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Racconti di un'altra emigrazione

Post n°349 pubblicato il 18 Gennaio 2024 da djchi

 

Quando osservi il mondo, quando presti ascolto alle notizie di ogni giorno, cosa scorgi al primo sguardo?

Solo cattive notizie, non ce n’è neanche una buona, sembra che non esistano.

Le cattive notizie sono strettamente legate al primo sguardo […].

Fermati un attimo, scruta in profondità […].

Non dare un’occhiata veloce per poi passare oltre.

Osserva da vicino, in profondità. Ripeti la stessa cosa in modo sempre più consapevole.

Questo ti porterà dentro.

Se inizi ad osservare in profondità, la vita dischiude davanti a te la sua magia.

Ogni giorno sperimento che non sono in accordo con nessuna statistica.

Sono quelli che voi chiamate “miracoli”.

Mi accadono continuamente, non perché io sia speciale ma solo perché cerco di andare in profondità.

A chiunque ci provi può accadere la stessa cosa.

(B.Herrmann – Il cammello sul tetto. Discorsi sufi)

 

Straniero.

Questa parola rimanda alla prima lezione di sociologia a cui partecipai da studentessa presso l’Università di Trieste, ormai un po’ di anni fa.

Ricordo un professore appassionato che spiegava come la definizione di ognuno di noi fosse intrinsecamente legata alla definizione dell’altro.

L’alterità dunque come pilastro fondante dell’essere. Il bisogno di definire l’altro appare dunque naturale, e questo processo, di fronte ad una realtà sconosciuta passa, spesso, attraverso quelli che sono definiti stereotipi che, nel radicarsi, diventano poi pregiudizi.

Il mio rapporto all’alterità comincia nell’infanzia quando sono stata definita “terrona” dai compagni di classe delle elementari.

Non capivo il bisogno di essere categorizzata, eppure ero nata e cresciuta, come loro, in un paesino di campagna della provincia padovana. Io ero diversa e questa differenza andava detta, svelata.

Terrona!

Io ero il frutto di un matrimonio “misto”, mio padre, veneto, si era sposato con mia madre, siciliana, rompendo non poche convenzioni all’epoca.

Gli altri definivano me, dunque, attraverso le origini di mia madre.

“Guarda di non portarmi a casa un fidanzato terrone!”, mi ricordava spesso mia zia paterna quando andavo a trovarla.

Nella mia testa di bambina provavo a mettere assieme queste informazioni, Nord e Sud non erano la stessa cosa, apparentemente, e chi provava ad infrangere i codici finiva nella macchina della svalutazione.

Eppure la cosa non mi quadrava, non ne capivo il senso. Mia mamma per me era la mamma, indipendentemente da dove fosse nata. Non trovavo neppure che mio padre fosse da considerarsi in una posizione migliore perché veneto.

In quel preciso momento è nata la mia coscienza della diversità che per me era in realtà ricchezza. Chi mi dava della terrona non aveva avuto modo di conoscere la Sicilia, la mia famiglia e i miei amichetti di laggiù.

Non aveva vissuto, come me, a cavallo di due realtà, così diverse ma egualmente interessanti. Quel terrona urlato si trasformava in un impeto di orgoglio e nella rivendicazione che l’essere considerata diversa sarebbe diventato il mio punto di forza.

Qualche decennio dopo, Padova, zona stazione. Sono seduta in un piccolo negozio di un barbiere nigeriano, Julius.

Dallo schermo piazzato nel mezzo del locale è sparata a tutto volume la canzone “Do me” dei P-Square. All’interno un via vai di stranieri, africani per la maggior parte.


Sono poco più che ventenne e non è raro che passi i pomeriggi nel negozio di Julius.

Avevo conosciuto Julius per caso ed era subito nata un’amicizia. Lui era appena arrivato dalla Nigeria ed aveva un obiettivo chiaro, diventare imprenditore.

Lo pensavano tutti un pazzo visionario.

In quel periodo avevo già vissuto mille vite, avevo studiato e lavorato in Francia, ero stata in Senegal, invogliata al viaggio da colleghi universitari senegalesi, vivevo con un ragazzo anche lui senegalese e avevo amici di ogni provenienza.

Per me era normale ma mi rendevo conto che per tanti non lo era. Un fidanzato senegalese sembrava essere svalutante. Amici stranieri, svalutante. Passare il tempo nel negozio di Julius, svalutante.

