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IL MUGNAIO "MACININO" - VII Puntata

Post n°19 pubblicato il 13 Luglio 2010 da ciapessoni.sandro
Foto di ciapessoni.sandro

TRIER (Treviri) -Germania -

Ruderi romani degli antichi bagni
di Costantino.

dalle: "Fiabe dell'antico Reno"

di: Clemens W.Maria Brentano.

*****

... segue: VII puntata:

- Come re Ratto di Magonza mandò sulla forca
  la vecchia regina di Treviri col principe Rattopelato.
- Come il principe Orecchioditopo di Treviri,
  si vendicò attirando nel Reno tutti i bambini di
  Magonza, per poi conferire con il re dei topi
  sulla tomba della madre.

*****

 

VII Puntata

Dopo che si fu liberato dai topi, il re di Magonza ordinò grandi festeggiamenti durante i quali una enorme quantità di sorci morì appesa sull’alta forca a tre gambe, eretta al centro della piazza. Poi fece caricare su di un carro due fantocci, un uomo di paglia ed una donna di stracci, rivestiti di pelli di topo. tutti i bambini della città li seguivano zufolando con i loro pifferi. Erano diretti alle prigioni; qui si doveva prelevare Macinino e caricarlo sul carro.

Ma quale fu lo stupore allorché trovarono nella cella vuota soltanto il farsetto del mugnaio e delle ossa di un morto che certamente erano lì da parecchio tempo! Tutti si convinsero che il mugnaio fosse stato mangiato dai sorci. Il re si dispiacque, di non potergli arrecare altro danno, fece però appendere il suo farsetto accanto al Rattopelato di paglia e alla regina di stracci mentre intorno i bambini facevano un terribile chiasso coi loro pifferi.

Alla notizia della morte del mugnaio, la bella Ameleya si addolorò moltissimo e mandò la sua vecchia e fedele nutrice giù alle prigioni per cercare se per caso tra le ossa non vi fosse il suo anellino. Mentre l’anziana nutrice frugava qua e là, spuntò il re dei topi che le chiese: “Cosa andate cercando nonnina?”. Dapprima la vecchietta si spaventò temendo che il topo volesse mangiarla, ma quando le disse: “Puoi salutare la bella Ameleya da parte del mugnaio Macinino e puoi riferirle che Macinino è sano e salvo. Starà via per qualche tempo, però lui – Macinino – la prega di restargli fedele e di far finta di crederlo morto”. L’anziana nutrice si rallegrò molto e tornò tutta contenta dalla principessa per recarle la lieta notizia.

Non appena il perfido re di Magonza (Mainz) ebbe dato inizio ai festeggiamenti, a Treviri (Trier) giunse la notizia della triste sorte toccata al principe Rattopelato e a sua madre, che erano stati appesi ad una sfavillante forca e sbeffeggiati dai bambini. Rattopelato aveva un fratello minore di nome Orecchioditopo, il quale nell’udire il racconto s’incollerì a tal punto da cominciare a delirare e, nonostante i numerosi tentativi di calmarlo, continuava a gridare:

“Gliela farò vedere io a quei ragazzacci che hanno irriso mia madre e mio fratello!”.

Smise solo quando posò lo sguardo su di un elegante generale che lo salutò con un profondo inchino: “Non so che farne degli inchini”, strillò Orecchioditopo, “fintantoché mia madre e mio fratello vengono derisi a Magonza dai monelli di strada!”.

A queste parole i soldati che marciavano dietro al generale, impalati come statue di cera, si misero a protestare e gli chiesero perché li portasse sempre a spasso lì intorno e non a Magonza, a catturare il loro re. Ma il generale replicò: “Cari figlioli, quando saremo più numerosi le cose andranno meglio. Stiamo a vedere quando coraggio sapremo dimostrare quest’anno”.

Ma i soldati si sentivano baldanzosi e intrepidi e iniziarono a fare salti alti quanto un uomo e qualcuno si mise addirittura a testa in giù, reggendo le armi con i piedi.

I dignitari del regno, che avevano assistito alla scena, stabilirono di mettere tutti i soldati in catene allo scopo di aumentarne la ferocia e di spedirli poi a Magonza al momento opportuno; inoltre fecero sapere al principino, tramite il suo precettore, che se si fosse comportato bene avrebbe potuto unirsi all’esercito e in seguito diventare re.

