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I film, i personaggi e i commenti della stagione 2019/2020

 

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Messaggi di Gennaio 2017

Cineforum 2016/2017 | 31 gennaio 2017

Post n°308 pubblicato il 27 Gennaio 2017 da cineforumborgo
 
Foto di cineforumborgo

CAROL

Regia: Todd Haynes
Soggetto: dal romanzo omonimo di Patricia Highsmith (ed. Bompiani)
Sceneggiatura: Phyllis Nagy
Fotografia: Edward Lachman
Musiche: Carter Burwell
Montaggio: Affonso Gonçalves
Scenografia: Judy Becker
Arredamento: Heather Loeffler
Costumi: Sandy Powell
Interpreti: Cate Blanchett (Carol Aird), Rooney Mara (Therese Belivet), Kyle Chandler (Harge Aird), Jake Lacy (Richard Semco), Sarah Paulson (Abby Gerhard), Cory Michael Smith (Tommy Tucker), Carrie Brownstein (Genevieve Cantrell), John Magaro (Dannie McElroy), Kevin Crowley (Fred Haymes), Trent Rowland (Jack Taft), Nik Pajic (Phil McElroy), Michael Haney (John Aird), Ann Reskin (Florence), Jeremy Parker (Dorothy), Sadie Heim (Rindy Aird), Kennedy Heim (Rindy Aird), Amy Warner (Jennifer Aird), Wendy Lardin (Jeanette Harrison), Pamela Haynes (Roberta Walls), Greg Violand (Jerry Rix), Jim Dougherty (mr. Semco), Ken Strunk (Cal, barman del Ritz), Colin Botts (Ted Grey), Douglas Scott Sorenson (Charles)
Produzione: Elizabeth Karlsen, Christine Vachon, Stephen Woolley per Number 9 Films/Killer Films, in associazione con StudioCanal/Hanway Films/Goldcrest/Dirty Films/Infilm/Larkhark Films Limited
Distribuzione: Lucky Red
Durata: 118'
Origine: U.S.A., 2015
Premio per la miglior interpretazione femminile a Rooney Mara (ex-aequo con Emmanuelle Bercot per "Mon Roi" di Maïwenn) al 68. Festival di Cannes (2015).

