Post n°92 pubblicato il 19 Marzo 2015 da sanavio.stefano
Eravamo in tanti qualche decennio fa ad amare questa band di Leeds; batte forte il cuore quando ricapita di trovarne traccia in qualche sito nostalgico o in qualche enciclopedia del rock dove almeno un disco (quello di cui parlo in questo post) deve esserci per forza perché, si sappia fin da subito, hanno creato un genere che negli anni avrà adeguato seguito tra i Fields Of The Nephilim e i March Violets, tanto per citarne due. Fondata nel 1980 grazie al sodalizio tra l’ex studente di Oxford Andrew Eldritch (voce) e Gary Marx (chitarra), ai quali successivamente si unirà il bassista Craig Adams e la leggendaria drum machine Doktor Avalanche, raffinano nel corso degli anni il loro sound (i loro numi tutelari sono Suicide e Stooges ma non disdegnano le nuove tendenze del momento) e si inseriscono ben presto nella variegata scena post punk. Esordiscono per la Merciful Release in formato 7” con brani acerbi ma che lasciano intuire l’esistenza di una stoffa di prim’ordine. Nel corso dell’anno successivo viene reclutato un secondo chitarrista nella persona di Ben Gunn. Nel 1982 usciranno altri due singoli, “Body Electric / Adrenochrome” (dal ritmo serrato e chitarre abrasive) e “Alice / Floorshow” (che testimonia la crescita del suono ormai diventato originale e misterioso), contribuendo ad alimentare la fama underground della band; i fan a questo punto si aspettano l’esordio sulla lunghezza classica dell’album. L’anno seguente vede i nostri impegnati in vari concerti e appena possono pubblicano il nuovo (ennesimo) singolo, “Anaconda / Phantom” e a maggio l’EP “The Reptile House” contenente altri pezzi che diverranno classici della band. In ottobre la svolta: esce ancora un singolo “Temple Of Love / Heartland / Gimme Shelter” ed è un successo clamoroso nel pur limitato mondo indipendente; il primo è un hit tra i più ballati nelle disco underground dal ritmo vertiginoso, la chitarra ricama dei perfetti riff psichedelici e la profonda voce baritonale dall’oltretomba di Eldritch a sovrastare il tutto. Da notare la rilettura originale e creativa della rollingstoniana “Gimme Shelter”. L’anno 1984 vede l’avvicendamento nella line up tra Ben Gunn e Wayne Hussey, l’ascesa del successo in Germania oltre all’Inghilterra e la pubblicazione di altri due singoli “Body and Soul” e “Walk Away” che finirà nel (finalmente!) disco d’esordio. Marzo 1985, trent’anni fa esatti esce “First And Last And Always”, che contiene l’altro singolo “No Time To Cry” (e il memorabile video con la band che si esibisce sotto la pioggia) e una serie impressionante di classici che fanno si che riceva unanimi consensi dalla critica. Scritto in larga parte da Wayne Hussey con contributi consistenti di Marx e Adams, con Eldricht curiosamente in secondo piano che contribuisce solo alla redazione di un pezzo, l’album rappresenta la fusione perfetta tra gothic e psichedelia, fatto di pezzi grandiosi come la title track o la malata “Marian”, l’indiavolata “A Rock And The Hardplace” dalla notevole sezione ritmica fino alla tenebrosa litania finale di “Some Kind of Stranger”. Purtroppo le tensioni all’interno della band finora rimaste latenti sfociano nella deflagrante scissione: Craig Adams e Wayne Hussey salutano la compagnia e fondano i Mission mentre Eldritch pubblicherà l’anno dopo un disco elettronico sotto il nome di Sisterhood. La prestigiosa ragione sociale, in carico a Andrew dopo una lunga battaglia legale, risorgerà nell’87 con l’uscita di “Floodland” (praticamente Eldritch con in più l’appariscente Patricia Morrison) un disco che ha il potere di far rimpiangere il recente passato. Da avere assolutamente “Some Girls Wonder by Mistake” del ’92 raccolta contenente i singoli pubblicati nei primi anni della loro carriera, compresa la versione extended di “The Temple of Love”. Dal loro sito e soprattutto dai numerosi fan sparsi in internet apprendiamo che dal 2008 in poi si sono esibiti in vari set in Belgio e Portogallo. In marzo del 2009 sbarcano in Italia per una serie di date con in formazione, oltre a Eldricht e la storica Doctor Avalanche, i due chitarristi di scuola hard tendente al metal Chris Catalyst e Ben Christo.
