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Cineforum 2014/2015 | 24 febbraio 2015

Foto di cineforumborgo

C’ERA UNA VOLTA A NEW YORK

Titolo originale: The Immigrant
Regia: James Gray
Sceneggiatura: James Gray, Richard Menello
Fotografia: Darius Khondji
Musiche: Chris Spelman
Montaggio: John Axelrad
Scenografia: Happy Massee

Arredamento: David Schlesinger
Costumi: Patricia Norris
Interpreti: Marion Cotillard (Ewa Cybulski), Joaquin Phoenix (Bruno Weiss), Jeremy Renner (Mago Orlando), Dagmara Dominczyk (Belva), Angela Sarafyan (Magda Cybulski), Jicky Schnee (Clara), Elena Solovej (Rosie Hertz), Maja Wampuszyc (Edyta Bistricky), Ilia Volok (Voytek Bistricky), Antoni Corone (Thomas MacNally), Dylan Hartigan (Roger), Joseph Calleja (Enrico Caruso), Kayla Molina (Sonya), Michael Morana (Michael il vagabondo)
Produzione: James Gray, Anthony Katagas, Greg Shapiro, Christopher Woodrow per Keep Your Head/Kingsgate Films/Wild Bunch/Worldview Entertainment
Distribuzione: BIM
Durata: 117’
Origine: U.S.A., 2013

C'è un grande regista americano da liberare dalla nicchia e da mettere in cornice. Si chiama James Gray. Ha alla spalle quattro film: “Little Odessa”, “'The Yard”, “I padroni della notte” e “Two Lovers”. Il quinto, “C'era una volta a New York” (......). Non è un caso che la denominazione originale, “The Immigrant”, echeggi l'omonimo capolavoro di Chaplin datato 1917: “C'era una volta a New York” è impastato e modellato di quel qualcosa che folgorava le pellicole mute. Già, il melodramma, che è poi, con la famiglia come tema e pendolo ispirativo, il fondamento del cinema di Gray: mélo, contaminato in passato dal thriller o dalla bizzarria di una commedia da alienazione comportamentale, che può, in questa dimensione totalizzante, esplodere e implodere, di emozioni, di dolore, di acuta sofferenza e dissipazione morale dove l'individuo e le regole della comunità non possono non entrare in conflitto. Attraverso una ricostruzione d'epoca esaltante, la macchina da presa arpeggia sui personaggi tuffandoli in un ingranaggio di depravazione, turpitudine, corruzione e sorprendenti scatti di generosità e non immacolato romanticismo. L'occhio di Gray commuove tra pietà, commiserazione e specchio di una normalità abietta dove le 'tortorelle' di Bruno sono in vetrina per i clienti sotto un tunnel di Central Park dopo la cacciata dall'Eden puzzolente del teatro bordello. E per la prima volta Gray sceglie un'eroina come metronomo della storia, come modello di chi lotta per sconfiggere un destino miserando: per Ewa l'interpretazione di Marion Cotillard è uno scandaglio recitativo di valenza indimenticabile con un volto-schermo sul quale scorre la linfa, l'essenza e l'umana cognizione del tradimento, della caduta e del riscatto. Joaquin Phoenix, l'attore feticcio di Gray, è un Bruno bipolare, aggressivo, disarmante, imprevedibile, innamorato, disposto al sacrificio grazie ad un talento che carica l'alter ego di un'energia ad orologeria, alla quale risponde il mago di un Jeremy Renner folletto intenso e dalla duplice marcia tra il seducente e l'ambiguo. La messa in scena di Gray, come nella sequenza dell'epilogo che cita ancora i finali del vagabondo chapliniano ma non con l'ausilio della tendina a cerchio che cattura l'immagine sino a farla sfumare bensì sdoppiando l'inquadratura e la sorte, possiede una maestria così rara nell'Hollywood del Terzo Millennio. “C'era una volta a New York” affascina e turba come l'Ellis Island che i migranti scambiavano per la porta del paradiso per entrare, invece, nei triboli di un inferno da poveracci.
Natalino Bruzzone, Il Secolo XIX

Molto intelligente, forse troppo, James Gray nei quattro lungometraggi passati ci ha abituato a film che di fatto non erano che il loro scheletro, uno scheletro segnatamente letterario. Di carne intorno non se n'è mai vista, nemmeno nel caso di “Two lovers” che pure tentava di rimpolparsi in qualche maniera.
In “The Immigrant”, finalmente, la carne c'è e si vede. Essa consiste, semplicemente, nel rivestimento kolossal del progetto, nello sfarzo scenografico della ricostruzione di una New York di poco dopo la Grande Guerra, nelle straordinarie luccicanze giallo oro delle luci di un Darius Khondji sempre più impudicamente esibizionista. Non è un caso che si parli di scheletri e di carne: è normale che si tratti di incarnazione per un regista come Gray, affezionatissimo a sottotesti apertamente religiosi. Qui veniamo al punto più interessante del film: il modo in cui entrano in gioco le onnipresenti Radici Ebraiche. Se fino ad ora una delle cose che appesantivano il cinema di Gray era la declinazione di queste radici nel senso di una specifica appartenenza etnica, ora la posta si alza e la questione si sposta più in generale sull'iconoclastia: nel conflitto tra essa e la cattolica iconolatria, “The Immigrant” tenta di individuare nientemeno che l'origine mitologica di quello che fu il (breve) secolo a stelle e strisce.
I due uomini tra cui è divisa la (cattolica) polacca Ewa appena sbarcata nella grande mela prendono in tutta evidenza ognuno una delle parti in gioco. L'ebreo Bruno, spietato impresario teatrale (e lenone) messo in crisi dal consolidarsi del cinema, non fa altro che nascondere. Orlando, illusionista che entra in scena con un primo numero in cui levita con le braccia aperte a mo' di crocifisso, e con un secondo che consiste nientemeno che in una resurrezione,rivela continuamente alla vista ciò che dovrebbe rimanere nascosto (e a un certo punto è proprio Ewa a farne le spese), o più in generale starsene acquattato nell'invisibile.
The Immigrant”, di fatto assomiglia più al primo che al secondo. Anzi, assomiglia di più all'interprete del primo, un Joaquin Phoenix che continua a essere superbo (anche se qui fa poco più che affinare il suo già rodato repertorio): un quid opaco e nebuloso (ogni kolossal lo è) che di punto in bianco scoppia e con poca diplomazia butta sul tavolo tutte le carte, che non riesce più a tenere nascoste, facendo riguadagnare la superficie al sostrato melodrammatico.
Lo zoccolo duro dei fans di Gray, forse, storceranno il naso davanti al suo relativo eclissarsi dietro (se non sotto) all'imponenza del progetto. È tuttavia Bruno stesso, e non a caso, a sacrificarsi affinché possa avere luogo lo Spettacolo: affinché, cioè, Ewa possa ricongiungersi con la sorella (trattenuta a Ellis Island al momento dello sbarco), l'immagine mancante sulla superficie dello Specchio.
Marco Grosoli, Gli Spietati

JAMES GRAY
Filmografia
:
Little Odessa (1994), The Yards (2000), I padroni della notte (2007), Two Lovers (2008), C'era una volta a New York (2013)

Martedì 3 marzo 2015:  NEBRASKA di Alexander Payne, con Bruce Dern, Will Forte, June Squibb, Bob Odenkirk, Stacy Keach

 
 
 
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