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Deliri e follia. Integrazione e stereotipi. Balla Gaye, I dont care!

Post n°251 pubblicato il 10 Novembre 2011 da djchi
 
Foto di djchi

 

Deliri e follia. Frutti di stagione perenne in una paranoica Dakar. Guardo dal finestrino del camioncino una coppia di ragazzine, avranno al massimo quindici anni e quella camminata da donne adulte che ammicca prepotente ad ogni passo strascicato. La coda di capelli finti luccica al sole e si muove aggrazziata appena sopra le spalle minute. Una delle due ragazzine sorride mentre saluta l'amica e solleva elegante il pagne del suo vestito rosa. Le gambe esili e nere non sembrano sentire il peso del sole, del caldo e della strada dissestata. La guardo, invidiosa della sua giovinezza e del suo fisico filiforme. All'improvviso poi quel particolare: “Balla Gaye, I don't care”. Una scritta mal cucita compariva prepotente sul suo sedere. Mi sono allungata per leggere meglio ma no, non mi ero sbagliata. La mia miopia andante non mi aveva tradito. Cucito nel vestito il nome di un lottatore e il chiaro messaggio: non me ne frega nulla. Ho passato qualche minuto a chiedermi perché cucirselo proprio sulle chiappe? Forse la giovane ragazzina, molto meno ingenua di quello che si potrebbe pensare data l'età, ha già capito che la comunicazione è una questione di mera ricerca socio-antropologica. Se qui i maschi focalizzano l'occhio soprattutto su un punto specifico, e che punto aggiungerei pure io, quale miglior strategia per lanciare la propria orientazione sportiva se non quello specifico punto? Continuava a camminare aggrazziata, la ragazzina con la scritta cucita sul sedere, forte del suo charme in fiore e del messaggio lanciato ad ogni colpo d'anca. Povero Balla Gaye, she doesn't care!

 

 

Ogni tanto dico a me stessa che da piccola non avrei potuto immaginare oltre. Poi, a volte, dico ancora a me stessa che peggio di così non sarebbe davvero potuta andare. Le mie doppie (a volte triple) personalità si scornano periodicamente, mandando in tilt il mio sistema già fragile. Eppure ieri, guardando il tramonto sulla strada che porta verso Malika, per un istante ho pensato di aver fatto la scelta giusta. Come da bambina, osservo le persone dentro le macchine che ci affiancano. A volte capita che ci si osservi vicendevolemente per qualche lunghissimo minuto. E come da bambina, tanti anni fa, immagino vite e percorsi di gente che probabilmente non conoscerò mai. Il tragitto è stato lungo, i soliti problemi tecnici e i ritardi e il non professionalismo che fanno di questo paese, tratti distintivi. Parlo da ore con Iao, un ragazzo ivoriano che ha il nome di un cinese. Lui è sempre puntuale ed è pure sempre molto gentile. Raccoglie i miei dubbi e mi serve speranza: “Tutto è questione di pazienza”, mi dice spesso. “Vedrai che andrà tutto bene”. Piccole bugie servonoa volte a ricaricare una positività ingrigita. Mi trovo bene a lavorare con gli uomini, molta meno competizione, molta meno gelosia. Chissà perché tutta questa tensione di genere che a noi donne ci ha penalizzato da una vita. E lo so, che frase banale ho appena detto, eppure reale. “Sono quattro anni che vivo in Senegal. Ho deciso di partire per mettermi alla prova. Il viaggio ti costringe a rimetterti in gioco e a sopportare le difficoltà, stringere i denti e lavorare per arrivare ad un obiettivo. Emigrare non è scappare, non è non amare il proprio paese. Non è neppure necessariamente essere poveri o non avere alternative. A volte è solo scoperta, sfida, bisogno di imparare, di vedere altro, di andare oltre”. Ho le braccia appoggiate al sedile e lo ascolto. “Sono partito con la speranza di imparare e di crescere nell'ambito del mio mestiere, la regia. Non ho avuto problemi. Quando sei professionale e hai voglia di lavorare non potrai che raccogliere i frutti del tuo lavoro. Mandavo i soldi regolarmente a mia moglie, eravamo sposati da un anno e nostra figlia era appena nata. Il tempo di sistemarmi e le avrei fatte venire. Poi sono iniziate le telefonate, prima mia sorella, poi mia madre. Tua moglie ti tradisce. La chiamavo e lei negava. Le ho sempre creduto, l'amavo. E ancora le telefontate e ancora mia madre: tua moglie è incinta. Il cuore mi si è spezzato ma lei negava e io le credevo. Poi la sua, di telefonata: sono incinta. Ho pianto, ho pianto davvero tanto. Non riuscivo a capacitarmi che il nostro amore non avesse davvero avuto importanza per lei. Ma l'amavo. L'amavo davvero. Ho perso il lavoro alla TV nazionale ed ho impiegato un anno per riprendermi”. “Tu hai avuto delle donne qui?” accenno timida. Iao sorride “Donne ce ne sono a bizzeffe, senegalesi, ivoriane, europee. Una francese che lavorava in TV con me ha fatto di tutto per uscire con me e non si dava pace perché una sera, rientrata con me, non abbiamo fatto l'amore. “Ma hai dei problemi?” mi ha chiesto e io ho riso. Le ho risposto che non avevo nessun problema ma che ero ancora innamorato della mi ex moglie".