New York, anni Cinquanta. Carol Aird è una donna elegante, sofisticata e benestante, in trattativa con il marito per il divorzio e l'affidamento della figlia. Therese Belivet, invece, si sta affacciando nell'età adulta, indecisa sul percorso da intraprendere nella vita. Le due donne si incontrano per caso in un grande magazzino di Manhattan e da quel momento nasce un'amicizia molto speciale. Mentre le pratiche per il divorzio di Carol vanno avanti, lei e Therese partono per un viaggio nel cuore degli Stati Uniti. La magica atmosfera della vacanza farà nascere tra le due una intensa storia amorosa che porterà Carol a rischiare tutto quello che ha di più caro per combattere contro le convenzioni sociali che condannano il loro amore proibito...
La tormentata storia d’amore tra la matura e sofisticata Carol e la giovane e inesperta Therese, nella New York degli anni ’50. Basterebbero queste poche righe, il nome del regista e quello delle interpreti, perché sia tutto già chiaro. Il film si compone, si materializza davanti ai nostri occhi prima ancora di esser proiettato, visto, ripensato. Il che la dice lunga sulla consapevolezza stilistica e la coerenza di un autore, Todd Haynes, che lavora intorno agli stilemi e ai codici formali di un cinema che chiamiamo ‘classico’ per convenzione, ma che, ovviamente, dietro la sua chiara riconoscibilità, conserva intatti i germi di una vitalità profonda e irresistibile. E sulla statura di due interpreti, Cate Blanchett e Rooney Mara (quest’ultima premiata come miglior attrice al 68° Festival di Cannes), ormai in grado di far coincidere la tecnica e la ‘verità’, di cancellare la perfetta convenzione attoriale con la devastante carica emotiva della loro presenza.
Carol” è il film perfetto. Perché ci dà l’illusione di essere lì da sempre. Quasi al riparo, sotto le volute del plot, le dinamiche delle sue passioni trattenute a stento, dietro il décor curato e i trucchi impeccabili, nell’architettura controllata di un set già perfetto per la posa, già posato. Ci lusinga con le sue linee familiari, in cui tutti i riferimenti e tutti i ricordi sono come dissolti. Ma, al tempo stesso, ci confonde con le sue luci che si mescolano in tonalità inaspettate, con i suoi infiniti riflessi che stabiliscono sempre nuovi rapporti tra le immagini e il mondo. E ci invita a seguirlo lungo strade inconsuete, sorprendenti, come quelle affascinanti del road movie che, a un certo punto, si delinea tra i contorni.
Carol” è un film perfetto perché coniuga l’eleganza corretta del linguaggio con l’emozione più autentica - quel magico gioco di sguardi finale, in quel tempo sospeso di un normalissimo campo controcampo. Perché accorda la precisione narrativa, la scansione dei suoi effetti drammatici alla verità dei personaggi e delle interpretazioni. Perché, attraverso la stilizzazione delle forme, lascia emergere, comunque, tutta la sostanza di un mondo e di un tempo basati sulle apparenze. Perché, dietro la sua maschera da mélo lesbo, racconta di differenze di classe, di aspirazioni e disperazioni. “Carol” è un film perfetto. Quindi non si tratta di stabilire se sia riuscito o meno, se sia bello e quanto lo sia. Il problema, semmai, è capire quanto questo ossessivo lavoro sulle forme del classico abbia un’effettiva urgenza. Haynes si appropria di Patricia Highsmith e la porta altrove, lungo quel percorso nascosto che va da Sirk a Wong Kar-wai. Lontano dal paradiso, certo, ma molto vicino al cielo. Lì dove tutto è dominato, chiaro, concepito. Dove le strutture e le essenze appaiono nella loro purezza, senza imperfezioni, senza corruzioni, senza turbamenti, nonostante l’apparente e scabrosa materia lavica che scorre nel profondo e affiora in superficie. Il suo sguardo procede per piccole oscillazioni, variazioni dal modello. E come accade per tutti coloro che lavorano sui prototipi e le loro repliche (Fincher), nessuna oscillazione, nessuna variazione è in grado di mandare in crisi la tenuta complessiva del prodotto o di metterne in discussione la funzionalità. C’è sempre un qualcosa, una valvola di sfogo, un sistema di sicurezza, un piano di raffreddamento che impedisce l’ebollizione e l’esplosione del meccanismo. Così nella sua affascinante superficie vintage, “Carol” ci appare quasi uno splendido oggetto di design. Capace di coniugare marchio autoriale, estetica, consapevolezza progettuale, funzione, ma pur sempre costruito su un bisogno indotto. È solo un’ombra, un tarlo che nulla toglie. Ci inchiniamo davanti all’oggetto, ma un passo indietro.
Aldo Spiniello, Sentieri Selvaggi

Una perfetta Cate Blanchett (...), (...) una Rooney Mara che gareggia in bravura (...). Che bel melodramma, meravigliosamente recitato da due protagoniste in stato di grazia (...). Un film elegante, raffinato, intenso, che richiama la cinematografia d'epoca. Non a caso, dietro la macchina da presa, Todd Haynes ricorda Douglas Sirk, maestro del mélo vecchio stile. Il regista, qui, fa un uso interessante del colore, sfruttando al meglio anche una emotiva colonna sonora che contribuisce a rendere ben tangibili le atmosfere del passato. Aggiungeteci, poi, una sceneggiatura (di Phyllis Nagy) priva di cali di tensione, capace di esaltare, in ogni situazione, la dignità delle due donne, senza venir meno allo spirito del romanzo di Patricia Highsmith (...). Una storia che incoraggia a ricercare sempre la propria felicità, suggellata da un finale che invoglia lo spettatore, coinvolto emotivamente, a gridare ad una delle due protagoniste: «Girati!»"
Maurizio Acerbi, Il Giornale

