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I film, i personaggi e i commenti della stagione 2019/2020

 

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Messaggi di Febbraio 2018

 
 

Cineforum 2017/2018 | 27 febbraio 2018

Foto di cineforumborgo

LE COSE CHE VERRANNO - L'AVENIR

Regia: Mia Hansen-Løve
Sceneggiatura: Mia Hansen-Løve
Fotografia: Denis Lenoir
Montaggio: Marion Monnier
Scenografia: Anna Falguères
Costumi: Rachel Raoult
Effetti: Clara Vincienne
Interpreti: Isabelle Huppert (Nathalie), André Marcon (Heinz), Roman Kolinka (Fabien), Edith Scob (Yvette), Sarah Lepicard (Chloé), Solal Forte (Johann), Elise Lhomeau (Elsa), Lionel Dray (Hugo), Grégoire Montana-Haroche (Simon), Lina Benzerti (Antonia)
Produzione: Charles Gillibert per Cg Cinéma, in co-produzione con Detailfilm/Arte France Cinéma/Rhône-Alpes Cinéma/Soficas Cinémage/Cofinova SRG SSR
Distribuzione: Satine Film
Durata: 100'
Origine: Francia, Germania, 2016
Data uscita: 20 aprile 2017
Orso d'Argento per la miglior regia al 66. Festival di Berlino (2016).

Nathalie insegna filosofia in un liceo di Parigi. Per lei la filosofia non è solo un lavoro, ma un vero e proprio stile di vita. Un tempo fervente sostenitrice di idee rivoluzionarie, ha convertito l'idealismo giovanile "nell'ambizione più modesta di insegnare ai giovani a pensare con le proprie teste" e non esita a proporre ai suoi studenti testi filosofici che stimolino il confronto e la discussione. Sposata, due figli, e una madre fragile che ha bisogno di continue attenzioni, Nathalie divide le sue giornate tra la famiglia e la sua dedizione al pensiero filosofico, in un contesto di apparente e rassicurante serenità. Ma un giorno, improvvisamente, il suo mondo viene completamente stravolto: suo marito le confessa di volerla lasciare per un'altra donna e Nathalie si ritrova, suo malgrado, a confrontarsi con un'inaspettata libertà. Con il pragmatismo che la contraddistingue, la complicità intellettuale di un ex studente e la compagnia di un gatto nero di nome Pandora, Nathalie deve ora reinventarsi una nuova vita.
Le prime immagini raccontano una storia familiare, una vacanza al mare, a Mont Saint- Michel, un uomo, una donna, i loro bambini, il desiderio sbiadito come quei fotogrammi di una felicità ‘per sempre’. Li ritroviamo anni dopo, i figli sono cresciuti, i genitori - per i quali qualcuno dice l’ispirazione arriva dai genitori della regista - sono rimasti soli nella casa stipata di libri e di conversazioni, lei perseguitata dalla mamma che è invecchiata, ansiosa, sempre bellissima (Edith Scob), capace di dormire col gatto Pandora tutto il giorno e di spendere fino all’ultimo centesimo in magnifici abiti.
Nathalie invece, questo il nome della donna, è il contrario: severa, nelle sue gonne e golfini, professoressa di filosofia che quando gli allievi scioperano fa lezione perché il suo desiderio non è fare la rivoluzione ma insegnargli a pensare con la propria testa. In passato è stata comunista cosa che oggi agli occhi del marito sembra una vergogna. Un ex allievo tra i suoi prediletti che vive in campagna, in una casa comune insieme a altri attivisti anarchici, la interroga quasi sfrontato durante un pranzo sul passato, sulle lotte, su come inventare nel presente nuove forme di resistenza.
Le cose che verranno” è il nuovo film di Mia Hansen-Løve, regista di punta nelle nuove generazioni d’oltralpe, che qui ritrova lo slancio di una narrazione limpida dopo le forzature del precedente “Eden”, e nella successione di momenti, in apparenza banali, riesce a restituire il flusso della vita
C’è molta filosofia nel film (Hannah Arendt, Hans Jonas, Emmanuel Levinas, Slavoj Zižek…) ma la dimensione letteraria, cara alla regista, nella scrittura viene calibrata con leggerezza e soprattutto resa parte dell’esistenza dei protagonisti. È un romanzo di formazione “L’avenir”, come gli altri film di Hansen-Løve, anche se al centro, invece dei personaggi giovani, spesso ispirati alla sua esperienza, c’è la figura di una donna - magnifica Isabelle Huppert che in totale complicità con la regia dà vita a un personaggio femminile sfaccettato e unico - più che cinquantenne colta in un momento di passaggio. Il marito la lascia per una più giovane dopo trent’anni di matrimonio, la madre muore, la piccola collana filosofica che curava viene cancellata dai nuovi responsabili del marketing della casa editrice perché non rende abbastanza. E i suoi allievi le propongono di scrivere per un portale di filosofia on line cogliendola quasi di sprovvista. Mentre il suo pupillo la critica duramente perché non esprime mai una posizione, ed è incapace di mettere in discussione le sue certezze borghesi. Così Nathalie deve ritrovarsi (e reiventarsi) ma nonostante i colpi e la fragilità di questo tempo che passa non perde sé stessa Non finisce a letto con il ragazzetto (tipica cosa dei maschi alla sua età) e semplicemente assume questa sua nuova condizione: ‘l’avvenire’ è qualcosa di aperto, la scommessa è riuscire a coglierne le promesse.
Cristina Piccino, Il Manifesto