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Post n°91 pubblicato il 22 Febbraio 2015 da sanavio.stefano
Agli albori degli anni zero è balzata agli onori delle cronache musicali una nuova ondata di gruppi sconosciuti che si rifacevano sfacciatamente alle esperienze del post punk tanto in voga a cavallo tra la fine dei settanta e l’inizio degli anni ottanta. Così tra i vari Franz Ferdinand, Interpol, Editors e Liars fu una vera gioia trovarsi tra le mani anche il primo disco dei Bloc Party, band formata sul finire degli anni novanta dal chitarrista Russel Lissack e dal cantante di origini nigeriane Kele Okereke ai quali si sono aggregati il batterista Matt Tong ed il bassista Gordon Moakes. La gavetta dura qualche anno fino alla pubblicazione di due singoli “Helicopter” e “Banquet” che ne fanno un piccolo caso, immediatamente seguiti dall’album d’esordio. Febbraio 1985, dieci anni fa esatti esce “Silent Alarm”, uno stile che richiama la new wave più conosciuta, vuoi per la voce di Okereke da molti paragonata a quella di Robert Smith, vuoi per la chitarra tagliente che richiama i Gang Of Four (ma in certi tratti anche i Bauhaus più fruibili), spiccano tra i pezzi i due singoli, l’iniziale agghiaccante “Like Eating Glass”, la pregna di tensioni “She’s Hearing Voices” dove risalta una leggera vena alla Blur, la quasi pop “This Modern Love” in una mistura azzeccata di TV On The Radio con i contemporanei Art Brut. Geniali, insomma questi ragazzi, il disco piace e vende bene sia in Inghilterra che in America, e supera brillantemente il milione di copie vendute. Purtroppo però la loro vena compositiva conoscerà un lieve decadimento perché i due dischi successivi a mio avviso non raggiungono neanche lontanamente il livello di questo, una lieve luce si intravede nel quarto disco, con molta fantasia chiamato “Four” pubblicato ormai tre anni fa, e che risulta ancora l’ultima fatica dei nostri. |
Post n°90 pubblicato il 20 Gennaio 2015 da sanavio.stefano
La band di cui scrivo non ha purtroppo goduto della considerazione che meritava, sia negli anni ottanta che in seguito. E di questo ne sono particolarmente dispiaciuto, perché riascoltando oggi alcune prove significative mi sorge un quesito a cui è difficile rispondere: perché gli U2 si e loro no? Perché non hanno goduto della considerazione (e magari parte dei cospicui guadagni) del gruppo di Bono Vox, nonostante alcune evidenti similitudini? Non solo, perché la critica non li ha elogiati quanto ad esempio Echo & the Bunnymen (altra evidente similitudine)? Sono domande difficili in un mondo difficile. Partiamo dalla storia: dopo la divulgazione del verbo punk e l’avvento della new wave il giovane Adrian Borland forma a Liverpool un gruppetto chiamato The Outsiders, progetto nato già morto dato che nel corso del biennio 1977-78 pubblicherà un solo EP “One To Infinity” per un’oscura label chiamata Raw Edge. Verso fine ’78 Adrian cambia compagni di viaggio e si affianca a Graham Green al basso, Michael Dudley alla batteria e Bi Marshall alle tastiere. Con questa formazione, e finalmente col nome definitivo, The Sound, alla fine dell’anno successivo pubblicano un altro EP “Physical world” questa volta un lavoro più compiuto che mette nelle tre tracce tutta l’energia che i nostri sono soliti sprigionare dal vivo. Dopo aver firmato per la Korova, come i concittadini Echo & The Bunnymen, la band è pronta per la pubblicazione del loro esordio adulto e a mio avviso il migliore, “Jeopardy”, è un raro esempio di post punk che mescola alchimie oscure con la leggerezza del pop più intelligente, contiene l’inno epocale “I Can’t Escape Myself” e gode di intriganti trame psichedeliche filtrate dal canto nervoso di Borland, insomma un disco magico. Un po’ Magazine, un po’ Joy Division, i nostri si ritagliano un seguito considerevole in patria. Nel frattempo Borland assieme a Green divaga rispetto ai Sound occupandosi di un progetto sperimentale e secondario chiamato Second Layer; inoltre nello stesso periodo avviene un avvicendamento nella line up dove alle tastiere Calvin Mayers sostituisce Marshall. L’anno successivo vedono la luce due diversi progetti, un EP live contenente registrazioni da un concerto londinese e il secondo LP, “From The Lion’s Mouth” prodotto da Hugh Jones è di livello impercettibilmente inferiore rispetto al precedente, qui regna la tendenza ad emulare i primi U2 che si stanno rapidamente affermando senza perder il riferimento ai crepuscolari Joy Division. Comunque sia ben chiaro, le canzoni sono più che buone. Nel frattempo i rapporti con l’etichetta si fanno tesi: la Korova esige una conversione al pop più vendibile