Tre tifosi sfegatati - il nevrotico Aldo, il remissivo Sasą e il mammone Tonino - stanno davanti a un muro. Al di lą c'č lo stadio San Paolo, in cui il Napoli gioca una partita decisiva. I tre non possono entrare perché non hanno i biglietti. Forse li porterą Errico, lo zio di Sasą. Ma costui non arriva, e allora al terzetto non resta che seguire la partita attraverso le urla dei tifosi che sono all'interno dello stadio e per mezzo di una malandata radiolina.
Questa, in breve, la situazione che si accampa ne «La nostra unica fede», lo spettacolo (č in scena ancora oggi nel Piccolo Bellini) che Marco Mario De Notaris ha tratto dal testo «Abide with me» dell'inglese Barrie Keeffe. E si capisce che di fronte a un copione del genere ci si puņ porre in due modi: o lo si utilizza per ricavarne solo un intrattenimento svagato a metą fra la farsa e il cabaret o se ne colgono ed esaltano i motivi profondi di natura metaforica.
Per quanto riguarda la seconda scelta, erano a disposizione sul versante del plot il richiamo evidente ad «Aspettando Godot» («Abide with me» significa, infatti, «aspetta con me») e soprattutto, sul piano concettuale, l'acuta osservazione coniata da Musil ne «I turbamenti del giovane Törless»: «[...] tra la vita che si vive e la vita che si sente, che s'intuisce, che si vede di lontano, č una frontiera invisibile; la porta stretta in cui le immagini degli avvenimenti debbono infilarsi, per passare nell'uomo».
Ma, inutile dirlo, il regista Simone Petrella ha optato per la prima ipotesi, ricavando dal testo specialmente le occasioni per qualche risata a buon mercato e lasciando che siano gli spettatori pił perspicaci e volonterosi a cercarsi una lettura meno evasiva. E non rimane, dunque, che prendere atto della discreta prova fornita dai tre interpreti in campo: lo stesso De Notaris (Sasą), Giampiero Schiano (Aldo) e Tonino Taiuti (Tonino).
Eppure, ripeto, gli spunti per camminare in un'altra direzione non mancavano. A cominciare dalla pensosa battuta che a un certo punto Tonino rivolge a Sasą: «Io voglio fare qualcosa di buono».
Enrico Fiore
(«Il Mattino», 17 marzo 2013)
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