Trentasei anni e già beniamina dei festival: la regista e sceneggiatrice francese Hansen-Løve, premiata a Un Certain Regard di Cannes 2009 (“Il padre dei miei figli”), si è aggiudicata l’anno scorso l’Orso d’Argento per la migliore regia alla Berlinale grazie a “Le cose che verranno” (“L’avenir”). Non si tratta di un film travolgente, però ancora una volta gli intenditori potranno ritrovarvi la raffinatezza, la perspicacia e l’(auto)ironia con cui il cinema d’oltralpe riesce a mettere a fuoco un’ampia e vivida gamma di personaggi intonati alle principali abitudini, psicologie e problematiche degli attuali trend societari. In particolare il quinto titolo della predestinata cineasta si diverte a punzecchiare la consorteria parigina ad alto reddito e pretensione intellettuale dei cosiddetti bobò (da “bourgeois bohème”, aggiornamento del classico epiteto radical chic), sciorinando le crepuscolari peripezie della sessantenne Nathalie. Interpretata dalla come sempre impressionante Huppert, ormai pressoché scarnificata nel fisico e blindata dall’assoluta padronanza dei mezzi espressivi, la protagonista è un’insegnante di filosofia nei licei colta al momento di un’amara resa dei conti esistenziale… Gli studenti che s’intestardiscono stolidamente a scimmiottare gli slanci sessantottini della sua impegnata giovinezza, la prestigiosa casa editrice per cui cura una collana che s’involgarisce alla bieca caccia del rendiconto commerciale, la madre ex indossatrice che diventa sempre più nevrotica e petulante e l’inappuntabile marito anch’esso docente che s’innamora di una donna più giovane e la lascia: la sconfinata libertà che le si apre davanti diventa paradossalmente una pena da scontare con l’annesso obbligo di constatare, in solitudine o con l’unica compagnia di una gatta obesa, la paurosa eco del tempo che di ora in ora si sfalda e si disperde.  (……) La Hansen-Løve, sotto l’impeccabile superficie intimistica inserisce anche un esile ma non banale coté politico, facendo capire abbastanza chiaramente come e perché il populismo - facilitato dal cinismo e il moralismo a buon mercato dei progressisti benestanti - abbia finito col sembrare l’unico antidoto alle angosce del presente.
Valerio Caprara, Il Mattino

MIA HANSEN-LØVE
Filmografia:
Après mûre réflexion (2004), Tout est pardonné (2007), Il padre dei miei figli (2009), Un amore di gioventù (2011), Eden (2014), Le cose che verranno - L'avenir (2016)

Martedì 6 marzo 2018:
TUTTO QUELLO CHE VUOI di Francesco Bruni, con Giuliano Montaldo, Andrea Carpenzano, Arturo Bruni, Emanuele Propizio, Donatella Finocchiaro


 

 
 
 
 
 

Cineforum 2017/2018 | 20 febbraio 2018

Foto di cineforumborgo

 

