Creato da cineciclista il 20/06/2010

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La grande bellezza, film, Italia Francia 2013, durata 150 min.

 photo 965dc0fa-059c-4323-883f-9800c01f1af4_zpsc2c6700a.jpg A seguito della meritata vittoria dell'Oscar come miglior film straniero de La grande bellezza di Paolo Sorrentino, posto la conversazione da me avuta, quando il film è uscito nelle sale italiane, con Giuseppe Di Giacomo, il quale - a differenza di numerosi critici cinematografici di allora - ha capito subito l'importanza del film e ne ha messo criticamente in rilievo gli aspetti più rilevanti.

 

Giuseppe Di Giacomo:

le ragioni cine-filosofiche di un Oscar

 

di Riccardo Tavani

 Vediamo il film al Cinema Barberini di Roma e andiamo poi a mangiare un piatto di spaghetti a pochi passi da Via Veneto. Gli domando se il raffronto, tanto insistito dalla stampa, tra la Dolce Vita di Fellini e la Grande bellezza di Sorrentino abbia una sua ragione. Il professore Giuseppe Di Giacomo, ordinario della cattedra di Estetica alla Sapienza di Roma, versandomi del rosso, risponde che indubbiamente l’influenza gravitazionale del pianeta Fellini non ha potuto fare a meno di attraversare l’atmosfera di questo distante corpo astrale. Non c’è solo un certo sapore degli scorci e delle riprese, le feste, le suore, i prelati, quanto la mancanza di un vero centro o soggetto narrativo.

 La frammentarietà di situazioni diverse, montate insieme, che diventa allegoria, refrattaria a qualsiasi tentativo di unificazione simbolica, secondo quanto indicato da Walter Benjamin nella sua opera filosofica sul dramma barocco del 1928. Il raffronto, in realtà, andrebbe, per Di Giacomo, completamente rovesciato. Il cielo astrale sopra Via Veneto nel 1960 era completamente diverso da quello di oggi. Tutto ciò che nella Dolce Vita e nella realtà della città è all’aperto, pubblico, esplodente sulle strade, nelle periferie mistiche quanto nei caffé del centro, nei locali affollati, nelle auto e nelle situazioni decappottate pronte a scoprirsi per l’assalto delle paparazzate e dei giornali, nella Grande bellezza è invece privato, chiuso, implodente verso un’intimità che non ha neanche più un nome se non quello di vuoto. Persino il fracasso triviale, la cafonalità delle feste avviene in locations prese in affitto, su terrazze e in ville, separate, delimitate innanzitutto da un’aura d’ombra stagnante, prima che da mura e recinti. La Via Veneto di Fellini è pulsante, ricorda Di Giacomo; quella di Sorrentino deserta, spettrale: qualche sparuto puttaniere giapponese, una solitaria, anoressica ragazza con al guinzaglio un’enorme arma da difesa in forma di molosso napoletano e squallidi nigth club con ventenni polacche che non sono certo lì per il vecchio, glorioso spogliarello.

 Soprattutto nell’opera felliniana la bellezza di Roma non ha bisogno di essere messa a tema. Essa è parte integrante dell’apertura della città verso il futuro. La sceneggiatura di Tullio Pinelli ed Ennio Flaiano (con la collaborazione anche se non accreditata di Pasolini) respira pienamente di questa apertura, si sedimenta sul nitrato d’argento della pellicola, impastandosi invisibilmente al vagare dei movimenti di macchina e delle immagini tessute da Fellini.

 Nel film di Sorrentino non si dà futuro, ma neanche più passato. I marmi porosi e le antiche mura screpolate della città vengono avanti galleggiando nelle inquadrature, come sulla superficie di un tempo lacustre immobile. Lo stesso protagonista, Jep Gambardella, non ha un passato, a parte qualche affiorante sprazzo di memoria per Elisa De Santis, la bellezza della quale s’innamora un’estate sugli scogli assolati di un’isola, ma che non si lascia poi baciare al chiaro di luna da lui. In questo, Jep è uno di quei tipici personaggi di Kafka che non hanno nessuna vera identità al di fuori del presente che stanno vivendo, senza alcun vero senso e scopo. Egli si commuove intensamente di fronte all’opera di un artista che ha allineato una sterminata sequenza di fotografie che lo ritraggono per ogni giorno della sua vita, sedimentando una percettibile scia della memoria.