Orecchioditopo fece finta di nulla e tenne per sé i suoi piani. Aspettò fino a notte fonda e iniziò a russare forte finché il precettore, credendo che dormisse sodo, si decise a prendere sonno. Quando si alzò senza far rumore, prese con sé un po’ di pane e l’abbecedario e sgattaiolò via alla volta di Magonza.

Camminò tutta la notte attraverso un fitto bosco e quando verso mattina arrivò su un prato bagnato da un ruscello, si stese fra l’erba alta e si mise a dormire. Poco dopo fu svegliato da un gran cicaleccio, si guardò intorno e vide avvicinarsi un’enorme cicogna dalle zampe lunghissime, seguita da un nugolo di bambini che si apprestavano a ripetere la lezione, seduti in cerchio attorno al maestro.

Il cicognone incominciava: “A b ab b a ba Abba”, tutti i bambini ripetevano in coro e se qualcuno sbagliava gli dava una beccata così forte da farlo piangere. Orecchioditopo trovò la scena molto divertente, scoppiò in una fragorosa risata e i bambini lo imitarono; la cicogna andò allora su tutte le furie e si mise a menar di becco a destra e a manca finché tutti iniziarono a gridare: “Laggiù c’è uno che ci fa ridere”.

Detto questo, il maestro cicognone si avventò contro il principe Orecchioditopo con una tal foga che incespicò e cadde, raddoppiando così le risate dei fanciulli. Indispettito, il grosso volatile si mise a beccare ancora più forte e avrebbe assestato un bel colpo anche a Orecchioditopo, se questi non si fosse difeso con l’abbecedario, aperto su una pagina raffigurante una grande cicogna. Al che, il Maestro Gambalunga (che fin’ora abbiamo chiamato ‘cicognone’) rimase di stucco e prese a fare salti di gioia intorno al principe.

“Signor cicognone” disse Orecchioditopo, “ non se la prenda con me se prima ho riso, la colpa è di un filo d’erba che mi solleticava il naso. Vorrei anzi donarvi il mio abbecedario in cui siete così ben ritratto”. Il maestro cicogna ne fu molto compiaciuto, mandò i bambini in ricreazione ed essi, senza farselo ripetere due volte, corsero felici nel bosco.

Poi s’intrattenne amabilmente con Orecchioditopo, il quale gli chiese chi lo avesse nominato maestro. Il cicognone raccontò che anche suo padre era stato maestro e prima di lui suo nonno e il suo bisnonno e che siccome erano le cicogne a portare i bambini sotto i cavoli, spettava a loro il compito di istruirli. I contadini del villaggio, infatti, non erano mai a casa perché dovevano lavorare tutto il giorno lontano là sui campi. Perciò il maestro custodiva il borgo, situato al di là del bosco, teneva l’amministrazione e la domenica faceva anche la predica. Poi si fece illustrare l’abbecedario da Orecchioditopo, divertendosi un mondo.

“Illustrissimo maestro” chiese il giovane principe, “come fate a farvi ubbidire dai bambini?”.

“Laggiù, dietro al ruscello” spiegò, “ c’è un canneto di mia proprietà, piantato dal mio bisnonno. Se con una di quelle canne m’intaglio uno zufolo e fischio, tutti i bambini sono costretti a seguirmi dove voglio io”.

“Non mi potrebbe regalare uno zufolo in cambio dell’abbecedario?” propose Orecchioditopo, “con piacere!” esclamò la grande cicogna, poi corse via e ritornò in un batter d’occhio con uno splendido piffero. A quel punto Orecchioditopo si accomiatò e gli promise che, se gli scolari avessero fatto dei progressi usando il suo abbecedario, gli avrebbe regalato un buon panino caldo di ritorno dal suo viaggio. Il cicognone allora spiccò un gran salto di gioia e se ne andò schiamazzando.

Orecchioditopo, tutto contento, nascose lo zufolo nel berretto – portava un berretto molto alto, di candida pelle di topo – e si diresse allegramente verso Magonza. Cammino facendo, gli venne voglia di provare il piffero e, giunto in un prato dove due giovani guardiani di oche stavano mangiando la loro zuppa di miglio, suonò due note di lontano e i pastorelli abbandonarono subito il pranzo per corrergli incontro.

