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LA PAZZA DEL SEGRINO di Ippolito Nievo

Post n°21 pubblicato il 30 Luglio 2010 da ciapessoni.sandro
Foto di ciapessoni.sandro

 

IPPOLITO NIEVO (1831 - 1861)
Breve biografia.

Nasce a Padova il 30 novembre 1831 da una famiglia di nobili origini mantovane; la madre discende dai Colloredo di Mont’Albano nel Friuli. Studia in varie città, seguendo gli spostamenti della famiglia, e infine si laurea in giurisprudenza a Padova e si rifiuta di prestare giuramento di fedeltà all’Impero asburgico.. Collabora ad alcuni giornali, compreso “Il caffè” (poi “Panorama Universale”). Pubblica inoltre alcune novelle e saggi su due riviste milanesi illustrate: “L’Uomo di pietra” e “Il Pungolo”. Compone commedie e tragedie. Si innamora di Matilde Ferrari, ma l'idillio dura solo due anni. Partecipa a movimenti patriottici e ai moti anti austriaci, per cui ha anche dei problemi con il governo austriaco. Nel 1855, deluso dalla situazione politica italiana, si ritira a Colloredo e si dedica attivamente alla produzione letteraria. Pubblica diverse raccolte di poesie e novelle. Nel 1858 scrive il suo romanzo principale: “Le confessioni di un italiano”, che sarà pubblicato solo nel 1867 con il titolo di: “Le confessioni di un ottuagenario”. Il romanzo è considerato dai critici di pari importanza a “I Promessi Sposi” di Alessandro Manzoni e a “I Malavoglia” di Giovanni Verga. Ma nel cuore di Nievo è rimasto l'impegno risorgimentale, e unitosi alle truppe garibaldine, il 5 maggio del 1860, salpa da Quarto a bordo del Lombardo con Nino Bixio e Giuseppe Cesare Abba; si distingue a Calatafimi e a Palermo, e Garibaldi lo nomina intendente generale della spedizione. Nel febbraio 1861 Nievo riceve l’ordine di tornare a Palermo per raccogliere la documentazione necessaria a smentire una campagna calunniosa montata contro i garibaldini. Il 4 marzo si imbarca sul piroscafo Ercole, di ritorno verso il continente, ma la vecchia nave fa naufragio e scompare misteriosamente nei flutti del Tirreno al largo di Napoli. Nessuno si salva.

Alcuni titoli:

Angelo di bontà (1855) Il conte pecoraio (1856)

Il racconto novella “La pazza del Segrino” viene edita a Milano da Sancito nel 1859.

 

***

… segue:

II Capitolo del racconto novella: “La Pazza del Segrino”

Questi che a voi e a me paiono sogni, sono tuttavia sbiaditi riverberi d’arcane emozioni che s’avvicendavano nel cuore d’una giovinetta contadina, seduta sullo sterrato ora descrittovi all’imbrunire di uno splendidissimo giorno d’agosto; né crediate ch’io imprenda a narrare un’istoria vecchia, giacché parlo dell’agosto ora passato. Giovinetta e contadina era, come vi dissi, benché con tali qualità contrastassero la fronte grave di pensieri, e la pelle del viso e delle mani morbide e bianchissima: ciò nullameno quello, che per siffatto modo la disformava dalla comune delle sue compagne, era una gravissima sciagura: e tutti conoscevano nei paeselli all’intorno la Celeste o la Pazza del Segrino, come la chiamavano dalla sua consuetudine di soffermarsi ore ed ore a contemplare nell’acque nereggianti del lago la propria immagine.

Dunque ve l’ ho già detto: la povera fanciulla era pazza; pazza dalla nascita, ora carezzevole come una agnellina, ora selvatica più d’una capriola; talvolta sorridente come un fiore spuntato ad un bacio tardivo del sole, tal altra melanconica al pari dell’acqua ove godeva specchiarsi; sempre poi timida e buona, ma mai non aveva ella fatto alcun male, anzi era suo costume soccorrere quando poteva ai bisognevoli, massime ai vecchi; e sulla strada, che dal paesello vien fin sotto alla capanna, il mendico era certo di trovar sempre la Celeste appostata dietro un masso per offrirgli un tozzo di pagnotta od un quattrinello. Da ciò conoscerete che la ragione sebbene offuscata d’assai, non era però affatto spenta in quella creatura.

Infatti ella era venuta crescendo come ogni altra fanciulletta fin sui sette anni, quando sua madre con un capitoletto ereditato dal marito e certi suoi civanzi –risparmi- (ché la Marta come filatrice e buona massaia era tra le prime) aveva comperato quella capanna sopra il Segrino, e tutto intorno un venti pertiche di montagna, dalle quali a poco a poco intendeva ridurre un buon quarto a coltura e così prepararsi un ricovero e qualche agio per la vecchiaia. Ma la vecchiaia o meglio l’impotenza l’ebbe ad incogliere assai prima del tempo; e fu per una caldaia che piombandole di peso sulla mano la resa affatto monca e storpiata; onde immaginatevi in quanta angustia cadessero le due tapinelle da quella prima lusinga d’agiatezza!