 Il riferimenti letterari nel film sono costanti e percorrono tutta la pellicola: dall’esergo iniziale su un brano di Celine, passando per Flaubert, Dostoevskij e Proust. Non sono solo mere citazione, nota Di Giacomo, ma vere e proprie – direbbe un pittore – campiture di significato. In ciò il professore scorge un conflitto tra regia e sceneggiatura. C’è un’eccedenza nella scrittura dei dialoghi e della voce fuori campo che i movimenti macchina e le immagini non riescono a rendere a un pari livello di senso. La stessa cosa, mi dice il professore, e in modo anche più accentuato, è successo per il film di Wim Wenders Il cielo sopra Berlino. L’intervento poetico di Peter Handke sul copione, espressamente richiesto dal regista, crea poi una diacronia, una sfasatura tra testo e immagine che si incapsula quasi fin dentro ogni singolo fotogramma, venendo a configurarsi come un limite dell’opera. In una delle scene iniziali, ad esempio, Di Giacomo vede un esplicito richiamo a una famosa pagina  della Recherche proustiana, relativa proprio al tema della bellezza. È quella che descrive la morte dello scrittore malato Bergotte davanti al quadro La veduta di Delft di Veermer. La bellezza che una piccola ala gialla su un muro conferiva all’opera eccedeva la fragile possibilità umana di contenerla. Nel film, un turista giapponese, contemplando e fotografando Roma dal Gianicolo, collassa improvvisamente sul selciato e muore. La sequenza, però, è realizzata in maniera piana, con la macchina frontale al soggetto e uno stacco di montaggio, senza alcun movimento che conferisca alla scena una densità pari a quella  del momento esistenziale in atto.

 Consumati con gusto gli spaghetti, passiamo a sorseggiare riflessivamente del whisky. Il vuoto di ispirazione letteraria di Gambardella, ritorna Di Giacomo, si lega non tanto a quello del vuoto lasciato dalla scomparsa della bellezza, quanto a quello di una sua contemplazione in uno stadio ancora meramente estetico, secondo la nota tripartizione di Kierkegaard, che si articola anche in quello etico e religioso. Jep cita e vuole fare propria l’aspirazione di Flaubert a “scrivere un libro su nulla”, nel quale la bêtise, la stupidaggine, la balordaggine degli eventi umani, della storia, della noia e coazione a ripetere, ammutoliscano, indietreggino e lascino di nuovo campo alla vera bellezza, la quale dovrebbe interamente riconquistare a sé il mondo e la letteratura.

 Il mondo, però, con il suo dolore e la sua miseria lacera continuamente il velo della bellezza per offuscarne la trama. L’entrata in scena del personaggio di Suor Maria, la cosiddetta Santa, rappresenta l’irruzione di una visione della bellezza che ci propone incessantemente l’opera di Dostoevskij. La pia donna mangia solo radici e vive ventidue ore al giorno con i poveri. Lei si sottrae alla richiesta di un’intervista fatta da Jep sulla sua opera di carità, perché: “La miseria non si racconta – si vive”. La sofferenza non può diventare un fatto estetico, ma si può soltanto condividerla. Sì, la bellezza salverà il mondo, ma essa non è quella di Nastas’ja Filippovna, oggetto di contemplazione,  desiderio e contesa, ma quella di chi si prende personalmente carico del dolore dell’uomo, per alleviarlo, ascendendo uno ad uno, in ginocchio, i gradini della sua passione, del suo pathos, ovvero del suo parteciparlo. Sono qui le vere radici che trattengono l’uomo alla terra e impediscono il suo vagare ad ogni soffio.

 La decisione di Romano di abbandonare definitivamente la città e di tornarsene deluso in provincia è un altro rovesciamento del vitellonismo felliniano, ma soprattutto, per Di Giacomo, è esattamente la situazione descritta da Flaubert ne L’educazione sentimentale. Gli accadimenti storico-esistenziali sconfiggono i due protagonisti del romanzo e li costringono a tornarsene dove sono nati.