Quel “terrona” di quando ero bambina non mi aveva mai lasciato. Non mi avevano mai lasciata neppure la mia curiosità, i viaggi, la passione nel creare e intessere reti di persone. Più gente conoscevo, più la mia rete si espandeva e più si moltiplicavano le possibilità. E quel “Do me, do me” risuona fin’ora come la famosa madeleine di Proust.

Non è stato difficile il passaggio dal negozio di Juilus al trasferimento in Senegal. È stata quasi un’estensione naturale.

Nel frattempo, una laurea, un libro, una figlia.

Terrona!

A Dakar lo ero ancora una volta. Mi scoprivo nuovamente diversa e c’erano persone che avevano premura di farmelo notare.

Eppure con la forza, la tenacia di quella bimba delle elementari ho brandito la mia diversità facendone tesoro, fino a portarla in TV, alla TFM, la TV di Youssou’N’Dour, quello stesso cantante di cui canticchiavo il wolof della sua celebre canzone “7 seconds”, inventandolo, nella mia cameretta di un paesino della provincia padovana.

Con il passaggio in TV, in Senegal, il “terrona” si era trasformato infine in “Chiara”.

In Senegal, nella mia evidente diversità, avevo ritrovato quell’identità di cui probabilmente ero alla ricerca dagli anni delle elementari.

E il negozio di Julius si è trasformato in una palestra di Dakar, crocevia di mille mondi.

Nel frattempo, un dottorato, un blog, vari articoli, infinite trasmissioni, lezioni in alcune Università, un altro figlio.

Un ragazzo guineano, Alvine (IG: alvinediagne05), mi dice che potrei ballare. A più di quarant’anni? Penso. Mi rendo conto del mio limite, che nonostante io abbia avuto la fortuna ed il privilegio di poter viaggiare, l’unico confine che non avevo mai avuto il coraggio di attraversare era quello del mio corpo.

Quel ragazzo guineano riesce nella magia.

Scopro che anche lui è figlio di una coppia “mista”, la mamma guineana e il papà senegalese.

E anche lui, come me, si è ritrovato a vivere in Senegal, paese storicamente di accoglienza di comunità straniere prima che paese di emigrazione.

Le reti si allargano, le storie di moltiplicano, le possibilità dipendono da noi.

Terrona! Terroni!

Straniero! Stranieri!

In fondo lo siamo tutti, altrove. Ci avete mai pensato?

Storie, persone, umanità, possibilità, anche di un mondo migliore.

Dimenticavo, nel frattempo Julius è diventato un imprenditore affermato.

 

Racconti di un’altra emigrazione.

 

 



 

 

 

 
 
 

Il Senegal in radio. In Italia

Post n°348 pubblicato il 26 Aprile 2018 da djchi

 

"Il Senegal per me è come uno specchio. Nel Senegal mi sono rivista come persona, nel bene e nel male. Il Senegal ti impone di guadarti dentro, quindi anche di vedere le cose che in te non vanno. Siamo sempre abituati a criticare, a vedere il difetto nell'altro. A me ha insegnato proprio questo, imparare ad accettare la diversità perché è in Senegal che ho imparato che anche io posso essere diversa".

Da un mio contributo andato in onda il 25 aprile nella trasmissione "Il migliore dei mondi" su Nova Radio in una puntata dedicata proprio al #Senegal

Di seguito il Podcast

http://podcast.novaradio.info/2018/04/26/il-migliore-dei-mondi-25-aprile-2018/

 

Un altro mio intervento, sempre su Radio Nova nella trasmissione "Onde Migranti" in una puntata sempre dedicata al Senegal andata in onda il 23 aprile.

 

http://podcast.novaradio.info/2018/04/24/onde-migranti-23-aprile-2018/

 
 
 

Afrique Positive: quando i giovani senegalesi scommettono sull'afro-responsabilità

Post n°347 pubblicato il 11 Settembre 2017 da djchi
 

 

 

"Si chiama “Afrique Positive” un movimento di giovani attivisti senegalesi che ha come obiettivo principale la valorizzazione del territorio e la riuscita in loco. [...] Il nome stesso del movimento - Afrique Positive - intende sottolineare ciò che di positivo il continente africano ha da offrire, senza cadere nelle banalità dell’afro-entusiasmo o dell’afro-pessimismo. I giovani attivisti sono bensì afro-realisti: coscienti dei problemi e delle sfide che il continente vive, ma motivati nel divenire essi stessi motore di uno sviluppo che comincia innanzitutto con il rivoluzionare le mentalità e i punti di vista"

