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Messaggi del 12/06/2014

La città è spietata

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(Il poeta romano Vinicio Pittalis autografa copie del suo libro)

Affollato e frizzante il reading di poesia romana tenuto da Vinicio Pittallis ieri 11 giugno alle Officine Beat nello storico quartiere di San Lorenzo di Roma. Il termine “reading” rimanda alla lettura, in realtà Pittalis ha recitato completamente a memoria tutte le poesie del suo ultimo libro “Sangue pulsante, arterie” (il precedente è "La sutura"). Dopo la mia introduzione, alternando l’ascolto con altre considerazioni sui versi che man mano venivano recitati, ha parlato della figura e della poesia di Vinicio Pittalis anche l’artista contemporaneo e regista cinematografico Giovanni Albanese, il quale, insieme ad altri artisti, ha concesso la riproduzione di una sua opera all'interno del libro. Del maestro Albanese è in allestimento una prossima importante mostra al Macro di Roma. Per richiedere copie del libro potete contattare direttamente il poeta su facebook.

Di seguito il testo della mia presentazione.

Platone, nei sui celebri dialoghi, mette sempre in scena Socrate che va in giro per la città di Atene e discute con gli interlocutori che incontra dei più diversi argomenti: politica, giustizia, amicizia, amore, linguaggio, filosofia… Poteva mancare tra questi argomenti la poesia. No che non poteva mancare, anche perché Platone, prima di incontrare Socrate e diventare suo allievo, era completamente dedito alla poesia, come studioso e seguace di Omero e, dicono, poeta di una certa levatura egli stesso. Dei suoi versi, però, non ci rimane niente. Quando lui era ragazzo, la scrittura non era ancora così diffusa in Grecia, ad Atene, tutto era tramandato oralmente e, soprattutto, proprio attraverso i poeti.

Sia nel Fedro, che nello Ione, Platone, con le parole fatte pronunciare al suo maestro Socrate, dice che il poeta parla per conto e con la voce della divinità. È come se il dio gli entrasse dentro, lo spossessasse della sua mente e gli infondesse il fuoco sacro dell’ispirazione divina.  Platone parla di “mania e invasamento che proviene dalle Muse”. Questa mania è una specie di follia, di delirio, che induce il poeta a produrre e poi recitare versi nell’agorà, nella piazza pubblica. Questa forza, questo impulso divino si propaga a chi ascolta la voce pubblica del poeta col l’effetto della pietra di Eraclea, di un magnete, di una calamita.

Ora, a parte il giudizio generalmente critico di Platone sulla poesia, noi vediamo, però, che entrano essenzialmente in gioco tre fattori cruciali: la mania divina, il poeta e l’agorà, la piazza, ossia la polis, la città, Atene, nel caso di Socrate. 

Ma cos’è originariamente, arcaicamente il divino se non una personificazione, una divinizzazione della Natura, dei suoi aspetti più minacciosi o meravigliosi, da parte dell’umano? Mania, che in greco si dice allo stesso modo, ha una singolare assonanza con il termine polinesiano Mana, ossia proprio questa forza soprannaturale che pervade la Natura e da essa si sprigiona. In termini antropologici il divino è la totalità delle cose, del mondo, dell’Universo del quale l’uomo è parte, ossia vi è immerso partecipandovi.

Nel poeta parla la percezione della totalità delle cose, e ne parla in maniera sintetica, condensata, non analitica e discorsiva. Il poeta percepisce, intuisce, per partecipazione intima, anche inconscia, certi aspetti o sviluppi ancora nascosti delle cose intorno a noi e li esprime pubblicamente attraverso l’energia condensata delle sue parole, della sua voce materiale e spirituale. 

La Natura per l’uomo si è fatta anche storia, cultura, si è fatta piazza, polis, città. Ecco, allora, che oggi, nella contemporaneità urbana, metropolitana, nel poeta l’impulso divino gli deriva proprio dalle mura, dai selciati della città.

La città, come costellazione di asfalto, cemento, drammi umani e tensioni, aspirazioni sociali, chiama il poeta, perché vuole da lui la sua voce. Che la città chiami il poeta significa che lo intride di ogni suo aspetto più nascosto, non ancora apparente o razionalmente spiegabile, discorsivamente districabile. Significa che la città chiede al poeta di dare voce, una particolare voce, non banale, non scontata, triviale a tutto questo. La città dà materia di produzione poetica e vocale al poeta, ma vuole che questa materia risuoni della voce caratteristica, unica in ogni sua tonalità del poeta. La città, infatti, vuole mettersi davanti al poeta, costituirsi nella sua forma di agorà, di piazza, di pubblico consesso per ascoltare il modo nel quale il poeta ha reso quell’impasto di magmatica materia umana che gli ha trasmesso. La città, come collettività, può riascoltare se stessa solo attraverso la voce dell’individualità, della singolarità del poeta, di quel poeta.

La città seduta davanti a Vinicio Pittalis ad ascoltarlo siamo in questo momento noi. Noi siamo la sua agorà, lui entra in scena come un attore davanti a questa platea teatrale pubblica e noi lo ascoltiamo, perché di noi e all’autorità di città che in ognuno di noi risiede, lui viene qui a parlare. Noi siamo la Roma di ogni tempo, passato, presente e futuro, perché l’origine non è qualcosa che resta sepolto in un punto X della storia, ma è qualcosa che continua a pulsare ben viva sotto la pelle del presente, e continua a scorrere insieme alle nostre parole, ai nostri gesti, alle nostre esistenze.

Sarebbe troppo facile dimostrare come le nostre parole di città vivente, lievi o contundenti, bisbigliate o lanciate come sampietrini a Vinicio, i nostri racconti, lamenti, sfighe, smadonnamenti e Gloria Patri, i nostri sguardi sui muri, sulle miserie, lo schifo, le ipocrisie, le follie stiano condensate, stringate dentro i versi di Vinicio.

Solo che noi città addolorata e sparpagliata, strafottente e indolente, angosciata e menefreghista non eravamo capaci a dare alle nostre parole, gesti e sguardi quella forma, quel suono, quel filo micidiale di rasoiata in piena faccia che gli sa dare il poeta. Non sapevamo riunificarle con tutto quello che gira, oscilla pericolosamente e pateticamente dentro e fuori il Raccordo Anulare.

Per questo noi ora ascoltiamo la nostra voce, il nostro pensiero e sensazione di città nella forma peculiare che ha preso nei versi del nostro poeta, di Vinicio Pittalis e, alla fine, glielo tireremo dietro questo suon libro, oppure gliene chiederemo una copia, perché possa continuare a scrivere e a illudersi che sia lui a convocarci per i suoi reading, mentre siamo stati ad avercelo condotto per la collottola della sua disperazione.

 E mo’ so’ cazzi tua!Hai voluto er verso… e adesso nun ce lo mannà pe’ traverso! Recita le poesie e pure un requiem si lo fai male… La città te vole bene, ma ce lo sai… l’hai scritto pure… nun te fa sconti… la città  è… spietata…

                                                                                                  Riccardo Tavani

Roma, 11 giugno 20014.

 

 
 
 

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