per risanare le casse mentre Borland e soci non ci stanno. Dopo diverse controversie l’atteso seguito esce solo l’anno dopo e segna il livello qualitativo più basso mai toccato dalla band; il sound di “All Fall Down” tende ad una miscela gothic pop che non entusiasma e che scontenta i vecchi fans, Borland che non è l’ultimo arrivato se ne rende perfettamente conto e decide di chiudere con l’etichetta per accasarsi alla Statik. Per riascoltare nuove note dei nostri devono passare due anni con l’uscita dell’EP “Shock Of Daylight” prodotto da Pat Collier che li fotografa ai livelli qualitativi che gli competono, la voglia di stupire è accompagnata da una fluidità e freschezza negli arrangiamenti da far ben sperare nel futuro. Gennaio 1985, trent’anni fa esatti esce “Heads And Hearts”, disco al quale sono particolarmente affezionato (perché acquistato dal sottoscritto dopo innumerevoli sacrifici sulla paghetta dell’epoca) e che, pur non essendo eccelso, in parte ottiene l’obiettivo prefissato di allargare la sfera degli adepti. Brillano la tensione evocativa di “Whirlpool”, la melodia tenebrosa di “Total Recall” che sfocia in un solare refrain, il singolo “Under you” che paga dazio ai Simple Minds non ancora rintronati di “Don’t You” e la rilassata “Mining For Heart”. Da qui in poi la storia precipita e l’aria si fa pesante con l’etichetta; per vedere un nuovo lavoro di studio sugli scaffali dei negozi bisogna attendere il 1987 quando un timido “Thunder Up” sancirà che i tempi sono irrimediabilmente cambiati perché i nostri raccolgano il successo agognato. Come dire: il treno è passato e voi non ci siete saliti. L’anno dopo i Sound non esistono più, un Adrian Borland disorientato decide di intraprendere la carriera solista che sarà avara di soddisfazioni, nonostante la bontà di alcune prove, ad esempio “Brittle Heaven” del ’92 che ispira anche il nome del suo sito ufficiale mentre l’altra mente, Graham Green, abbandona la scena musicale. Sul finire di millennio Adrian ritrova la fiducia, sta lavorando in studio per un nuovo disco che è quasi pronto, sente la pesantezza dei suoi insuccessi e li vive in modo disturbante. La mattina del 26 aprile 1999 si dirige presso la stazione metropolitana di Wimbledon, stanco, sfiduciato e depresso si getta sotto un convoglio in arrivo.
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Post n°89 pubblicato il 17 Dicembre 2014 da sanavio.stefano
I Diaframma furono un gruppo fondamentale per l’evoluzione del rock italiano; erano i primi mesi del 1980 che videro il chitarrista e compositore Federico Fiumani quale aggregatore di una band che aveva nel post punk inglese la sua maggior fonte di ispirazione (e la sua salvezza sarà poi distanziarsene al momento giusto), con dei testi poetici degni del miglior cantautorato nostrano. Al suo fianco Leandro Chicchi al basso, Gianni Chicchi alla batteria e il mitico cantante Miro Sassolini, che ha sostituito il primo cantante Luca Vannini. L’incontro tra Sassolini e Fiumani avviene mentre stanno prestando servizio per la madre patria in una qualche remota caserma del nord est, e Federico ricorda ancora con stupore i gorgheggi chiesastici che Miro intonava nei momenti liberi in camerata. Al termine della leva sono pronti per l’incisione di quella pietra miliare di cui si parla in questo post. Dicembre 1984, trent’anni fa esatti esce “Siberia”, successore nella loro discografia di “Pioggia” dell’ottantadue e dell’EP “Altrove” dell’anno successivo, è un disco imprescindibile della così detta new wave italiana (ma al tempo si preferiva parlare della nuova musica italiana cantata in italiano) e fondamentale per la composita scena italiana (che vanta nei contemporanei Litfiba un buon contraltare, a metà strada tra gli U2 più combattivi e i Simple Minds più fruibili) che guarda come detto ai modelli post punk, uno su tutti, i Joy Division dai quali lo stesso Fiumani prenderà le distanze dicendo di preferire l’insuccesso piuttosto che pagare il prezzo di Ian Curtis. L’album vive di contrasti tra luci e ombre, nel senso che si susseguono episodi oscuri ad altri meno pesanti e tendenti alla fruibilità radiofonica. Nella classifica dei 100 dischi italiani più belli di sempre redatta da Rolling Stone si piazza al settimo posto, e questo ci può stare. Quello che è incomprensibile è come gli sia davanti “Bollicine” di Vasco Rossi (al primo posto) e “Lorenzo” di Jovanotti (al quinto posto), ma questo è un altro discorso. E’ il disco di “Amsterdam” tanto per cominciare, posta a chiudere il lato A, ma anche della bellissima, incalzante e densa d’atmosfera title track ad aprirlo , accompagnata tra l’altro da un video in bianco e nero dalle forti perturbazioni emotive; poi ci sono “Delorenzo” e “Neogrigio”, autentici manifesti della prima versione della band e di un periodo, i primi anni ottanta, dove disciplina e furore artistico erano necessari per non essere artisti che si consumano nell’arco di una stagione. Infatti Fiumani è ancora attivo. Mi domando cosa si aspetti ad invitarlo al Festival di Sanremo, ad esempio, che dopo Afterhours, Marlene Kuntz, Almamegretta e Marta Sui Tubi si è aperto alla musica d’autore indipendente, potrebbe fregiarsi di un’altra prestigiosa partecipazione. Ma forse è meglio così. |