MOONLIGHT


Regia: Barry Jenkins

Soggetto: Tarell Alvin McCraney (opera teatrale)

Sceneggiatura: Barry Jenkins

Fotografia: James Laxton

Musiche: Nicholas Britell

Montaggio: Nat Sanders, Joi McMillon

Scenografia: Hannah Beachler

Arredamento: Regina McLarney Crowley

Costumi: Caroline Eselin-Schaefer (Caroline Eselin)

Interpreti: Alex R. Hibbert (Chiron bambino), Ashton Sanders (Chiron adolescente), Trevante Rhodes (Chiron adulto), Mahershala Ali (Juan), Naomie Harris (Paula), Janelle Monáe (Teresa), André Holland (Kevin), Jharrel Jerome (Kevin adolescente), Jaden Piner (Kevin bambino), Larry Anderson (Antwon), Herveline Moncion (Samantha), Don Seward (Tip), Patrick Decile (Terrel), Tanisha Cidel (Williams), Shariff Earp (Terrence), Duan'Sandy' Sanderson (Azu), Stephon Bron (Travis), Edson Jean (Sig. Pierce), Fransley Hyppolite (Pizzo), Rudi Goblen (Gee)

Produzione: Dede Gardner, Jeremy Kleiner, Adele Romanski per A24/Plan B Entertainment

Distribuzione: Lucky Red, in associazione con 3 Marys Entertainment

Durata: 111'

Origine: U.S.A., 2016

Data uscita: 16 febbraio 2017

Golden Globe 2017 come miglior film drammatico; Oscar 2017 per miglior film, attore non protagonista (Mahershala Ali) e sceneggiatura non originale.

 

Storia della vita, dall'infanzia all'adolescenza alll'età adulta di Chiron, un ragazzo di colore cresciuto nei sobborghi difficili di Miami, che cerca faticosamente di trovare il suo posto del mondo. Una riflessione intensa e poetica sull'identità e sul senso di appartenenza, sulla famiglia, l'amicizia e l'amore.

“Moonlight”, l’opera seconda di Barry Jenkins, s’inserisce perfettamente nel progetto politico del suo produttore Brad Pitt. Il divo, infatti, attraverso la sua Plan B, continua la narrazione della nazione afroamericana, segnata, nelle radici, dall’imponente sforzo morale (e moralista) di “12 anni schiavo”. Non sappiamo se per paternalismo bianco o per sincera condivisione di principi, ma è indiscutibile che l’impegno produttivo di Pitt abbia creato e rafforzato una valida strada alternativa ai percorsi più o meno mainstream di Hollywood, partendo dall’esplosione di Steve McQueen per arrivare alle prove dei suoi ‘discendenti’. Nella lotta della prossima season awards, la stagione dopo la ferita di #Oscarsowhite, eliminato il Nate Parker di “The Birth of a Nation” per i suoi scandali sessuali, rimane solo Jenkins il più serio autore su cui puntare per l’agognato riscatto. Jenkins, dunque, trova nella poesia e nel romanticismo la chiave per raccontare l’altra America, un percorso ben diverso dall’orgoglio gangsta di F. Gary Gray o dal realismo costruito di Ryan Coogler (non a caso subito rientrati nel sistema con due mastodontici progetti).