TODD HAYNES
Filmografia:
Superstar: The Karen Carpenter Story (1987), Poison (1991), Safe (1995), Velvet Goldmine (1998), Lontano dal paradiso (2002), Io non sono qui (2007), Mildred Pierce (2011), Carol (2015)

Martedì 7 febbraio 2017:
DIO ESISTE E VIVE A BRUXELLES di Jaco Van Dormael, con Pili Groyne, Benoît Poelvoorde, Catherine Deneuve, François Damiens
 

 
 
 

Cineforum 2016/2017 | 24 gennaio 2017

Foto di cineforumborgo

IL FIGLIO DI SAUL

Titolo originale: Saul fia
Regia: László Nemes
Sceneggiatura: László Nemes, Clara Royer
Fotografia: Mátyás Erdély
Musiche: László Melis
Montaggio: Matthieu Taponier
Scenografia: László Rajk
Costumi: Edit Szücs
Effetti: Barnabás Princz
Suono: Tamas Zanyi
Interpreti: Géza Röhrig (Saul Ausländer), Levente Molnár (Ábrahám), Urs Rechn (Oberkapo Biederman), Todd Charmont (uomo con la barba), Marcin Czarnik (Feigenbaum), Sándor Zsótér (dottore), Jerzy Walczak (Rabbino del Sonderkommando), Uwe Lauer (SS Voss), Christian Harting (SS Busch), Kamil Dobrowolski (Mietek), Amitai Kedar (Hirsch), István Pion (Katz), Levente Orbán (Vassili), Juli Jakab (Ella)
Produzione: Gábor Rajna, Gábor Sipos per Laokoon Filmgroup
Distribuzione: Teodora Film
Durata: 107'
Origine: Ungheria, Francia, 2015
Grand Prix, Premio FIPRESCI e Vulcan Award of the Technical Artist (a Tamas Zanyi) al 68. Festival di Cannes (2015); Golden Globe 2016 come miglior film straniero; Oscar 2016 come miglior film straniero; David di Donatello 2016 come miglior film dell'Unione Europea.

1944. Nel campo di concentramento di Auschwitz, Saul Ausländer, prigioniero, è costretto a bruciare i corpi della propria gente nell'unità speciale Sonderkommando. Sente inevitabilmente il peso delle azioni che deve compiere, ma trova un modo per sopravvivere. Un giorno salva dalle fiamme il corpo di un giovane ragazzo che crede essere suo figlio e decide di cercare in tutto il campo un rabbino, che possa aiutarlo nel dargli una degna sepoltura.
Auschwitz, 1944. L'ebreo ungherese Saul Auslander è uno dei Sonderkommando dei nazisti, ovvero un prigioniero obbligato a lavorare per aiutare nelle operazioni di sterminio di massa. Normalmente il loro impiego durava qualche mese, poi venivano rimossi, eliminati e rimpiazzati. Raccogliendo cadaveri, Saul identifica nel corpo di un giovane quello di suo figlio. Cerca allora di dargli una sepoltura secondo i canoni della sua religione, complicando un disperato tentativo di fuga che alcuni suoi compagni stanno progettando.
Con la cinepresa spesso dietro la spalle o comunque addosso all'espressione concentrata e impassibile fin quasi alla stolidità dello sventurato protagonista, László Nemes (esordiente, ma già prezioso collaboratore di Bela Tarr e si vede tantissimo) ci scaglia nel cuore dell'inferno, nel suo caos visivo e sonoro (è tutto un ottundente abbaiare di urla, ordini, rumori), coinvolgendoci prima di tutto in una esperienza visiva e percettiva di straordinaria originalità («Volevo solo mostrare quello che vede. Niente di più, niente di meno» dice l'autore).
Non è tanto o solo l'estrema tragicità della situazione, con gli esseri umani ridotti a cose, a pratiche da sbrigare (c'è una notte infernale di rara concitazione, con i prigionieri terrorizzati e ammucchiati, ammazzati a pistolettate alla tempia e precipitati in fosse tra i bagliori del fuoco, i fumi, il buio che tutto avvolge di impatto emotivo ai limiti della sostenibilità) a colpire di più (in fondo, specialmente dalla Francia e dall'Europa centrale, altri film ce l'avevano mostrata, a partire da “Notti e nebbia” di Resnais). È la dolorosissima, obbligata non reattività di Saul (Géza Röhrig), che ha una sola occasione per non abbandonarsi alla passività dell'animale condotto al macello. Vincerà la sua battaglia? In qualche modo, forse (un'imitazione di sorriso verso alla fine quasi gli piega le labbra, ma non diremo qui perché). Tratto da “La voce dei sommersi” (edito in Italia da Marsilio, a cura di Carlo Saletti), questa memorabile opera di fiction girata con molti piani sequenza (all'ungherese) ci ricorda che il cinema può ancora essere fondamentale per indagare negli abissi dell'animo e per farsi Storia, cultura e riflessione. (……).
Massimo Lastrucci, Ciak