Post n°88 pubblicato il 28 Novembre 2014 da sanavio.stefano
Uno dei gruppi più originali ed ammalianti dell’intera epopea post punk nasce nel 1982 in Scozia per iniziativa del polistrumentista Robin Guthrie e della cantante Elizabeth Fraser coadiuvati dal bassista Will Heggie. Ben presto entrano nel giro della (sempre sia lodata) 4AD, della quale saranno ben presto tra gli elementi più rappresentativi, e registrano in soli sette giorni l’esordio discografico “Garlands”, uno dei maggiori successi stagionali in ambito underground, con il sound che si avvicina molto alle atmosfere terse e ombrose dei compagni d’etichetta Modern English, Elizabeth incarna al meglio l’eroina decadente come la contemporanea Siouxsie, della quale è anche una fan della prima ora. Nel corso dell’anno per promuovere l’album i nostri sono di supporto ai concerti di Birthday Party e ben presto rilasciano una nuova prova su vinile, l’EP “Lullabies” che contiene solo tre pezzi. L’anno dopo si rifanno vivi con un ulteriore EP “Peppermint Pig” del quale però la band non risulta pienamente soddisfatta. Le tensioni aumentano così come le aspettative del pubblico, Will Heggie lascia la band proprio mentre si accinge ad entrare in sala d’incisione per dare un seguito al primo LP, cosa che avviene l’anno dopo con “Head Over Heels” che rappresenta un ulteriore punto di forza della loro discografia, le sonorità si ammorbidiscono e diventano più rarefatte e malinconiche. Guthrie lavora da par suo con la strumentazione mentre Liz tocca il cuore con la sua voce stupenda. La coppia (d’ora in poi non solo professionale ma anche nella vita) accresce la fama nel mondo indipendente grazie alla loro immagine affascinante che rapisce sempre più nuovi adepti. Il carattere di Elizabeth la preserva da eccessive esposizioni mediatiche che entrambi osteggiano prediligendo il contatto col pubblico. Durante lo stesso anno è ancora una volta un EP, “Sunburst And Snowblind”, a spezzare il silenzio discografico del duo mentre per la prima volta attraversano l’oceano per tenere alcuni concerti americani. L’anno dopo (e siamo nel ’83) un nuovo elemento entra a far parte della band, trattasi del percussionista Simon Raymonde, e collaborano con la loro casa discografica al progetto This Mortal Coil, voluto dal vulcanico Ivo Watts-Russel e da Jhon Fryer partorirà solo tre lavori ma stupendi, formazione aperta comprendente performance dei vari Howard Devoto, Lisa Gerrard dei Dead Can Dance e Gordon Sharp. Ma torniamo ai Cocteau Twins. Novembre 1984, trent’anni fa esatti esce “Treasure” che rappresenta il picco più alto, qualitativamente parlando, della folta discografia della band. Ancora una volta una copertina stupenda avvolge un lavoro superbo, una estatica mistura di sonorità barocche e medievali dove la voce Liz fa la parte del leone e rappresenta il loro marchio di fabbrica. L’iniziale “Ivo” (chissà a chi è dedicata…) resta impressa dal primo ascolto, “Persephone” richiama le lezioni di Siouxsie mentre nella suadente “Lorelei” Elizabeth si supera. Un lavoro magico che riflette un gruppo in evidente stato di grazia. Le loro quotazioni crescono grazie alle frequenti partecipazioni al programma di John Peel. Nonostante la pessima strategia commerciale scelta (nessun video promozionale) a fine anno questo disco è tra i più votati dai critici. L’anno successivo licenziano una serie di EP di buon livello, per vedere un seguito informato esteso bisogna aspettare il 1986 con l’uscita di “Victorialand”. I nostri pubblicarono altri dischi, quale più quale meno, di buona fattura accostandosi a una forma più canonica di canzone, sempre in bilico tra problemi di droghe e alcool (Guthrie) ed equilibri psichici precari (Fraser) che nemmeno la nascita di una bimba, Lucy Bell, riuscirono a sopire. Nel 1997 avviene la rottura definitiva, proprio in sala d’incisione mentre stavano preparando del nuovo materiale. Tutti gli elementi della band sono rimasti nel giro musicale, la Fraser ha collaborato con i Massive Attack nel loro disco “Mezzanine” cantando alcuni dei pezzi migliori ed ha collaborato per alcune colonne sonore, Gutthrie in veste di produttore ha lavorato con John Foxx e con Harold Budd. Nel 2006 la 4AD ha licenziato una raccolta di quattro cd, “Lullabies to violane”, contenente il materiale edito nei numerosi EP. |