“Moonlight”, attraverso lampi essenziali e un intelligente lavoro di elissi, non solo racconta il calvario emotivo di Chiron, ma di tutto un popolo emarginato, escluso anche dall’ostentato, ma decisamente genuino, lirismo romantico del mélo. Jenkins, dopo il piccolo “Medicine for Melanchony”, ribadisce la necessità di una matura emancipazione sentimentale (e politica), narrando la quotidiana drammaticità di un amore terribile, le disgrazie di un bambino/ragazzo/uomo tormentato dal fuoco delle sue passioni. La storia d’amore (non corrisposto?) che fa da leitmotiv alla vicenda, diventa cosi la traccia su cui si costruiscono le figure di personaggi ben diversi dalle maschere che indossano. Senza giudizio, la parabola deterministica di Chiron, costretto ad attraversare le tappe obbligate già stabilite per lui (la miseria, la violenza, la prigione e il crimine), è la stessa degli altri coprotagonisti, uno per tutti lo splendido spacciatore morale di Mahershala Ali, costantemente in lotta tra il ‘personaggio’ sociale che deve interpretare e l’uomo etico che, invece, è. E’ quasi automatico, allora, confrontare la dolente formazione di Chiron con il white coming of age di “Boyhood”. Entrambe facce della stessa medaglia, le due storie rivelano, più di decine di studi sociologici e dibattiti, le conseguenze materiali di crescere nella placida, bianca ed eterosessuale middle class texana o nelle strade nere e popolari di Miami. Probabilmente gli obiettivi di Jenkins avrebbero avuto più forza se il suo film fosse alleggerito dall’ingenua attenzione all’elemento poetico, al simbolo manifesto, al quadro statico di rarefatta bellezza. La saturazione cromatica, la colonna sonora ridondante (anche se l’attimo con la voce di Caetano Veloso è di una forza disarmante) e l’onirismo ricercato sono elementi che tirano in ballo la lezione di Schnabel (“Prima che sia notte”, per troppe ragioni, è un riferimento cinematografico fin troppo evidente), figura che, in diversi punti, arriva a essere anche ingombrante. Nonostante ciò, il tentativo di Jenkins ha dalla sua il coraggio di non frenarsi, lasciando, alla fine, totalmente libera la forza emotiva di un piccolo, semplice, racconto sentimentale.

Luca Marchetti, Sentieri Selvaggi

 

«Cosa è un frocio?» chiede Chiron all’amico spacciatore Juan (un intenso Mahershala Ali): «Una parola perché i gay si sentano male» gli risponde (incredibilmente comprensivo vero?). Diviso in tre capitoli-atti: Piccoletto (l’infanzia), Chiron (l’adolescenza, non per caso con il suo nome vero), Black (l’età adulta), l’apprendistato alla vita di un omosessuale afro-americano, da una pièce di Tarell Alvin McCraney. “Moonlight” non brilla forse per quel che dice (palesa in effetti un certo schematismo dato probabilmente dall’origine teatrale) ma lo dice benissimo, in modi delicati e strategicamente sempre più rivelatori, attenti al contesto sociologico: del resto il regista è proprio di Miami e qui c’è più di una suggestione autobiografica.

Barry Jenkins, al suo secondo lungometraggio dopo “Medicine for Melancholy” (2008), filma con programmata cautela, immettendo, mentre svela il carattere in formazione di Chiron, rinvigorenti dosi di lirismo. Del resto già la scelta del titolo (proviene da una frase/confessione dello spacciatore al piccolo protagonista: «alla luce della luna tutto è blu» - e il regista se lo ricorderà anche alla fine) suggerisce una vocazione alla coloritura poetica; la scelta raffinata delle musiche, da parte di Nicholas Britell, l’arricchisce (esempio: i ragazzini giocano a calcio con una palla di stracci, accompagnati da uno spiritual orchestrale), così come i virtuosismi dello stesso Jenkins (vedi come la macchina da presa segua a mano il bullo della classe a praticamente compiere un cerchio completo nel cortile della scuola prima di fermarsi su Kevin, per obbligarlo a pestare il suo amico Chiron). Alla luce dello stato attuale delle cose, con la megaproduzione massificata di Hollywood che tiene soffocata quella indipendente privandola di spazi e visibilità extra festival, la gran messe di premi (……) suona fatalmente anche tra l’alibi e il risarcimento, ma il film merita davvero, ‘ortodosso’ nei contenuti ma totalmente indipendente nello spirito (con produzione emerita di Brad Pitt). Sul finire citazione d’obbligo almeno per le performances di due attori, il Chiron adolescente di Ashton Sanders e la madre scombiccherata di Naomie Harris, tra l’altro l’unica a comparire, progressivamente invecchiata, in tutti i tre capitoli.

Massimo Lastrucci, Ciak

 

BARRY JENKINS

Filmografia:

Medicine for Melancholy (2008), Moonlight (2016)

 

Martedì 27 febbraio 2018:

LE COSE CHE VERRANNO di Mia Hansen-Løve, con Isabelle Huppert, André Marcon, Roman Kolinka, Edith Scob, Sarah Lepicard

 

 

 

 

 
 
 
 
 
 
 

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