 Gambardella, però, nonostante lo vediamo nelle scene finali costeggiare su una nave le sponde natie, non se ne va e decide di iniziare finalmente il suo nuovo libro, proprio come Marcel alla fine de La Ricerca del tempo perduto. Il suo romanzo non sarà più su quell’apparato di spettacolo umano che egli stesso ha finora messo in scena e dominato, fallendo l’appuntamento della sua esistenza con il senso e la letteratura. Jep, a differenza di Proust, sa che in questo mondo non c’è più niente da ricercare, più niente da raccontare, eppure, ugualmente, si deve continuare a scrivere. L’umano – dice amara la sua voce fuori campo – si dà solo tra un frammento e l’altro della bellezza che scompare nell’attimo stesso in cui appare. Il resto è finzione, trucco, trenini sulle terrazze della Roma-cafona-bene che ballando e bla-bla-blando non portano mai da nessuna parte. La materia grafica della sue parole sulla pagina scritta sarà il nulla, il suo sguardo silenzio sullo schermo sgualcito della vita, sul velo d’ombra – soffice di morte – delle antiche mura, sulla pellicola corrosa che avvolge la dissacrata grande bellezza della città.

 Ha smesso di piovere e i platani di Via Veneto sono scossi da folate di vento fresco che hanno già asciugato l’asfalto della strada. Un uomo si ferma un istante accanto a noi per accendersi una sigaretta. Indossa una giacca di lino rosso con un fazzoletto candido nel taschino, pantaloni bianchi e scarpe Duilio bicolore. Sentiamo lo scatto del suo accendino d’oro che subito si chiude sull’occhiello di brace e il filo di fumo che vorticando sale verso il residuo di nubi in cielo. Garbatamente ci fa un cenno di saluto e prosegue. Viene voglia di fumare anche a noi, ma ci salutiamo, dandoci soltanto appuntamento alla prossima – pellicola del filosofo.

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Commenti al Post:
eva.dalsasso
eva.dalsasso il 04/03/14 alle 07:38 via WEB
Che meraviglia! Il film di Sorrentino,Roma, gli spaghetti,il rosso e poi un whisky ...per non parlare dei platani di Via Veneto scossi da folate di vento fresco che fa vorticare il filo di fumo di una sigaretta mentre sale verso il residuo di nubi in cielo....Questa "pellicola del filosofo" e' affascinante come le parole che con grande maestria la descrivono.... e' da ieri sera che ci sono caduta dentro e continuo a sguazzarci leggendole e rileggendole.....e non sento alcun vuoto,nessuna miseria umana,ma percepisco bellezza che come l'amore "non si racconta,- si vive".Grazie Riccardo!!!
 
 
cineciclista
cineciclista il 05/03/14 alle 19:26 via WEB
Ti ringrazio, Eva, per l’entusiasmo travolgente di questo tuo commento. Tu vuoi estendere alla bellezza ciò che la santa del film predica – non dell’amore ma – della miseria, la quale cioè si vive e non si racconta. La bellezza naturale o spirituale, però, suscita per sé un impulso a raccontarla, a rappresentarla poeticamente o plasticamente, attraverso opere di pittura e scultura, per non parlare della musica, della danza. Il cinema è tutte queste cose insieme, è il suo modo di vivere la bellezza – rappresentandola con l’insieme di tutte e sette le arti.

Così, rappresentando la bellezza, anche attraverso il drammatico, il tragico, l’arte diventa essa stessa una forma di bellezza, che si lascia contemplare e nello stesso tempo dà molto da pensare, soprattutto quando tocca il sublime. Non a caso, fin dall’antichità, non c’è grande pensatore che non sia sentito spinto a ragionarne, parlarne.