“Benissimo” pensò, ora tocca a me fischiare i perfidi mocciosi di Magonza, che hanno sbeffeggiato mia madre e mio fratello: ormai non potranno più sfuggirmi!”. Mise le gambe in spalla e ben presto arrivò in vista delle torri della città.

Non stava più nella pelle dall’agitazione; camminava spedito per la città meravigliandosi di non incontrare per strada anima viva. Sembrava fossero tutti morti. Infine giunse a una chiesa, dalla quale provenivano dei canti e la musica di un organo. Spiò attraverso il buco della serratura e vide molte donne che cantavano in coro:

Dio sia lodato,

i topi ha scacciato!

Tirò pian pianino il chiavistello e proseguì fino a un’altra chiesa, origliò di nuovo e udì delle voci maschili cantare:

Dio sia lodato

i topi ha cacciato!

Nella torre il mugnaio è stato

e lì, i topi lo hanno divorato.

Poi richiuse la porta e arrivò in un’altra chiesa ancora più bella dalla quale si diffondeva un suono di timpani e di trombe; sbirciò nella toppa, scorse il re e tutti i suoi cortigiani e, nonostante l’incredibile fracasso provocato dal canto degli strumenti, riuscì a intendere queste parole:

Dio sia lodato,

i topi ha scacciato!

Nella torre il mugnaio è stato

e lì i topi lo hanno divorato.

Rattopelato

e la sua cara mammina

evviva! hurrà!

Appesi ora alla forca pendono

e una gran bella coppia formano.

Oh Signore, preservaci dal male

e di siffatta gente: amen amèn, amèn!

amèn e così sia.

 

--- Antico castello di Treviri ---

Quando Orecchioditopo udì questo canto, la collera e l’indignazione gli fecero ribollire il sangue, ma rimase in silenzio. Anche qui tirò il catenaccio e scrisse sul muro con un pezzo di carbone.

Chi senza l’oste i conti fa

di grosso ben si sbaglia e ben gli sta.

Cantate pure prima e dopo…

e intanto Orecchioditopo

principe d’illustre casato,

tutte le porte, ben ha già sprangato.

Allora si diresse verso la piazza del castello e, man mano che s’avvicinava, sentiva levarsi sempre più forti fischi e schiamazzi. Svoltato l’angolo, vide la piazza gremita di bambini urlanti che si accalcavano attorno alla forca , dalla quale credeva pendessero veramente sua madre e suo fratello, e cominciò a piangere disperato.

Quando si fece strada tra la folla con il suo grosso berretto da ussaro, i bambini, che indossavano colorati berretti della domenica, molto diversi dal suo, gli si assieparono attorno e gli chiesero incuriositi da dove venisse, chi fosse suo padre, dove avesse trovato quel bel berretto e perché stesse piangendo. Orecchioditopo, sforzandosi di trattenere le lacrime, rispose:

“Conoscete l’Isola di San Pietro?”,

“oh sì,” gridarono in coro i bambini: “Si trova lungo il Reno”.

“Beh, io vengo proprio da lì, sono il figlio di Pietro dell’Isola di San Pietro e mi chiamo Pierino; mio padre è il re dell’isola e fa i sampietrini”, (antica moneta di Treviri) con cui si comprano le mele, le noci e le pere”

“Oh!” si meravigliarono i bambini, “anche noi vorremmo venire a San Pietro e riempirci le tasche di sampietrini! Ma dove hai trovato quel berretto così alto? Anche questi li fa tuo padre?”. “Ma certo” ribatté Orecchioditopo. “da noi tutti i bambini hanno questo berretto, anzi, ne hanno anche di molto più belli, con piume d’oro e un gran pennacchio; questo qui è un semplice berretto da viaggio… “.

“Sei proprio fortunato! Allora, perché piangevi?”.

“Piangevo di rabbia” spiegò Orecchioditopo, per tutto il male che hanno fatto quei due appesi alla forca; accidenti, però… che belle pellicce! Se le avesse all’Isola di San Pietro, mio padre potrebbe fare berretti per tutti”.

“Sentite ragazzi” esordì uno spazzacamino, “se le bambine tengono la bocca chiusa, vorrei tirare giù i due tizi impellicciati, così Pierino può portarli a suo padre e farci confezionare i berretti”.

“Insomma, volete sempre farci passare per spie”, protestò la figlia di un maestro, “in realtà siete stati voi a tradirci l’altro giorno, quando abbiamo scrollato le pere dagli alberi del sagrestano. Anche a noi piacciono i berretti di pelo e, se ce ne farete qualcuno, promettiamo di non fiatare con anima viva”.

