsse un primo prototipo di sintetizzatore, ma la vera produzione industriale iniziò un decennio più tardi per opera dell’ingegnere statunitense Robert Moog. Molti si accostarono a questo infernale macchinario in grado di produrre suoni sintetici freddi e cerebrali, ma pochi ne capirono le potenzialità. E’ vero anche che pochi potevano permetterselo perché costava una follia, ma alcune ricche popstar del mondo progressive quali il folle incendiario di tastiere Keith Emerson, il modesto Tony Banks dei Genesis e l’ambiguo Rick Wakeman (perennemente vestito di tuniche da frate buddista) degli Yes assunsero lo strumento come fondamentale nell’economia delle rispettive band d’appartenenza.  Fortuna volle che non solo il progressive adottò il synth ma anche una coppia di fenomeni di Dusseldorf chiamati Ralf Hutter e Florian Schneider, dapprima denominati Organisation, poi rinominati Kraftwerk. Freschi di studi di conservatorio dove avevano appreso i rudimenti dal maestro Karlheinz Stockausen, gravitavano nell’orbita di quel movimento culturale che aveva in serbo di far nascere band fondamentali quali Can guidati guarda caso da altri due allievi di Stockausen, Holger Czukay e Irmin Schmidt, i Neu di Klaus Dinger e Michael Rother, gli hippy psichedelici in salsa tedesca Amon Duul e Ash Ra Tempel. Insomma un bel movimento non c’è che dire. Ma mentre i Can riscrivevano con “Tago Mago” del ’71 l’approccio di certa psichedelia americana frammentandola con umori dei Velvet Underground ed elettronica ad ampio raggio, il nostro duo tardava a trovare la propria specifica dimensione, cosa che fecero qualche anno dopo.   

Novembre 1974, quarant’anni fa esatti esce “Autobahn”, primo disco dei Kraftwerk con soli strumenti elettronici (in realtà il quarto della loro produzione, quinto se si conteggia “Tone Float” a nome Organisation) e prodotto dal demiurgo Conny Plank è arcinoto per la lunga suite che da titolo al disco che venne per forza di cose ridotta ai canonici tre minuti e rotti nelle versioni a 45 giri per sorprendere e sbancare il mercato americano, dove i nostri sfondarono più che in Europa. Molti strumenti sono stati creati appositamente dai membri della band, come la arci nota batteria ad opera di Wolfgang Flur (il quarto effettivo era il chitarrista Klaus Roder). Altri titoli nel disco due lunghe “Kometenmelodie” di diversa intensità (con mia particolare preferenza alla seconda) , la effettata “Mitternacht” della quale Bowie prenderà appunti soprattutto per la seconda facciata di “Heroes” e la finale “Morgenspaziergang” con un flauto fiabesco all’interno di un contesto fatto di quieti fluire di ruscelli e cinguettii virtuali grazie alle eccentriche invenzioni.

Dire che è un disco rivoluzionario è poco, plasmò di fatto certa new wave, ambient e techno pop, come lo furono gli altri editi negli anni settanta (l’indimenticabile “Trans Europe Express” in primis), oltre alle marcate influenze nel Bowie del periodo berlinese e degli incommensurabili Suicide del ’77 e negli anni successivi per Human League, Cabaret Voltaire, solo per citarne alcuni, fino al progressivo sfilacciamento della  vena compositiva, le beghe legali con gli altri componenti che erano saliti a bordo e l’allontanamento dalle scene live per perseguire altri obiettivi.

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