Stendhal scrive nel 1882: “La bellezza non è che una promessa di felicità”. Theodor W. Adorno aggiunge a metà del ‘900: “Una promessa che non è stata mai mantenuta”. Oggi, agli albori del terzo millennio, potremmo sospirare: “La bellezza è il disincanto di un’illusione ormai svanita, ma come disincanto funziona addirittura meglio di quell’antica promessa mai mantenuta”. Noi viviamo su questa terra inconsciamente lacerati da una doppia verità e la bellezza più che una promessa è l’attesa di uno struggente tramonto di tale situazione umana. Almeno così ipse Cine dixit.
 
   
eva.dalsasso
eva.dalsasso il 05/03/14 alle 19:57 via WEB
Presa dall'entusiasmo della lettura ,mi sono espressa male Riccardo.Certamente l'arte racconta la bellezza,tutte le forme di arte lo fanno ....quello che volevo dire e' che per raccontarla però forse va vissuta ,come per raccontare l'amore...
 
     
eva.dalsasso
eva.dalsasso il 05/03/14 alle 20:56 via WEB
Bisognerebbe intendersi sul termine bellezza...
 
     
cineciclista
cineciclista il 06/03/14 alle 21:06 via WEB
Bellezza è ciò che suscita in noi un sentimento spontaneo di piacevole stupore, di meraviglia incontenibile. La filosofia, il pensiero, il racconto del mondo – il bisogno, anzi, di raccontarlo – nascono da questo stupore originario. Uno spettacolo appariscente della natura e un piccolo invisibile pensiero sono intimamente legati. Anche quest’ultimo può folgorarci per la luce improvvisa che accende. Persino una formula matematica può sprigionare una grande bellezza: la stringata equazione di Einstein E=mc2, sulla equivalenza tra energia e materia, è uno degli esempi più celebri. L’essere è in sé meraviglia, stupore, bellezza, sophia, ovvero sophos, sorprendente radiazione luminosa. La bellezza è in questo sì promessa di felicità, dove, però, l’oggetto primo della meraviglia non fosse prima ridotto a materia, spirito e logica di bassa manipolazione.
 
     
cineciclista
cineciclista il 06/03/14 alle 21:04 via WEB
Guarda, Eva, io credo che risulta al suono stesso della lingua e dunque della logica che un conto è dire: “La miseria non si racconta, si vive”, un altro dire la stessa cosa della bellezza e dell’amore. Il Cristo non racconta la miseria: silenziosamente se la carica come una croce sulle spalle e cerca di alleviarla, togliendone una parte del peso, della sofferenza da quelle dell’uomo. È questo che vuole dire la santa nel film di Sorrentino. Da questo scaturisce un amore, una bellezza di cui Cristo parla eccome, e per questo è ciò che Dostoevskij mette al centro dei suoi romanzi. Risulta evidente che non possiamo dire la stessa cosa di amore e bellezza, o caricarcele sulle spalle, per toglierle da quelle degli altri. D’altronde qualsiasi altra cosa, per essere raccontat, deve essere vissuta, non è una peculiarità esclusivamente riferibile alla bellezza e all’amore.
 
     
eva.dalsasso
eva.dalsasso il 07/03/14 alle 08:05 via WEB
Il Cristo vive secondo bellezza,tutto ciò che il Padre ha creato e' bello ,la vita ha senso solo nella bellezza e l'essere umano e' tale solo se fa della bellezza una ricerca costante nella sua vita.Gli artisti sanno viverla la bellezza attraverso la loro opera d'arte che li accomuna in qualche modo al divino.Molte persone sono "belle" ,hanno la pelle impregnata di bellezza,ce l'hanno addosso,dentro dappertutto,la comunicano e la vivono,la agiscono.....altre persone sono condannate alla miseria perché non la percepiscono ,ne' dentro ,ne' fuori di esse e non la vivono. Ma che senso ha la vita senza bellezza? Che senso ha la vita senza Dio?
 