Il modo migliore di celebrare il Giorno della Memoria è andare a vedere “Il figlio di Saul”. Terribile a vedersi, ma non vederlo è un delitto. Un capolavoro aumenta in chi lo vede la voglia di vivere, una vita che ti fa incontrare capolavori è un regalo del destino. Ma stavolta non è così. Vedi questo film perfetto, e resti muto e spento. C'è un attimo di smarrimento in sala quando il film finisce, nessuno fiata. Non so se esista uno strumento in grado di misurare la 'vitalità' delle persone, la voglia, la capacità di vivere, ma se esiste, e se si potesse usarlo sugli spettatori che escono dalla sala dopo aver visto questo film, si scoprirebbe che la loro vitalità è prossima allo zero. È un film che ti fa vergognare. Perché mostra che cosa sono stati capaci di fare gli uomini, e poiché tu sei un uomo, vergognandoti di loro ti vergogni di te. (…...) Sì, tutti abbiamo visto Birkenau (nessuno doveva uscire dal secolo scorso senza averlo visto), dunque abbiamo visto i luoghi dove si svolgeva l'abominevole operazione che si chiamava Sterminio. Ma quei luoghi oggi sono muti. Li vedi ma non li senti.
E ogni racconto, ogni testimonianza, ogni diario che li descrive, non te li fa sentire. E senza sonoro sono morti. Il film recupera il sonoro. Urla, pianti, percosse, imprecazioni, latrati, abbai, e ordini, ordini, ordini, che con i latrati e gli abbai si fondono in una sola lingua, non umana ma canina. I soldati che fanno queste cose sono umani trasformati in cani. L'ideologia, il razzismo, l'odio per gli altri, l'obbedienza ai capi, le 'cose dei padri' cioè la patria, hanno costruito questo risultato. Ci sono cani che prima mordono e poi ringhiano, così questi uomini-cani prima calano la bastonata e poi urlano l'ordine. Nessun dubbio che il lavoro del Sonderkommando o si fa così o non si fa. Siamo nella catena di montaggio dello Sterminio, i forni, la cenere da smaltire nel fiume, le docce da lavare, via un carico sotto l'altro. Nella catena di montaggio, a sterminare ebrei, sono altri ebrei, schiavi. Uno di questi, un ungherese, crede di riconoscere in un bimbo morente il proprio figlio. O, più probabile, vede quel piccolo morente e lo adotta come figlio. Ne nasconde il cadavere, lo porta sempre con sé, anche nella fuga, per tutto il film gira in cerca di un rabbino che sul piccolo morto reciti il Kaddish, la preghiera ebraica per santificare il corpo da seppellire. Il film vive sul contrasto tra i corpi sprezzati come immondizia, e il corpo di questo bambino santificato. Noi oggi siamo in un'epoca di corpi che esplodono, muoiono per uccidere, e questo film ci offre un corpo morto da santificare, cioè da far vivere in eterno. Il film è sull'urto tra l'odio razzista e l'amore paterno. Non abbiamo mai spinto lo sguardo così dentro l'orrore dove la strage si compie ininterrotta.
Ferdinando Camon, Avvenire

LÁSZLÓ NEMES
Filmografia:
Türelem (2007), Il figlio di Saul (2015)