Post n°87 pubblicato il 19 Novembre 2014 da sanavio.stefano
La musica elettronica è sempre stata snobbata. Beh non proprio snobbata, diciamo non considerata quanto sarebbe doveroso. Si perché se il rock da che mondo è quel qualcosa di indefinito che genera emozioni, solitamente ha bisogno di una chitarra che eroghi decibel a profusione, possibilmente manipolata da uno scalmanato e sudato musicista dalla folta chioma. Questa è l’immagina da stereotipo immediatamente riconducibile alla musica che amiamo. Per una serie di fattori invece la genesi dell’elettronica riconosciuta nel mondo rock ha avuto origine da una pletora di gruppi tedeschi che ebbero la loro massima espressione negli anni settanta, la kosmische musik o krautrock. Ma non dimentichiamo che l’idea che la musica potesse scaturire da una macchina fu, guarda un po’, di un italiano, Luigi Russolo, futurista che ad inizio del novecento redasse il manifesto “l’arte dei rumori” secondo il quale i fragorosi rumori dell’era industriale avevano pari dignità a quelli scaturiti da violoncelli, xilofoni e pianoforti. Un altro personaggio, il compositore francese Edgar Varese, alla fine degli anni venti, riuscì a brevettare degli strumenti di carattere pre elettronico. Negli anni seguenti videro la luce strumenti tradizionali elettrificati quali l’organo Hammond e la chitarra Rickenbacker, così chiamati dal nome degli artigiani che li avevano amorevolmente assemblati. Prima della seconda guerra mondiale avvenne la prima rudimentale impressione su nastro magnetico di rumori di origine musicale dalla tedesca AEG, pratica che si diffuse a macchia d’olio al di la dell’oceano atlantico. Anche in Italia qualcosa si mosse dopo la fine della guerra; in anticipo sui tempi la radio televisione italiana instaurò lo studio di fonologia musicale, un po’ come faceva John Cage in America dove parlava di musica aleatoria, cioè la casualità introdotta nella composizione. E cosa c’è di più aleatorio del suono che può fuoriuscire da un marchingegno elettronico? La RCA negli anni cinquanta produsse un primo prototipo di sintetizzatore, ma la vera produzione industriale iniziò un decennio più tardi per opera dell’ingegnere statunitense Robert Moog. Molti si accostarono a questo infernale macchinario in grado di produrre suoni sintetici freddi e cerebrali, ma pochi ne capirono le potenzialità. E’ vero anche che pochi potevano permetterselo perché costava una follia, ma alcune ricche popstar del mondo progressive quali il folle incendiario di tastiere Keith Emerson, il modesto Tony Banks dei Genesis e l’ambiguo Rick Wakeman (perennemente vestito di tuniche da frate buddista) degli Yes assunsero lo strumento come fondamentale nell’economia delle rispettive band d’appartenenza. Fortuna volle che non solo il progressive adottò il synth ma anche una coppia di fenomeni di Dusseldorf chiamati Ralf Hutter e Florian Schneider, dapprima denominati Organisation, poi rinominati Kraftwerk. Freschi di studi di conservatorio dove avevano appreso i rudimenti dal maestro Karlheinz Stockausen, gravitavano nell’orbita di quel movimento culturale che aveva in serbo di far nascere band fondamentali quali Can guidati guarda caso da altri due allievi di Stockausen, Holger Czukay e Irmin Schmidt, i Neu di Klaus Dinger e Michael Rother, gli hippy psichedelici in salsa tedesca Amon Duul e Ash Ra Tempel. Insomma un bel movimento non c’è che dire. Ma mentre i Can riscrivevano con “Tago Mago” del ’71 l’approccio di certa psichedelia americana frammentandola con umori dei Velvet Underground ed elettronica ad ampio raggio, il nostro duo tardava a trovare la propria specifica dimensione, cosa che fecero qualche anno dopo. Novembre 1974, quarant’anni fa esatti esce “Autobahn”, primo disco dei Kraftwerk con soli strumenti elettronici (in realtà il quarto della loro produzione, quinto se si conteggia “Tone Float” a nome Organisation) e prodotto dal demiurgo Conny Plank è arcinoto per la lunga suite che da titolo al disco che venne per forza di cose ridotta ai canonici tre minuti e rotti nelle versioni a 45 giri per sorprendere e sbancare il mercato americano, dove i nostri sfondarono più che in Europa. Molti strumenti sono stati creati appositamente dai membri della band, come la arci nota batteria ad opera di Wolfgang Flur (il quarto effettivo era il chitarrista Klaus Roder). Altri titoli nel disco due lunghe “Kometenmelodie” di diversa intensità (con mia particolare preferenza alla seconda) , la effettata “Mitternacht” della quale Bowie prenderà appunti soprattutto per la seconda facciata di “Heroes” e la finale “Morgenspaziergang” con un flauto fiabesco all’interno di un contesto fatto di quieti fluire di ruscelli e cinguettii virtuali grazie alle eccentriche invenzioni. Dire che è un disco rivoluzionario è poco, plasmò di fatto certa new wave, ambient e techno pop, come lo furono gli altri editi negli anni settanta (l’indimenticabile “Trans Europe Express” in primis), oltre alle marcate influenze nel Bowie del periodo berlinese e degli incommensurabili Suicide del ’77 e negli anni successivi per Human League, Cabaret Voltaire, solo per citarne alcuni, fino al progressivo sfilacciamento della vena compositiva, le beghe legali con gli altri componenti che erano saliti a bordo e l’allontanamento dalle scene live per perseguire altri obiettivi. |
Post n°86 pubblicato il 28 Ottobre 2014 da sanavio.stefano
Aveva tutte le qualità Lloyd Cole per diventare una star di fama internazionale: il physique du role, una voce adolescenziale e malinconica il giusto, e l’innata capacità di creare delle linee melodiche di quelle che non si dimenticano facilmente e tradurle in gradevolissimi pezzi capaci di mischiare Byrds, Velvet Underground e certa new wave che andava ad inizio anni ottanta; se non è diventato una star dal conto milionario non è certo colpa dell’esordio discografico del quale parlo in questo post, che fu un fulmine a ciel sereno, dato che di Lloyd precedentemente non si era mai sentito parlare, se non sporadicamente. Nativo di Buxton inizia a frequentare l’università di Glasgow dove incontra i futuri sodali che costituiranno la sua band, i Commotions: il chitarrista Neil Clark, il tastierista Blair Cowan, il bassista Lawrence Donegan e il batterista Stephen Irvine. Ottobre 1984, trent’anni fa esatti esce “Rattlesnakes”, l’esordio clamoroso su etichetta Polydor, uno dei dischi più freschi e meglio riusciti di quell’anno. Sono diversi i classici inclusi che meritano la citazione: l’iniziale “Perfect Skin” perfetta simbiosi dei Velvet con un cantato quasi parlato che simula Lou Reed, la misteriosa “Down On Mission Street” prodotta magnificamente, la quasi rockabilly “Four Flights Up”, la veloce title track e quella che chiude il disco nel migliore dei modi, significativa sin dal titolo: “Are You Ready To Be Heartbroken?” con i cori femminili che rafforzano la sensazione che il cuore si spacchi per davvero. Lo si ascolta sempre volentieri questo album che sembra non risentire del tempo che passa. Seguirà un Lloyd Cole a fasi alterne, i successivi due album presenteranno maldestri tentativi di raggiungere il successo senza il carattere necessario, snaturando le sue godibili cavalcate per un sound più mainstream (ed è proprio questo il titolo del disco dell’87); accortosi di aver bisogno di una svolta epocale il nostro scioglie i Commotions e si trasferisce a New York dove incontra nuovi sodali e inizia la carriera da solista con rinnovato entusiasmo, prova ne sarà “Lloyd Cole” del ’90 (a sottolineare il nuovo inizio). Da segnalare senz’altro altre due prove significative del nostro: “Music In a Foreign Language” del 2003, con ballate scarne cupe e notturne sullo stile di Nick Cave di inizio secolo (non a caso vi è una cover di “People Ain’t No Good”) e il successivo di sette anni “Broken Record” dove ritorna a collaborare con Blair Cowan e spicca la partecipazione di Joan Wasser (Joan As Policewoman) un disco pieni di invenzioni che delinea la maturità del songwriter albionico. |
Post n°85 pubblicato il 20 Ottobre 2014 da sanavio.stefano
Che dire ancora degli U2, dopo tutti quei milioni di copie di album venduti in tutto il mondo, dopo che la loro immagine è conosciuta in ambito planetario come e forse più dei Beatles, dopo che si sono esposti in contributi alle cause umanitarie più disparate, insomma stiamo parlando di tanta roba. Come sanno ormai anche i sassi la loro storia parte nell’Irlanda lacerata di fine anni settanta: Bono Vox (Paul Hewson) alla voce, The Edge (David Evans) alla chitarra, Adam Clayton (basso) e Larry Mullen (batteria), questi sono i nomi dei quattro che sembrano nati per stare incollati l’uno all’altro. Dediti all’emulazione di Stones, Velvet e Neil Young ma attratti anche dal post punk; le loro prestazioni musicali sono oggetto di interesse della Island che con lungimiranza non ci penserà un istante a metterli sotto contratto. Nel 1980 dopo la pubblicazione di due singoli frizzanti quali “11 O’Clock Tick Tock / Touch” (a maggio, prodotto da Martin Hannett) e “A Day Without Me / Things To Make & Do” (ad agosto) in ottobre esce il loro esordio discografico “Boy” dalla celebre copertina raffigurante una ragazzino innocente, e dalle sonorità agili, veloci, energia e lirismo condensate in un disco ancora un po’ ingenuo ma molto promettente. La critica se ne accorge e ne tesse le lodi, così come il pubblico che corre in massa ad acquistarlo. Prodotto da Steve Lillywhite (in evidenza per i lavori con Siouxsie & The Banshees e Peter Gabriel) il disco vanta tra i suoi solchi il nuovo singolo “I Will Follow” scarica adrenalinica di notevole impatto. Il gruppo si imbarca in un imponente tour (Irlanda, Inghilterra e America coast to coast le tappe) dove il pubblico avrà modo di verificare il potente live set dei quattro irlandesi; in particolare sul palco funziona a meraviglia l’accoppiata Bono folletto impazzito che salta incessantemente da una parte all’altra del palco e Edge chitarrista all’avanguardia come pochi in quegli anni. Passa un anno ed è già pronto il seguito che si chiama guarda caso “October” che non denota l’auspicata maturità artistica ma segna il passo come un lavoro timido, poco compatto. E anche religioso, detto senza ironia. Sono presenti infatti l’inno “Gloria” e “Rejoice” con liriche espressamente mistiche, ma anche dei mezzi passi falsi come “Is That All?” e la stessa lenta e compassata title track che poteva essere sviluppata in modo più originale. Ci sono anche per fortuna delle chicche degne dei migliori U2 quali “I Threw a Brick Through a Window” e la drammatica “Tomorrow” dedicata alla defunta madre di Bono. Il gruppo è costantemente in concerto dove sviluppano una qualità impressionante che fa crescere vertiginosamente la loro reputazione. L’anno successivo ad agosto Bono si sposa, dopo di che tutti i membri sono convocati in un cottage sulla costa dublinese per le sessioni di registrazione del loro terzo lavoro. Le sessioni inaspettatamente durano più a lungo del previsto tanto che il nuovo disco “War” vede la luce solo a marzo dell’anno dopo, con in copertina la faccia del bambino di “Boy” diventato un po’ più grande e arrabbiato. La leggenda vuole che a Natale ’82 il gruppo presenta dal vivo un brano che sarà incluso nel nuovo album per assoggettarlo al giudizio del pubblico che lo accoglie con roboanti urla di entusiasmo. Il pezzo in questione è “Sunday bloody Sunday” destinato a diventare una delle canzoni più amate dai fan, che parla col cuore in mano di repressione e fratellanza, di pace e di Gesù; una batteria secca e minacciosa introduce il famoso riff chitarristico destinato a fare epoca e Bono che intona l’incipit “I can’t believe the news today…”. Il singolo estratto che anticipa l’uscita del disco di due mesi è la stupenda “New Year’s Day” con le tastiere liquide in primo piano e il cantato perfetto e suadente di Bono. Ma questo album è pieno di pezzi eclatanti: “Like a song” è combat rock allo stato brado, “Two Hearts Beat As One” una love song adrenalinica, “Drowning Man” è poetica e accattivante, “40” un ulteriore inno seducente dal sapore chiesastico. Il successo è assicurato, in particolare in America dove vengono assimilati ai Clash, con al posto delle tematiche marxiste le loro sofferte liriche cattoliche. Ad agosto partecipano al festival tedesco Rockpalast dove grazie all’eurovisione possono raggiungere le case di tutta europa. Dopo il fugace intermezzo di un mini album dal vivo “Under a Blood Red Sky” che immortala alcuni concerti americani e che riesce a trasporre su disco le energiche esibizioni del quartetto la band, in primavera del successivo anno, entrano in studio accompagnati da due pezzi da novanta in veste di produttori: l’ex Roxy Music Brian Eno e Daniel Lanois. Ottobre 1984, trent’anni fa esatti esce “The Unfogettable Fire” disco che segna il passaggio degli U2 all’età matura e che li afferma nello stardom del rock; indimenticabili vari pezzi tra i quali la title track, il singolo “Pride (in the name of love)” con ottimi riscontri di vendita ma anche “Bad” e “Elvis Presley and America” riescono a scavare nell’intimo dell’ascoltatore. Il resto, come si usa dire, è storia. Da pochi giorni è uscito, non senza polemiche, il nuovo disco della band “Songs of Innocence”, dapprima gratuito per i soli utenti Iphone, poi distribuito sui canali ufficiali. |
Post n°84 pubblicato il 08 Ottobre 2014 da sanavio.stefano