     
cineciclista
cineciclista il 07/03/14 alle 12:17 via WEB
Non penso, Eva, si possa parlare di bellezza a proposito di qualsiasi dio preveda la volgare manipolazione dell’essere a partire dalla polvere fino a tornare a essa, e che ha liberamente creato solo ciò che amava, ossia ha creato sulla scorta dell’odio. Un simile dio farebbe orrore in primo luogo a se stesso oltre che a ciò e a chi lui, in tal attitudine, ha miseramente creato, alla miseria condannandolo. Se un dio, in quanto intelligenza e consistenza universale superiore a simile nefasto credo, che numerosi e odiosi misfatti ha seminato, infatti, lungo tutta la sua vicenda storica, se un simile dio superiore esistesse, ripeto, dannerebbe proprio quelli che venerano e onorano falsamente l’altro: e tu fra questi. Un dio qualsiasi non potrebbe essere inferiore all’intelligenza, figuriamoci alla dabbenaggine umana. C’è questo ente superiore? Bene, io sono perfettamente tranquillo davanti a lui. Non c’è? È la stessa cosa. Il divino, infatti, non sarebbe in tutte le cose, ma sarebbe direttamente tutte le cose, ogni singola cosa, anche la polvere, un’ombra tenue sul muro, una parola smozzicata, un labile sospiro, un pensiero, tutto il sentire umano.
 
     
eva.dalsasso
eva.dalsasso il 07/03/14 alle 14:01 via WEB
Perché mai un dio dell'odio dovrebbe metterci al mondo con la capacità di intuire bellezza e amore?
 
     
cineciclista
cineciclista il 07/03/14 alle 14:55 via WEB
Per il piacere sadico di trarci dalla polvere e a essa ricondurci, a spasso nel suo universo da un nulla all'altro...
 
     
eva.dalsasso
eva.dalsasso il 07/03/14 alle 15:07 via WEB
Si' ma poi quella polvere diventa .,..un albero ;-)
 
     
cineciclista
cineciclista il 07/03/14 alle 15:40 via WEB
... e quell'albero cenere... Dalla polvere alla cenere... tutta qui l'immensa immaginazione o altelena cosmica da un vertice all'altro del nulla su cui ti dondola il tuo dio...
 
     
eva.dalsasso
eva.dalsasso il 07/03/14 alle 15:45 via WEB
Ah ma allora sei cieco!
 
     
cineciclista
cineciclista il 07/03/14 alle 16:47 via WEB
Sentenziato da una stra-vedente, come non avere piena fede che io sia cieco!
 
     
eva.dalsasso
eva.dalsasso il 07/03/14 alle 17:18 via WEB
Tra una sentenza e un ipse dixit stravedo per un piatto di spaghetti pure se in compagnia di un cieco...."un alto e un basso fa un guaivo"!!!
 
     
cineciclista
cineciclista il 07/03/14 alle 18:39 via WEB
Mi son bastante alto anca se non son veneto coma ti ma son foresto... Par mi tuto xe brodo... basoto... cieco... inzotà... inzonzolà... baucòto... guaivo... gualìvo... tuti son batòciadi coma un canpanàzo... sacagnadadi... curidòri disgrazià con il grùpo in calà che spuàcian mòcoli coma mi... Solo tu xe la Santa... ma no de una sola pelesìna ma de tuto el zinematografo mondial… (Traduzione maccheronica di commento spaghettonico: “Io sono abbastanza alto anche se non sono veneto ma forestiero... Per me tutto fa brodo… basso depresso, cieco, azzoppato, malmesso, sciocco, mezzano, piallato... tutti sono batocchiati come un campanaccio, batostati, ciclisti disgraziati con il mal di gola in salita che sputacchiano bestemmie come me... Solo tu sei la Santa, non di una sola pellicola, ma di tutto il cinematografo mondiale...”)
 
     
eva.dalsasso
eva.dalsasso il 07/03/14 alle 20:49 via WEB
Dopo fragorosa risata ....riprendendo fiato....."Eh te pareva .... Ricca' sta vita e' na commedia e fammela fa' sta parte....so' sempre pronta a recita' ,ma si no so' santa che so'? "
 
BacardiAndCola
BacardiAndCola il 05/03/14 alle 16:40 via WEB
Sono in molti a non averlo visto questo film. In molti a non averlo nemmeno compreso e trovato noioso. E' un film di nicchia. Io me lo sono gustato moltissimo quando uscì, trovando poi il protagonista principale perfetto per la parte. Con Toni Servillo, ho visto un paio di sere fa in Streaming "Viva la libertà". Trovato molto bello. E anche questa volta Servillo non delude. :)
 
 
cineciclista
cineciclista il 05/03/14 alle 19:52 via WEB
Sì, Bac&Col, oggi tutti tripudiano per questa vittoria italiana a Hollywood, nel mondo, ma la pellicola è proprio qui nella sua patria che non è piaciuta a molto pubblico ed è stata aspramente criticata, soprattutto dalla stampa specializzata. Non è un film privo di difetti, ma disconoscerne l’importanza mi sembra un atteggiamento ottuso. Anche perché, prima di sbarcare in America, la pellicola ha ottenuto riconoscimenti di pubblico e di critica in molti Paesi. A Parigi, appena uscito, facevano la fila per vederlo.