Chissà perché, quando si parla di tradimento spesso lo si classifica a seconda del genere. Normalmente lo stereotipo nazional-popolare avrebbe previsto il tradimento di Iao a discapito di una giovane donna in lacerante attesa tra bucato e cucina. Poverina, si sarebbe detto, ma si sa, gli uomini sono tutti così, non possono tenere il pene dentro i loro pantaloni. Interviste qualitative improvvisate in una strada sterrata verso Malika insegnano che ogni generalizzazione è errore e che ad ogni generalizzazione corrisponde un'eccezione che no, non conferma la regola ma la nega. Chissà se qualcuno avrà mai pensato al dolore e alla sofferenza di questo giovane ragazzo ivoriano. Ma come dice lui, basta avere pazienza. Inch'Allah.

 

 

 

Non ero mai stata a Malika eppure non è lontana da Dakar. Una ridente cittadina periferica, un perfetto incrocio tra il villaggio e Pikine. La vita pullula immersa tra la campagna e le moschee. Cammino e i miei tacchi sprofondano in una strada insabbiata. Ché mi porge le sue ciabatte, camminando a piedi nudi, “Come i veri baye fall”, mi dice ridendo. Adoro Ché e adoro Matador, soprannominato da entrambi, papà. Arriviamo con i cameramen a casa del Ché o meglio a casa di Dada, sua zia, una di quelle tante signorotte dal viso tondo e la stazza imponente. Siamo venuti ad intervistare Assa, la cugina, una giovane ragazza madre, con i tatuaggi e quell'atteggiamento da maschiaccio che mi aveva fatto innamorare quando la conobbi, tre anni fa. In casa sono tutti in fibrillazione. La televisione ha questo potere magico di attirare e spaventare. O forse il trauma vero è la telecamera, questo curioso aggeggio tecnologico che manda in tilt le persone e impedisce loro di parlare. In effetti le telecamere fanno mugolare, ridacchiare, arrossire. Me ne accorgevo quando utilizzavo la mia, piccola ed innocua per registrare le interviste della tesi. Era panico totale. Serve allora una buona dose di inventiva e qualche piccola tecnica psicologica per farne dimenticare la presenza e far credere alle persone che si tratti di una semplice e banale conversazione tra amici. Assa è bellissima nel suo vestito tradizionale. Ma come diavolo fanno le senegalesi ad essere sempre così perfettamente perfette, bellissime e sensuali? Sospiro ancora e ancora. Non ho nemmeno voglia di sistemarmi i capelli. I miei sono sempre sudaticci e incollati alla fronte, la ciccia sempre troppa e sempre mal distribuita e il trucco sfatto. Iniziamo a registrare. Come dice spesso mia mamma, sono nata senza vergogna, una pagliaccia di natura. Delle telecamere davvero non me ne potrebbe fregare di meno. Parlo e da dietro, da un piccolo pubblico improvvisato il tempo di un istante, le signore anziane commentanto con i loro “Ndeye sane” e ad ogni loro commento mi sento più sollevata. Ndeye sane. Assa sembra Aida, la mia amica di Baobab, parla e lo fa con quel tono aggressivo e di minaccia che spaventerebbe anche un finanziere. Difende le perfierie, fin troppo bistrattate, seppellitte in falsi stereotipi e dicerie popolari. Thiaroye è il suo quartiere e la fierezza con cui lo difende farebbe invidia anche al più abile dei politicanti. Sì, Assa è una ragazza della periferia e non si è mai sposata. La gente ha parlato. Assa ha dei tatuaggi. La gente ha parlato. Assa ha avuto numerosi spasimanti che, ben piazzati, le avevano proposto svariati matrimoni di convenienza. Assa non ha mai accettato. La gente ha parlato. Assa ha la mia età e non è sposata, un affronto per una società che vuole le donne realizzate sono all'interno di un matrimonio e di una (prolifica) marternità. Assa vuole sposarsi per amore. Anche lei segue la teoria di Iao per cui la pazienza ripaga sempre, alla fine. E con bellezza di cui la natura l'ha benedetta (o maledetta) parla come una moderna Che Guevara, applaudita dal pubblico presente e da Dada, la signorotta in carne con il dito puntato, come solo le grosse drianke sanno puntare, inquietanti e tenebrose. Dimenticavo. La casa è Dada che l'ha costruita. Dada che lavora per mantenare la famiglia. Dada che ha accolto in casa numerosi nipoti e cugini che per svariati motivi erano stati cacciati dalle rispettive famiglie. No. Non tutte le donne senegalesi sono geishe adoranti; non tutte le donne senegalesi mirano solo ed esclusivamente ad un matrimonio di interesse; non tutte le donne senegalesi stanno a casa a lisciarsi i lunghi capelli posticci e a spargere thiouraye. Un esercito di donne, forti e dignitose rifiuta ogni giorno di calzare lo stereotipo che è stato loro assegnato, pagandone a volte prezzi davvero troppo alti. Lo ripeto ancora, ogni generalizzazione è sbagliata.

 

 

 