Martedì 31 gennaio 2017:
CAROL di Todd Haynes, con Cate Blanchett, Rooney Mara, Kyle Chandler, Jake Lacy, Sarah Paulson

 
 
 

Cineforum 2016/2017 | 17 gennaio 2017

Foto di cineforumborgo

PERFECT DAY

Titolo originale: A Perfect Day
Regia: Fernando León de Aranoa
Soggetto: Paula Farias (romanzo)
Sceneggiatura: Fernando León de Aranoa, Diego Farias (collaborazione)
Fotografia: Alex Catalán
Musiche: Arnau Bataller
Montaggio: Nacho Ruíz Capillas
Scenografia: César Macarrón
Costumi: Fernando García
Effetti: Ferrán Piquer, Raúl Romanillos
Interpreti: Benicio Del Toro (Mambrú), Tim Robbins (B), Olga Kurylenko (Katya), Mélanie Thierry (Sophie), Fedja Stukan (Damir), Eldar Residovic (Nikola), Sergi López (Goyo)
Produzione: Fernando León De Aranoa, Jaume Roures per Reposado Producciones/Mediapro
Distribuzione: Teodora Film
Durata: 105'
Origine: Spagna, 2015

Nella grande tradizione che va da "To Be Or Not To Be" a "M*A*S*H", "Perfect Day" è una commedia capace di raccontare la guerra con le armi dell'ironia e del divertimento. I protagonisti di questa movimentata avventura sono quattro operatori umanitari impegnati nei Balcani nel 1995, a guerra appena finita. La loro missione è rimuovere un cadavere da un pozzo, per evitare che contamini l'acqua della zona circostante. La squadra, guidata dal carismatico Mambrú, comprende Sophie, ingenua idealista appena arrivata dalla Francia, la bella e disinibita Katya e l'incontenibile B, volontario di lungo corso e allergico alle regole. Dopo una rocambolesca serie di eventi, i quattro capiranno che si tratta di un compito più difficile del previsto, in un paese in cui anche trovare una corda può diventare un'impresa impossibile.
Guardate la locandina del film. I cinque volti che sembrano osservarvi dall’alto, come in un soffitto del Rinascimento, appartengono a un gruppo di operatori umanitari che nel 1995 si trovano nei Balcani, alle prese con un problema spinoso: un cadavere grande e grosso è stato gettato nell’unico pozzo della zona, per inquinarne l’acqua e assetare la popolazione. I cooperanti devono estrarlo, ma l’unica corda di cui dispongono si è spezzata e trovarne un’altra si rivela un’impresa. Tra la diffidenza generale, nell’arco di 24 ore, cercheranno di risolvere la situazione, dandoci modo di fare la loro conoscenza. Sono Mambru, il capogruppo, che sta per tornarsene a casa; B., un tipo lunare che la sua casa non sa nemmeno più dove stia; la giovane Sophie, appena arrivata e in piena perdita d’innocenza dinanzi alle brutture della guerra; la bella Katya, che ha avuto una relazione con Mambru e dalla cui valutazione dipende il prolungamento della missione. Il gruppo, assieme all’interprete, cerca di procurarsi la corda tra gente minacciosa, carcasse di mucche minate messe lungo la strada per far saltare in aria i veicoli, case pericolanti e altre minacce. Frattanto Mambru prende sotto la sua protezione un ragazzino, rimasto solo a causa della guerra. Chi non si contenta dei film prevedibili dalla prima all’ultima scena questa volta potrà dirsi soddisfatto. In “Perfect day” il regista e sceneggiatore spagnolo Fernando León De Aranoa (un habitué dei Goya, gli Oscar iberici) è riuscito a trovare un magico equilibrio tra dramma e umorismo, serietà e leggerezza, gravità e ironia componendo un racconto eroicomico dai toni picareschi e dai dialoghi eccellenti; con uno stile suo personale ma che, a tratti, fa venire in mente i fratelli Coen. Aranoa, che ha filmato autentiche missioni umanitarie, sa dare verità alla cronaca; però aggiunge al film un tocco di quello che definiremmo un “umorismo realistico”, amalgamando bene l’impegno col divertimento. Nel contempo, pur senza pretendere di impartire lezioni, denuncia come ogni guerra abbia i suoi profitti e profittatori e lancia frecciate al curaro contro l’incapacità ad agire dei dispositivi internazionali di difesa (i baschi blu dell’Onu sono rappresentati come autentici idioti), fatti apposta per scoraggiare le migliori intenzioni. “Perfect day”, del resto, non risparmia neppure notazioni sulla precaria funzionalità dei suoi protagonisti, eroi molto umani nelle generosità come nelle debolezze che il film si prende il tempo di installare e di far crescere a dovere. In questo compito Aranoa è servito da un ben scelto cast internazionale: Benicio Del Toro nella parte di un uomo coraggioso ma anche impenitente acchiappasottane (impagabile la scena in cui parla del colore della camera da letto al telefono con la sua compagna, a pochi metri da una mina); Tim Robbins, in una gran parte dopo un periodo fiacco; Mélanie Thierry come toccante neofita in zona di guerra; la decorativa Olga Kurylenko. Un’avvertenza importante. Il dispositivo drammatico del film ruota intorno a una situazione centrale, che lo apre e lo chiude circolarmente. Guardarsi dal lasciare la sala quando sembra che la storia sia già conclusa; e non lo è ancora...
Roberto Nepoti, La Repubblica