C’è stata poi la polemica per lo spot pubblicitario girato da Sorrentino per la Fiat 500, intitolato “La piccola grande bellezza”.

Occorre avere chiaro che l’Oscar è un premio che l’industria cinematografica americana e tutti i mestieri, le professioni operative del cinema danno ai film americani e a qualche film straniero. Questo significa che i produttori di una pellicola devono darsi da fare e spendere consistenti cifre di denaro per organizzare più proiezioni e party, feste mondane di un certo rilievo, al fine di mostrare e promuovere il film al maggior numero di categorie professionali possibili (dagli elettricisti, ai fonici, ai truccatori, scenografi, sceneggiatori, montatori, attrezzisti, ecc.), perché saranno queste a votare per i vari film designati.

Ora che Sergio Marchionne e tutta la Fiat-Crysler, considerati anche i rapporti economici e l’amicizia con Obama, possano essersi dati da fare per spingere il film di Paolo Sorrentino a me non stupirebbe affatto, anzi. Ripeto: non è da questi aspetti o dai premi vinti che va giudicato il valore di un film, fermo restando che ogni giudizio ben motivato è legittimo.
 
ElettrikaPsike
ElettrikaPsike il 14/03/14 alle 00:47 via WEB
Non ho mai commentato finora i film descritti e “riscritti” nel tuo blog anche quando ho avuto la possibilità di conoscerli direttamente, perché ritenevo che l’unico modo per vivere questo tuo blog fosse la lettura. In questo tuo blog, posso solo leggere, perché non ho idea di come si risponda…come si risponde con un commento ad un regalo di presentazione illuminata (in senso letterale e non solo) di una visione cinematografica? Ma anche riuscendo a rispondere dovrei dire solo le mie impressioni estetiche e sono così soggettive, personali da non essere utili per nessun altro che potrebbe leggerle. Non sono in grado di rendere il mio individuale in un discorso nel quale altri possano ritrovarsi, però per fortuna ci sei tu a fare tutto. A prestarci occhi e ad aprirci la porta quel tanto che basta perché i tuoi strumenti ci portino dentro al film e poi non la richiudi dietro di te ma ci lasci tutto lo spazio per respirarlo, assaggiarlo, metabolizzarlo. Ci indichi gli strumenti per una didattica del cinema, ci fai vedere forma e sostanza e crei relazioni, confronti generi e tecniche, ci racconti lo stile, il linguaggio e le strategie intorno e all’ interno del film, inquadrato in tutte le angolazioni del tuo obiettivo. Per questo, sostanzialmente, il mio grazie, scritto precedentemente. Ma in questo caso oltre a “leggere”, mentre “ascoltavo” le parole del tuo post mi è venuta alla mente un’altra chiave d’accesso per relazionarmi al post. Ho visto La grande bellezza…e ti dico che, non potendo scrivere commenti sulle tue recensioni, ti farò domande. Forse così, chiedendo, le mie impressioni estetiche esclusivamente individuali, possono diventare, grazie alle tue risposte, spiragli utili anche agli altri.
 