Arrivo trafelata, stanca. So di smog e di risate. Inutile fare finta di essere integrati. L'integrazione la senti, la vivi. Non è una parola o un semplice: sei integrato o non sei integrato. A casa di mio marito non sono integrata, mettiamola così e non è colpa loro e non è colpa mia o forse è colpa mia e anche colpa loro. Io sono diversa, punto. Lo si vede, la mia pelle lo dice chiaro. Entri e tu sei la bianca, quella per cui le griot della famiglia mettono in agitazione la mamma del malcapitato dicendo che no! no! E anora no! Una bianca in famiglia, che sfiga! Che ne saranno delle laute mance ai matrimoni e ai battesimi? E gli investimenti fatti dalla mamma che, invece, da buona senegalese, ha elargito sapendo che, a sua volta, avrebbe ricevuto il giorno del matrimonio del figlio? Con una bianca tutto si complica, il meccanismo si inceppa. E poi una bianca, Dio, che tragedia, non capirà mai la cultura e i figli e la religione? E chi farà il bucato e chi aiuterà in cucina? Non di sicuro io, come ho ben precisato. Io che preferirei vivere di latte e cereali piuttosto che stare a tagliare cipolle. “ Ma per mangiare, non si preoccupi signora, sarò sempre presente”, ho esclamato sicura in mezzo al salotto riempito di zie. Silenzio profondo. Mi sono miseramente riseduta. Ho cercato di INTEGRARMI. Che urto questo termine. Ma non era mai abbastanza, troppo poco wolof, troppo poco sorridente, troppo poco logorroica, troppi pochi regali, troppo poco servizievole, troppo gelosa, troppo ribelle, troppo poco ubbidiente, troppo anarchica, troppi vestiti corti, troppi pochi bùbù. Insomma, una tragedia greca. E poi ci sono le amiche che, non essendo implicate sentimentalmente, sono sempre più simpatiche, più carine, più gentili, più INTEGRATE. E poi ci sono le cugine e quel c*** di legame familiare che dà loro il permesso di fare e disfare a proprio piacimento. Ah! Le cugine, che al contrario di te (o di me) sono senegalesi, nere, parenti. Loro conoscono bene la cultura e sanno cucinare e sbucciare le cipolle con le unghie (finte) sempre perfette. Al massimo ne cade una del riso ma “c'est pas grave”, potrebbe essere sempre confusa con un pezzo di pesce secco. Sempre vestite in gran bùbù e tacchi, servizievoli al punto giusto, dalla risata sguaiata e dai discorsi bassi per cui non ci si annoia mai, altro che sociologia o “cos'è che fai nella vita Chiara?”