“Sì certo!” gridarono le altre bambine, “ma cosa diremo” obiettò lo spazzacamino, “quando i nostri genitori ci chiederanno dove abbiamo trovato i berretti e dove sono spariti i fantocci di pelo?”.

“Beh” replicò la furba bimbetta, “risponderemo che i fantocci sono volati via e che i berretti sono piovuti dal cielo. In fondo, anche gli adulti non sanno da dove sono spuntati i topi”.

“Giusto!” gridarono tutti i coro, “Giù, giù quei mascalzoni!” e con un balzo il piccolo spazzacamino si arrampicò sulla forca per tagliare le corde. Al che Orecchioditopo gli gridò:

“Piano, piano, non farli cadere di botto; la pelliccia si potrebbe rovinare! Non avete un carro per trasportarli fino al Reno? Là ci aspetta una barca”.

“Qui vicino,sottola porta del castello, c’è il carrozzino d’oro del re, e lo usa tutti i giorni per andare a spasso per il giardino trainato da due grossi cani” propose il figlioletto del cocchiere:

“Andiamo a prenderlo, non è pesante”. E nel frattempo alcuni bambini erano già corsi via a prendere il carrozzino.

In un baleno l’avevano sistemato sotto la forca. Lo spazzacamino tagliò le corde e i due fantocci vi caddero dentro alla perfezione, tanto da sembrare due persone in carne ed ossa. Mentre il primo volava giù, tutti i bambini urlarono in coro: “Vittoria!”, ma Orecchioditopo chiuse gli occhi convinto che fossero sua madre e suo fratello, e temette si facessero male. “E ora avanti, al Reno!” gridò Orecchioditopo. I bambini tiravano il carrozzino, le bambine lo spingevano e Orecchioditopo procedeva in testa al corteo.

Giunti al fiume, dietro un cespuglio trovarono la nave nuziale parata a lutto; Orecchioditopo fece imbarcare i due fantocci e issò le vele; intanto i bambini si erano disposti in cerchio sulla riva. Quando tutto fu pronto per la partenza, egli prese il timone con una mano, con l’altra estrasse il piffero dal berretto e annunciò:

“Cari bambini e care bambine di Magonza, siccome avete fischiato alcune canzoncine a queste onorate persone che riposano nella barca, ora vorrei fischiarvi io un bel ritornello. Venite, venite, che mio padre vi prenderà le misure per i berretti di pelo!”.

E allontanandosi dalla sponda, prese a fischiettare un motivetto un po’ allegro e un po’ triste, sicché i bambini si misero tutti a ridere e a piangere ed infine presero a ballare, immergendosi sempre di più in acqua fino a tuffarsi dentro.

Orecchioditopo navigava sempre di più al largo e i bambini saltavano nell’acqua sempre più allegri; all’inizio tirarono su i vestitini per non bagnarsi, ma ben presto l’acqua arrivò loro al collo e a quel punto intonarono una cantilena straziante:

O Dio, del regno eterno Signore,

o mamma e papà adorati,

nel Reno perire dovremo.

Sventurati noi bimbi,

oh! aiuto, aiuto da voi imploriamo!

O Pierino figlio di Pietro

re dell’isola del Santo Pietro,

troppo cari sono i berretti che vendi,

troppo precisa la misura che prendi;

oh Pietro, Pietro noi supplichiamo!

Mai e poi mai avessimo guardato

il tuo berrettino;

bugiardo sei Pierino, che tu sia dannato.

Adesso ti vendichi da vero aguzzino,

oh il berretto, il berretto malediciamo!

Il piffero ora sibila troppo piano,

il piffero ora… troppo forte zufola,

la terra cede e l’acqua brusca sale

e con il buio della notte gli occhi offusca.

Oh piffero, piffero: più ti ascoltiamo!

Orecchioditopo suonava sempre più forte e ormai dei bambini non si scorgevano che i cappellini e le cuffiette; anche il canto via via si affievoliva, perché sempre più numerosi erano quelli che affogavano.