 
cineciclista
cineciclista il 16/03/14 alle 11:57 via WEB
Ti ringrazio, Elek, per le parole che usi parlando qui dei miei post sul cinema ma, veramente, più che l'elogio e il naturale imbarazzo che mi fa provare, sarebbero interessanti proprio quelle che tu chiami le tue “impressioni estetiche... soggettive”. Estetico attiene proprio alle sensazioni, a ciò che si sente addosso, dentro, sulla pelle; anche nella mente. Perciò l'impressione estetica non può che essere soggettiva, perché ognuno reagisce difronte a un'opera o a un prodotto d'arte attraverso quel complesso fisico-mentale che è il proprio corpo individuale. Questo insieme psico-fisico ha così tanti tratti in comune con gli altri che quando noi elaboriamo un nostro giudizio estetico che è del tutto personale, individuale, pensiamo purtuttavia che esso abbia valore universale e ci irritiamo nel sentirlo contrastato. Questo giudizio o pretesa di valore universale, come diceva il buon Kant, non è basato però su un concetto, sulla logica, ma su una rappresentazione dell'immaginazione che ci dà molto da pensare. Appurato che il giudizio estetico è sempre irriducibilmente personale, purtuttavia bisogna cercare di affinarlo, ovvero renderlo attento a diversi fattori, anche contrastanti fra loro, e soprattutto coerente nel suo insieme.
 
ElettrikaPsike
ElettrikaPsike il 14/03/14 alle 00:49 via WEB
Ho due domande per te. Quando ho visto il trailer di questo film, la prima volta, ascoltando le parole del personaggio, re dei mondani, mi aspettavo di scoprire, andando a vedere il film, che il protagonista fosse Faust , se non addirittura il suo vero re, Mefistofele (colui che ha davvero il potere di farle fallire, le feste…) ma anche quando ho appreso che Jep non era un personaggio di Goethe, il film mi ha rimandato alla mia iniziale impressione nella sua onirica? lucida? impersonalità, senza un filo rassicurante di “normalità” che ci strappi da quella che è l’estraneità illogica dell’ansia. Ma che cosa ci dice? è la grande indolenza umana, la negazione totale di una possibilità (di ricerca, di stupore, di creazione) e l’incapacità che accomuna tutti gli esseri umani, in quanto umani, di potersi sottrarre alla manipolazione anche quando credono in qualche modo d’essersi sottratti ad essa, oppure è una bugia ludica di “Faust” per suggerirci di trovare la contrapposizione all’indolenza in un altro invisibile personaggio? (invisibile e non presente perché anche il personaggio della santa, come controparte - chiave per la grande bellezza, non poteva con la sua spiritualità resa comunque grottesca, aprire nuovi spazi in tutto quel cielo volutamente chiuso) Esiste questo personaggio assente che ci parli della capacità d’avere in sé ancora la meraviglia di una ricerca contagiosa?
 
 
cineciclista
cineciclista il 16/03/14 alle 11:59 via WEB
L'esempio di quanto detto sopra sta proprio in una tua personalissima impressione sul film. Tanto strettamente individuale che nessun critico, mi pare, e neanche io nei miei due post, ne abbiamo mai lontanamente accennato. L'impressione è quella relativa al Faust, al Mefistofele, che a me ora appare non solo altamente suggestiva ma addirittura genialmente produttiva. Rileggere nella figura del raffinato Gambardella una evoluzione in epoca attuale o addirittura un destino dell'originaria figura mefistofelica. Quasi che nel suo famoso Viaggio in Italia Goethe avesse lasciato il suo personaggio tra i pori delle antiche pietre monumentali, così che questi vi avesse attecchito, germinato e partecipato al loro indolente decadimento. Alla stessa stregua, il doppio invisibile, il fantasma di Jep, del quale tu senti la necessità nel racconto mi pare davvero un ottimo spunto. Pur senza rimettere in discussione i miei due precedenti post, potrei riscriverne con te un altro, altrettanto denso, in questa chiave. Questo sta solo a significare che un'opera non è mai qualcosa di statico, che possa essere interpretato concettualmente e definitivamente, ma è qualcosa di mobile, oscillante, che lascia intravedere la sua aura e così diverse stratificazioni sotto la sua superficie esteriore, che neanche l'autore con le sue consapevoli intenzioni creative poteva originariamente immaginare.
 