. E poi guardano con le zie le soap opera indiane che a me fanno cagare e sono prese davvero, ne conoscono personaggi e trame a memoria e loro sì, che possono discutere per ore come alla Vita in Diretta di soubrette e lottatori. Le cugine sono un incubo, l'incubo di tutte le bianche sposate con un senegalese. Mi è venuta pure l'orticaria da cugine. E poi ridacchiano impudenti quando passi, coprendosi a malapena la bocca e commentando in wolof ogni piccola imperfezione che per sfiga appare lì, davanti ai loro occhi. Io ho lei. La cugina per eccellenza. Che lei poi mio marito se l'è goduto per qualche tempo, qualche anno fa, prima che ci conoscessimo. E io devo sorbirmela a casa perché è una parente e quindi deve stare lì. Sembro un cartone animato con il fumo che esce dalla testa. Ieri la novità, la povera cugina vuole abitare lì perché, per non si sa qualce preciso motivo è stata cacciata da casa. Ok, il motivo io lo so ma non ve lo posso dire. Deliri e follia. L'isteria paranoica che diventa parte di te una volta che tu finalmente TI INTEGRI alla società senegalese ha qualcosa di malefico. Ho urlato come solo una bianca può permettersi di fare. Invano lui ha tentato di zittirmi, di spiegarmi che era stato categorico con la madre e la cugina, non avrebbe mai dormito lì. Eppure era l'una di mattina e in cucina le risate complici della madre, le zie e l'impudente, sì, lei, la c*** di cugina. Preparavo il tacco. “Perché non hai fiducia in me, Chiara? Perché io dovrei fidarmi di te e tu non dovresti fare altrettanto? Perché mi giudichi sempre e solo come un senegalese? Perché giudichi la mia famiglia solo perché senegalese? Eppure con Caliphe non avevi questi problemi. Il tuo ex fidanzato meritava fiducia perché era americano e non avresti mai dubitato della sincerità del bene della sua famiglia perché era americana e sarebbe stato così anche se fosse stato un italiano, un francese, un danese. Loro non sarebbero mai stati falsi e ipocriti, non è vero Chiara? Solo i senegalesi per te lo sono. Scusa ma sei tu, quella che scrive e che si vanta di essere la paladina dell'oggettività sociologica, sei la prima, giudicante e piena di stereotipi”. Ascolto anche se piango, isterica. Il mio unico pensiero è la cugina. Ad un certo punto la porta si chiude. Se n'è andata. Non mi aveva mentito. Assane si siede e ha la forza di dirmi solo: “Due ore di pianto e per cosa?”. Ogni generalizzazione è nociva. Raccolgo le mie lacrime e le ripongo nel cuore. Forse sono troppo integrata, questo è il problema.

 

 

 

 
 
 
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