A qualcuno il nome di questo gruppo potrebbe far pensare ad un gruppo di fanatici tifosi giallorossi (ovviamente romanisti) in gita fuori porta; infatti la traduzione letterale sta a significare camion rossi e gialli, un’immagine che se si concretizzasse su un’autostrada rischierebbe di far uscire dai gangheri gli occasionali viaggiatori delle strade nostrane, specie in questo periodo dopo la sconfitta della Roma con la Juventus della scorsa domenica. Invece si parla di un gruppo del quale oggi sono in pochi (ma buoni) a ricordarsi e che per un attimo hanno fatto sognare le schiere degli orfani dei Joy Division, schiere tra l’altro pregne di buongustai, sia chiaro, amanti delle rock d’atmosfera che fu in qualche modo battezzato dai famosi mancuniani. Formatosi nei dintorni di Leeds nei primi anni ottanta grazie al vocalist e chitarrista Chris Reed, l’altro chitarrista David Wolfenden, il bassista Paul Souther e batterista Mick Brown si fanno largo nel marasma cittadino in compagnia dei più noti Sisters Of Mercy, grazie ad una serie di singoli azzeccati quali “Beating My Head”, “Take It All”, “Chance” e “Spinning Round”. Come i conterranei Sisters arrivarono all’esordio su lunga durata dopo una serie interminabile di dodici pollici che facevano intravedere un discreto amalgama e un futuro radioso per la loro sorte. Ottobre 1984, trent’anni fa esatti esce “Talk About The Weather” e subito devo correggermi, dato che la durata del disco non è proprio lunga come detto (ventisette minuti) ma il contenuto rivela delle perle di inebriante valore, a metà strada tra la band di Ian Curtis, che al tempo erano già New Order e i Killing Joke più fruibili. Le gemme che sono incise nei solchi restano nella memoria collettiva, quali la title track (sentita per la prima volta al programma radiofonico ‘Nocturnal Emission’, non so se mi spiego), “Hollow Eyes” altro pezzo da novanta e la conturbante e marziale “Hand On Heart”. Non proprio prolifici i nostri licenzieranno un altro 33 giri nell’87 dopo di che la crisi implacabile si abbatte sui nostri sarà la fine. |
Post n°83 pubblicato il 24 Settembre 2014 da sanavio.stefano
Nome enigmatico, look falso trasandato che fa molto indie, una voce fuori dal comune, un chitarrista di lontane origini genovesi e ‘genoane’ (ha sbandierato in più occasioni l’attaccamento alla squadra più antica del bel paese facendosi ritrarre con la maglia rosso blu); queste sono le caratteristiche della band sulla quale questo mese mi dilungo. Nome enigmatico dicevo poc’anzi perché pare sia derivato dalla celebre Linda Kasabian, una delle ancelle di sua malvagità Charles Manson, ma anche il fatto che tradotto in armeno voglia dire macellaio ha un suo perché. Fatto sta che i Kasabian sono ad oggi una delle poche promesse mantenute dalle nuove band albioniche. Formati nella piccola (rispetto a Londra) Leicester, il primo nucleo vede Sergio Pizzorno (ecco il genoano di prima) alla chitarra, Tom Meighan alla voce solista e Christopher Karloff che se la sfanga con tastiere quanto con le chitarre; si aggrega a loro il bassista Chris Edwards per partire col botto, incrociando la strada di un manager della potente RCA che permette loro di misurarsi con dei singoli. Il risultato è sconvolgente, tre muscolosissime prove (“Processed Beats”, “Club Foot” e “LSF”) che fanno incetta di riconoscimenti sulle college radio. Settembre 2004, dieci anni fa esatti esce l’omonimo “Kasabian”, che oltre ai tre singoli di cui sopra annovera altri pezzi convincenti quali “Reason Is Treason” (riprodotta anche in modalità nascosta con remix) e l’aria malsana di “Test Transmission”. Lavoro carino per una band esordiente, posto che di esordi fulminanti ormai non ce ne sono più dai tempi degli Stone Roses (ecco un nome che ritorna dopo l’ascolto), un mix di Primal Scream meno danzerecci e gli Oasis meno sdolcinati. L’anno dopo entra a far parte della formazione ufficiale il batterista Ian Matthews e se ne esce Karloff per divergenze circa la direzione artistica da intraprendere, nel 2006 esce il seguito “Empire” che ottiene un buon successo. Da segnalare il salto di qualità definitivo in termini commerciali ottenuto dall’album “Velociraptor!” del 2011 soprattutto per la presenza della ballata “Goodbye Kiss” che raggiunge vette insperate nelle classifiche di vendita. Quest’anno è uscito il loro quinto e attualmente ultimo disco di studio “48:13” dove il groove danzereccio è ancora più accentuato, così come alcuni rimandi al krautrock anni settanta. Per inciso: cinque dischi in dieci anni rapportati all’esigua prolificità dei tempi odierni sono un bottino rilevante, anche in questo i nostri si distinguono dalla massa. |
Inviato da: Koheleth
il 17/12/2014 alle 21:15
Inviato da: sanavio.stefano
il 08/04/2014 alle 09:12
Inviato da: Alm0st_Blue
il 25/03/2014 alle 16:46
Inviato da: sanguemisto84
il 27/11/2013 alle 15:52
Inviato da: LEIarabaFENICE
il 29/01/2013 alle 22:44