ElettrikaPsike
ElettrikaPsike il 14/03/14 alle 00:53 via WEB
E’ evidente poi, che, come tu affermi, pur non essendo privo di difetti, non si può negare l’importanza di questo film. Ma puoi spiegare quali sono i più evidenti “difetti” e gli “spazi non riempiti” o riempiti in modo non del tutto convincente/appropriato (e talvolta facilmente considerati come scontati o banali) in questo film? Si legge che sia “felliniano”, ma anche “realista”; che è un “capolavoro” oppure che non lo è affatto ed è solo “simbolismo e clichè”. Forse Sorrentino, in un ordine temporale, ha avuto la sfortuna di nascere dopo la parodia felliniana…ma cosa stabilisce in questo caso la “banalità”? (Aiuto...nel vedere ora tutto questo scritto ti chiedo scusa per lo spazio che ti ho occupato avrei dovuto rateizzarlo...ma ormai...)
 
 
cineciclista
cineciclista il 16/03/14 alle 12:07 via WEB
Uno dei difetti del film, Elek, è indicato nel testo stesso del post. Una ridondanza del testo scritto – ovvero dei dialoghi e della voce fuori campo – rispetto alla scena visiva, all'immagine. Dovrebbe avvenire il contrario, perché il cinema è innanzitutto immagine e non parola. Il cinema non deve dire, ma – mostrare. Questo è vero in generale per qualsiasi forma d'arte, per le ragioni che dicevo nella risposta al tuo primo commento, ossia che il giudizio di gusto è basato sulla aestesis, sulla sensazione e non sul concetto. Soprattutto ciò dovrebbe avvenire nel cinema, per non farlo scadere a una sorta di forma teatrale o letteraria filmata. Questo ha portato il regista ha tentare di bilanciare il peso del testo, caricando a volte artificiosamente le immagini, facendole perdere, al contrario, in forza della leggerezza. Io, del tutto personalmente, trovo un difetto anche nel personaggio di Romano e di come l'attore, Carlo Verdone, non abbia saputo ma neanche potuto renderlo, e questo toglie valore a un intero capitolo del film. Per me Romano doveva essere la prosecuzione di quel Monaldo che nel finale de I Vitelloni di Fellini sale all'alba su un treno treno per lasciare la sua cittadina di provincia, con un ragazzino che dalla banchina, mente il treno parte, gli domanda “Perché te ne vai, non stavi bene qui?”. Ritengo che qui si sentiva davvero il bisogno di quel doppio, di quel fantasma di Romano che è Monaldo, e che per questo l'attore si sia trovato disorientato e abbia solo tentato, attraverso il mestiere ma non l'arte, di rendere un personaggio che mancava proprio della sua ombra proiettata sugli antichi selciati di Roma. Il tornare indietro di Romano-Monaldo dalla città alla provincia non è solo il ritrarsi della bellezza dalla città, ma anche un ritrarsi degli uomini dalla bellezza, ossia anche dalla polis in quanto schermo sul quale essa si proietta. Ecco, alla fine, anche questo aspetto della città, della polis, come insieme di architettura umana dei sentimenti, delle relazioni e del potere e non solo delle nostalgie e delle pietre mancava. Forse proprio quel personaggio invisibile di cui tu, Elek, intuivi insieme la necessità e la mancanza. Pur riconoscendo che ogni opera oggi non possa avere una sua coerente sintesi finale e che l'autore deve decidere sempre per una scelta che è anche un recidere, purtuttavia, forse, un'economia narrativa e sintetica diversa il film avrebbe potuto averla.
 
   
eva.dalsasso
eva.dalsasso il 18/03/14 alle 19:10 via WEB
Il cinema deve "mostrare" come diceva il grande Fellini e in effetti pure io ho sentito la grande ,forse troppa ,forza invasiva delle parole.Ciao Riccardo :-)
 
     
cineciclista
cineciclista il 19/03/14 alle 10:16 via WEB
Tutte le vere forme d'arte, Eva, dovrebbero soltanto mostrare, senza dire, ovvero dovrebbero rivolgersi agli strati più profondi della nostra sensibilità. Il cinema, poi, dovrebbe parlare innanzitutto con le immagini, prima ancora che con i dialoghi, come era, appunto, nella sua epoca del muto.
 
     
eva.dalsasso
eva.dalsasso il 19/03/14 alle 14:36 via WEB
...l'immagine che diventa parola attraverso il silenzio....
 
     
cineciclista
cineciclista il 19/03/14 alle 19:51 via WEB
Non potevi dirlo meglio, Eva. ;)
 
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