Bosnia 1995. Mentre la guerra è appena arrivata alla conclusione, un gruppo di operatori umanitari si deve confrontare con un ostacolo imprevisto: rimuovere il cadavere di un soldato dal fondo di un pozzo per evitare che contamini l’acqua del villaggio. L’operazione, di per sé lineare, diventa inaspettatamente complicata… Parlare di una guerra, descriverne fatti e azioni può essere semplice, permette di muoversi lungo il già detto e di limitarsi a ripetere la cronaca. Oppure si può andare a cogliere il momento incerto e inafferrabile delle ostilità appena concluse, quella terra di nessuno nella quale non ci sono più nemici da combattere ma tante diverse realtà che si confrontano, ciascuna con l’encomiabile obiettivo di pacificare e rimettere ordine nella vita civile.
Su questo segmento si muove “Perfect Day”, diretto da Fernando León de Aranoa, affermatosi a livello internazionale con “I lunedì al sole” (2002) con Javier Bardem, film di insolita asprezza espressiva e di tenace plasticità drammatica. La capacità di raccontare il già molte volte raccontato (tanti i titoli sulla/e guerra/e nella ex Jugoslavia), di accostare un approccio insolito e originale, di restituire incertezze e spaesamenti mai artificiosi, è al centro di questa produzione anomala. Dentro la nazionalità spagnola e l’ambientazione in Bosnia si muovono infatti quattro protagonisti ben distinti tra loro: un americano (B/Tim Robbins), un portoricano (Mambrù/Benicio del Toro), una ucraina (Katya/Olga Kurylenko), una francese (Sophie/Mélanie Thierry). Inciampi e imprevisti li mettono uno contro l’altro, favoriscono rivelazioni e confessioni, fanno emergere contrasti, paure, timori, cinismo.
Sfumature caratteriali emergono nello scontro tra pubblico e privato, tra il dramma della guerra lontana e un amaro umorismo a cementare rinunce e rimpianti. Emerge la capacità del regista di imprimere all’inquadratura quel senso di verità che spacca la finzione e fa vivere la storia come un documento non più replicabile.
Massimo Giraldi, Cinematografo.it

FERNANDO LEÓN DE ARANOA
Filmografia:
Familia (1996), I lunedì al sole (2002), Princesas (2005), Los invisibles (2007) ("Buenas noches, Ouma"), Amador (2010), Perfect Day (2015)

Martedì 24 gennaio 2017:
IL FIGLIO DI SAUL di László Nemes, con Géza Röhrig, Levente Molnár, Urs Rechn, Todd Charmont, Marcin Czarnik

 
 
 

