Bocca di Rosa, quella che «metteva l'amore sopra ogni cosa», non è comparsa soltanto dalle parti di De André. Adesso, per esempio, ne incontriamo un'altra, una sua sorella gemella che si chiama proprio Rosa e si aggira all'Elicantropo, nello spettacolo «Iancu, un paese vuol dire» presentato dai Cantieri Teatrali Koreja.
La frase monca del titolo si completa nella battuta, più volte ripetuta, «Un paese vuol dire non essere soli». E il bianco totale indotto dalla regia di Salvatore Tramacere (bianco lo spazio scenico, bianco il costume dell'interprete, bianca la sedia su cui sta seduto dall'inizio alla fine) allude, insieme, all'innocenza della visione e alla morte, simbolicamente richiamata, nei rituali della tradizione contadina, per l'appunto da quel colore.
Infatti, il testo, di Francesco Niccolini e Fabrizio Saccomanno, rievoca (attraverso i personaggi popolari di Tuglie, in provincia di Lecce) «un sud che oggi non c'è più, piazze e comunità che si sono svuotate e si sono imbarbarite, o sono state svendute». E quest'amara constatazione degli autori determina uno spettacolo che si colloca, di conseguenza, fra la storia e il mito, fra la cronaca e l'invenzione, fra la quotidianità e il sogno.
Spicca, fra i personaggi citati, giusto quello di Rosa Parata, una prostituta che, durante la seconda guerra mondiale, salva le altre donne del paese dalla violenza dei soldati polacchi. E a far da catalizzatore del predetto scarto fra la quotidianità e il sogno interviene - nel prosieguo di una rappresentazione straordinariamente vivace, e sempre sospesa fra il drammatico e il comico - nientemeno che Graziano Mesina, fuggito dal carcere di Lecce e del cui essersi nascosto proprio lì a Tuglie tutti, bambini compresi, favoleggiano.
In definitiva, uno spettacolo a metà fra l'«Antologia di Spoon River» e il cunto siciliano, a cui, del resto, riportano le affinità fra il dialetto salentino qui adottato e quello di Catania. E splendida, come ulteriore suggello di un'operazione ad un tempo raffinata e coinvolgente, è la prova attorale dello stesso Fabrizio Saccomanno. Assolutamente da vedere.
Enrico Fiore
(«Il Mattino», 15 gennaio 2012)
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