Il gran chiasso aveva attirato sulla riva la bella Ameleya che, sentendosi poco bene era andata a passeggiare lungo il Reno per restare sola coi suoi tristi pensieri e con il ricordo dell’amato mugnaio Macinino. Il re e tutti gli altri, invece, si trovavano in chiesa. Si spaventò a vedere tutti quei bambini danzare come pazzi e tuffarsi nel Reno! Tutti, tranne una bella bimbetta di nome Amelina, che aveva tenuto a battesimo. La fanciulla stava saltellando sulla sponda e sollevava la gonnellina , pronta ad allungare un piede nell’acqua per sguazzarci dentro.

Ameleya la afferrò svelta per la sottana , ma nello stesso istante Orecchioditopo zufolò un nuovo motivetto così commovente che anche la principessa si mise a danzare, precipitando nel Reno con la piccolina.

Addio poveri bambini! Che Dio abbia pietà di voi! Avete pagato caro il tradimento del perfido re assieme alla vostra cattiveria!

Orecchioditopo rimise il piffero sotto il berretto e lasciò che la corrente del fiume sospingesse tranquillamente la barca. Intorno a lui galleggiavano cappellini e berretti di tutti i colori e fra questi anche la cuffietta di Ameleya, che si riconosceva subito perché era ornata da una coroncina d’oro e da un filo di perle.

L’imbarcazione, sospinta dalle vele, si allontanò rapidamente dalla città, lasciandosi alle spalle cuffie e cappelli che ondeggiavano sempre più piano.

Non appena Orecchioditopo si trovò solo sulla barca, credendosi finalmente in compagnia della madre e del fratello Rattopelato, mise da parte ogni altro pensiero e si fece vicino ai suoi cari per onorarne le spoglie. Si avvicinò prima alla madre e le disse:

“Carissima mamma, il vostro splendido volto è bianco come la neve e qui avete un baffo di fuliggine” Allora prese un po’ d’acqua per lavarle gli occhi e con somma sorpresa si accorse di averglieli cancellati e di aver scambiato per esseri umani dei fantocci di paglia!

“Sono stato imbrogliato!” gridò Orecchioditopo”. Tutti i miei sforzi sono stati vani!” E continuando a lamentarsi, approdò senza saperlo sull’isola nello stretto di Bingen dove erano sepolti i suoi cari.

Siccome era a digiuno da molto tempo, decise di farsi una bella scorpacciata di more, lamponi e nocciole, che crescevano nell’isola in gran quantità; poi avventurandosi nella boscaglia, gli parve d’udire uno strano rintocco. Nello stesso istante vide una enorme zucca vuota oscillare su e giù dal ramo di un nocciolo come fosse una campana. Guardò in basso e con grande meraviglia riconobbe il vecchio re dei topi, intento a scuoterla con le zampette anteriori.

Per un attimo i loro sguardi si incrociarono, poi il re dei topi, al colmo della gioia, saltò al collo del principino che conosceva da quando era ancora in fasce. Un tempo, quand’era l’animale di Stato della defunta regina di Treviri, amava rimpinzare il piccino di dolcetti di marzapane.

“Che ci fai qui?” si chiesero contemporaneamente.

Fra mille dimostrazioni di gioia, Orecchioditopo raccontò di come aveva attirato nell’acqua i bambini di Magonza per vendicare la morte della madre e del fratello, scambiati per i due fantocci.

 

“Carissimo principe” disse il re dei topi, “io vivo qui da eremita, in questo piccolo rifugio che mi sono fabbricato con della corteccia d’albero; poco fa stavo per radunare quei pochi ratti che ho salvato dalla strage. Volevamo andare a pregare sulla tomba dei tuoi cari: sei arrivato proprio al momento giusto!” e accompagnò Orecchioditopo, molto stupito, nel luogo in cui Macinino li aveva seppelliti entrambi.

Fra le lacrime il giovane principe sollevò la lapide e vide le salme piamente composte con la corona sul capo. Lodò di cuore l’operato del buon mugnaio Macinino e inveì di nuovo contro il re di Magonza, colpevole di tutte le disgrazie.

“Giusto!” esclamò il re dei topi, “bisogna augurargli ogni male! Se solo potessi salvare sua figlia, la bella Ameleya, degli altri non m’importerebbe più nulla”.

“La principessa riposa in pace” lo interruppe Orecchioditopo, “la colpa tutta sua ed ora giace in fondo al Reno con gli altri bambini; è caduta nel fiume mentre suonavo l’ultimo motivo”.

 

FINE DI SETTIMA PUNTATA - Il seguito... col fresco dell'autunno.

 
 
 
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