Trovarsi a quarantacinque anni così impotente fu un gran colpo per la povera Marta; e peggio poi perché in quel torno la si cominciò ad accorgere di certe stranezze della Celestina che le davano da temere non poco. Per verità la cosa non era ancora giunta a tale da far presagire tutta intera l’acerba sciagura; ma pareva che il suo cuore materno la presentisse e quando le vecchie comari, all’udire certi ragionamenti della bomboletta affatto fuori del comune, strabiliavano e se ne consolavano con lei, ella all’incontro dimenava il capo non sapendo darsene pace.

La Celeste intanto cresceva di statura e di bellezza; ma purtroppo i vaghi timori della Marta s’andavano saldando, e buon per lei che alla conoscenza d’un tanto male la venne a poco a poco; che se lo avesse discoperto tutto d’un colpo, guai alla poveretta!… Quelle sue amiche pertanto l’andavano interrogando, e perché non la mandasse la piccina alla scuola, e perché non se ne valesse per guardare al pascolo una dozzina di pecore; né si accorgevano quelle benedette donne del cruccio che davano grandissimo alla Marta con tali discorsi.

Invano sperò questa che, lasciando fare alla natura, la fanciulletta sarebbe rinsavita di per sé, o che giunta sui dieci anni le sue parole e qualche po’ di lavoro l’avrebbero, come si dice, assodata! Nessuna cosa valse; e se vi fu qualche lusinga di guarirla colle occupazioni campestri, alle quali sembrava oltremodo inclinata, l’ardore stesso e l’ostinazione con cui mettevasi a tali faccende dimostravano in breve, che s’era scambiato per principio di guarigione un nuovo sintomo di malattia. Se da queste trepidazioni fosse lacerato il cuore della Marta, non è a dire; e un nuovo tormento si aggiungeva di vedere la sua figliuoletta fatta come il zimbello dei ragazzacci del villaggio, i quali si ridevano di lei in ogni incontro e delle sue stramberie, incitandovela sovente; anzi una volta per tale cattiveria la sventurata ebbe a correre un gravissimo pericolo. Che camminando ella in riva al Segrino, abbattutasi in una frotta di que’ serpentelli, uno di questi le si mise dietro a persuaderla che entro in quell’acqua erano cose vaghissime a vedere, ed ella poverina ad arrossir tutta per la grande curiosità; e coloro a gridarle in coro, che la provasse, e che ne sarebbe stata contenta; onde finalmente la semplicetta vi saltò entro, e mentre que’ capi guasti avvistisi della grave colpa commessa si sbandavano chiamando soccorso, ella vi sarebbe annegata, se un figlio dello speziale, già grandicello, accorso al rumore, non avesse salvato la vita di lei a rischio della propria.

E da ciò era nata una specie di amicizia fra questo garzoncello che aveva nome Giuliano e la Celestina; sicché dessa gli si mostrava arrendevole meglio che ad ogni altro, e la stessa Marta disperando talvolta di ridurla a qualche suo volere, doveva ricorrere a lui. D’una cosa sola non fu possibile svezzarla per quando Giuliano vi sudasse dietro per le preghiere della vecchia; di perdere cioè alle volte l’intero giorno sulla riva del lago, parlando ora con esso, ora coi pesciolini che raccattavano le briciole del suo pane: e cosa da stupire, una tale mania sembrava esserle sopraggiunta dopo che l’aveva corso quel pericolo d’affogare. Ad ogni modo la Celeste guadagnò da questa pratica d’aver mutato il primo soprannome di Matterella nell’altro più poetico di Pazza del Segrino; e i fanciulli non la molestavano più, anzi mirandola da lungo seduta sulla roccia con le gambe penzolone sull’acque, fermavansi a guardarla con una tal qual venerazione. Di questo modo erano corsi degli anni molti; e nella sua disgrazia la vecchia Marta aveva se non altro avuto la ventura di potersi aiutare, sia colla mano che le rimaneva, sia con la valentia contadinesca della figliuola, a dissodare quelle tre o quattro pertiche di spianata. E col prodotto dei gelsi piantativi all’intorno, e dei pochi legumi e delle poche agnelle menate a pascere sul resto della costiera, la Celeste tirava innanzi la famigliuola. Ma come si può ben credere quelle due anime passavano talora tristissimi giorni; e senza contare le tetre malinconie in cui si perdeva sovente la Celeste, o le lunghe assenze che tenevano dolorosamente sospeso l’animo di sua madre, il solo timore d’una malattia, che venisse a questa, bastava a volgere in angoscia ogni momento di requie.

Però è pur vero che l’uomo a tutto s’assuefa; e col volger del tempo la Marta s’era avvezzata al tenore di vita della giovinetta; sicché rassegnandosi a lasciarla sotto la protezione di Dio, valevasi di lei per le sue faccenduole, come delle bambine appena atte a camminare sogliono giovarsi le povere donne di campagna.


Fine secondo capitolo.

 

 
 
 
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