Cineforum 2016/2017 | 10 gennaio 2017

Foto di cineforumborgo

TUTTI VOGLIONO QUALCOSA

Titolo originale: Everybody Wants Some
Regia: Richard Linklater
Sceneggiatura: Richard Linklater
Fotografia: Shane F. Kelly
Montaggio: Sandra Adair
Scenografia: Bruce Curtis
Arredamento: Gabriella Villarreal
Costumi: Kari Perkins
Interpreti: Will Brittain (Billy Autrey), Zoey Deutch (Beverly), Ryan Guzman (Roper), Tyler Hoechlin (McReynolds), Blake Jenner (Jake), J. Quinton Johnson (Dale), Glen Powell (Finnegan), Wyatt Russell (Willoughby), Austin Amelio (Nesbit), Temple Baker (Plummer), Tanner Kalina (Alex Brumley), Juston Street (Jay Niles), Forrest Vickery (Coma), Jonathan Breck (Coach Gordan), Tory Taranova (Debra), Kay Epperson (Nonna Bearcat), Michael Monsour (Justin), Justin Alexio (Howard), Zoey Brooks (Cathy), Anna Vanston (Michelle), Shailaun Manning (Elaine), Olivia Jordan (LeaAnn), Celina Chapin (Angie), Lynden Orr (Suzi), Asjha Cooper (Sharon), Dora Madison (Val)
Produzione: Richard Linklater, Megan Ellison, Ginger Sledge per Detour Filmproduction
Distribuzione: Notorious Pictures
Durata: 116'
Origine: U.S.A., 2016

USA, 1981. Jake Bradford si trasferisce al college e va ad abitare insieme ai compagni della squadra di baseball dell'università. Nel campus il ragazzo affronterà il proprio percorso di crescita tra cameratismi, conflitti all'interno del gruppo e notti folli in cerca di conquiste femminili...
1981. Dall’arrivo alla nuova residenza collegiale all’inizio delle lezioni, che in realtà sono poco più di tre giorni, “Tutti vogliono qualcosa” racconta un arco temporale quasi impercettibile nell’economia di una vita, ma in verità lunghissimo per Jake, matricola e nuovo lanciatore della squadra universitaria di baseball.
Le lezioni non si vedono quasi mai, perché il vero mantra sembra essere un altro: birra, ragazze e baseball. Jake finisce senza tante mediazioni nel vortice goliardico e spensierato della squadra, l’esperienza collegiale del ragazzo si contraddistingue subito per una ricerca instancabile della prossima festa a cui partecipare. Come un branco, il gruppo si muove unito: certamente il fatto di essere una squadra li condiziona, ma il tutto si concentra in un continuo contrasto di competitività e testosterone. In “Tutti vogliono qualcosa”, che all’apparenza sembra una pellicola minore di Richard Linklater, sotto questa scorza goliardica e divertita, in realtà, si racconta del delicato passaggio per riuscire a trovare la propria identità. È vero, la triforza a cui tutti i protagonisti si rivolgono (le suddette ragazze, birra e baseball) potrebbe apparire una forma inibitoria per qualunque problema, un modo per vivere nella spensieratezza del divertimento. Ma la forza camaleontica dei ragazzi - che passano dalla disco al country fino a party con eccentrici artistoidi per il solo bisogno di un continuo divertimento - altro non è che una forma di adattamento che nasconde la reale ricerca di chi ancora non è riuscito a comprendersi. I protagonisti di “Tutti vogliono qualcosa” ne sono ben consapevoli: il loro stesso affrontare l’argomento coscientemente tra una sfida a ping pong o il tiro di una canna dimostra una volta di più quanto il cinema di Linklater sia un cinema di persone prima ancora che d’immagini. Tutti vogliono qualcosa è una pellicola dialogatissima ma con poche scene madri, che vive sostanzialmente di uno spensierato scorrere del tempo. Le opere precedenti di Linklater mostravano come questo elemento fosse relativo, 12 anni potevano essere racchiusi in due ore come allo stesso modo tre giorni potevano diventare un’esperienza percettivamente lunga anni. La bellezza di “Tutti vogliono qualcosa” sta nella semplicità di raccontare questo scorrere, senza necessariamente mettere in scena perdite o grandi conquiste. È quasi come se fossimo arrivati a lezione, e la frase motivazionale che il professore ci pone al principio sia al contrario posta alla fine, in cui la morale di una crescita personale non è vissuta come un obiettivo da raggiungere, ma la fine di un percorso esperienziale inconsapevole, in cui il mondo si rivela per quanto più grande è di noi. La squadra di baseball come metafora, con un pool dei migliori talenti dello stato che apre a Jake gli occhi su quanto la sua esperienza fosse limitata, ma non per questo demoralizzante. Tutti vogliono qualcosa o tutti cercano qualcosa? Birra, sport e sesso sono solo gli strumenti di questa ricerca personale che altro forse non è che la semplice ricerca della propria personalissima Sharona.
Massimo Padoin, Mediacritica.it

Non è commerciale, bensì spirituale: un ‘sequel spirituale’ a “Dazed and Confused”, la teen-comedy di Richard Linklater, anno di grazia e high-school 1993. 23 anni dopo, le lancette hanno fatto il giro, anzi, il decennio: non più i ‘70s, ma gli ‘80s, con un pezzo dei Van Halen, “Everybody Wants Some”, a far da titolo.
Tutti vogliono qualcosa”, Linklater, innanzitutto, vuole la buona musica, dai Blondie ai Dire Straits. E un mucchio, moderatamente, selvaggio: agosto 1980, vacanze agli sgoccioli, il semestre incombente, un piccolo college del Texas, un lanciatore, Jack (Blake Jenner, pulitino), che bussa alla porta, e trova la sua squadra. Baseball. Ovvero, bevute, feste e ragazze, ragazze, ancora ragazze: da Jenner a Tyler Hoechlin, che fa il gallo del pollaio McReynolds, fino al più bravo di tutti, l’ironico Glen Powell nei panni del kerouac-style Finnegan, gli attori sono assai in parte, lo Zeitgeist pervade lo schermo, la nostalgia si fa canaglissima, gli echi di American Graffiti e Animal House prendono gli occhi e, sì, i cuori.
Troppo maschio, il film? Forse, anzi, sì: e allora? Linklater, divertito e divertente, scuote la noia di dosso al genere, e realizza un instant-cult, o instant-classic, fate voi: “Tutti vogliono qualcosa”, ma in pochi sanno che cosa. Lui lo sa: operazione cinefila e meta-cinematografica, ti riporta negli anni ’80 come sulla luna, nel senso che lo fa realmente e, insieme, immaginificamente.
Insomma, un’impresa, che nulla lascia inesplorato: competizione e maschi alpha, sport e (senso del) gruppo, cazzeggio - di dimensioni normali, vero Finnegan? - e “del doman non v’è certezza”, corteggiamento e cotta, e di tutto di più, dalla disco al club punk, dal bar Urban Cowboy al materasso ad acqua a rischio esplosione.
Per capire quanto sia difficile un film così, pensate alle porcherie infilate nel serbatoio teen stelle & strisce e scongelate il pomeriggio televisivo, ritornate con la memoria ai ‘Che ne sarà di noi’ del cinemino nostro e, sì, ditelo: come Richard Linklater nessuno mai.
Federico Pontiggia, Cinematografo.it

RICHARD LINKLATER
Filmografia:
La vita è un sogno (1993), Prima dell'alba (1995), SubUrbia (1996), Newton Boys (1998), Tape (2001), Waking Life (2001), School of Rock (2003), Prima del tramonto (2004), Bad News Bears (2005), A Scanner Darkly - Un oscuro scrutare (2006), Fast Food Nation (2006), Me and Orson Welles (2009), Bernie (2011), Before Midnight (2013), Boyhood (2013), Tutti vogliono qualcosa (2016)

Martedì 17 gennaio 2017:
PERFECT DAY di Fernando León de Aranoa, con Benicio Del Toro, Tim Robbins, Olga Kurylenko, Mélanie Thierry, Fedja Stukan

 

 
 
 
 
 

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