Di seguito il link all'articolo da me scritto per l'AICS sede di Dakar:

 

http://www.aics.gov.it/?p=15643

 

Sotto il video della rubrica Parmi Nous andata in onda il 23 agosto 2017 sulla TFM in cui è stato presentato il movimento Afrique Positive:

 

  

 

 

 

 

 

 

 

 
 
 

Da dieci anni non mangio pomodori. La storia di Mansour che ha tentato la traversata del Mediterraneo quattordici volte

Post n°346 pubblicato il 27 Febbraio 2017 da djchi
 

 

Non smetteremo di esplorare. E alla fine di tutto il nostro andare ritorneremo al punto di partenza per conoscerlo per la prima volta
(T. S. Eliot)

 

“Quattordici volte. Ho provato quattordici volte ad attraversare il Mediterraneo”.  Così racconta Mansour guardandomi dritto negli occhi. Pensavo di non aver capito bene, mi sembrava quasi impossibile che una persona potesse tentare un viaggio di quel tipo per così tante volte. “Hai capito bene invece, Chiara, quattordici volte”, mi precisa con un sorriso amaro.

Sono confusa, allibita, impressionata. “Ho visto e vissuto tutto: la fame, il freddo, la solitudine; gli spari della polizia, la prigione, la morte” continua Mansour.

“A farmi partire è stata una conoscente, amica di mia madre. Mi hanno scelto. Sì, mi hanno letteralmente scelto tra tutti i miei fratelli e credo che l’abbiano fatto sapendo che sono una persona sempre pronta ad aiutare. Eppure io non volevo partire. In Senegal lavoravo, ma il mio stipendio era poco più di 150 euro al mese. Avevo calcolato che mi sarebbero serviti poco più di mille euro per avviare una piccola attività. Ho provato a chiederli in prestino ma né amici, né parenti me li hanno voluti dare. Me ne hanno dati però molti di più per partire” racconta Mansour.

Lo osservo, è un giovane uomo, alto e imponente. È vestito bene e in lui tutta quell’italianità che ritrovo in tanti migranti senegalesi che ritornano in Senegal. La migrazione cambia, questo è certo. E, soprattutto, coscientizza le persone.

“Raccontami del viaggio” gli chiedo diretta.

“Sono partito con un visto turistico per la Turchia. Ad aspettarmi, un senegalese. Devi sapere Chiara che in questi tragitti, c’è sempre una persona che fa da tramite con gli scafisti e sono sempre connazionali. Se sei senegalese, troverai un senegalese; se sei gambiano, un gambiano e così via.

Dopo appena un giorno dal mio arrivo questo intermediario senegalese mi ha chiesto soldi. Avevo con me cinquecento euro ma mi ha detto che non bastavano. Ho chiamato allora in Senegal. Un parente ha venduto la macchina e in meno di due giorni mi hanno mandato i soldi.

Gli ho dato allora la somma e lui mi ha indicato l’ora e il luogo della partenza. Dovevamo attraversare il mare in direzione della Grecia.

Al tramonto io ed altri migranti siamo stati caricati in un camioncino. Il tragitto è stato breve, la polizia ci ha intercettato subito, alcuni sono riusciti a scappare a piedi attraverso i campi. Io ricordo solo che non avevo praticamente nulla con me, solo un piccolo borsello e qualche indumento. Ho corso pure io ma sono stato preso”.

“Come hai vissuto il carcere?” gli chiedo.

“Non posso raccontarti tutto, stai mangiando. Ti dico solo che le condizioni erano davvero difficili. Troppe persone in spazi angusti e un’unica uscita al giorno per andare in bagno. Uscivamo a gruppi di quattro, solo ed unicamente per pisciare” si ferma un attimo e mi guarda mangiare un panino con delle verdure. Ride “sai Chiara, da quel giorno io non ho più mangiato pomodori. Ogni giorno ci davano da mangiare una sola volta ed era sempre la stessa cosa: un piccolo panino e qualche pomodoro a parte”.

“Raccontami delle quattordici volte” incalzo.

“Una volta uscito dal carcere, sempre tramite lo stesso intermediario senegalese, ho tentato la traversata più volte. A guidare le imbarcazioni erano sempre migranti che venivano scelti tra quelli del gruppo, di preferenza chi aveva già avuto esperienza con la navigazione in mare e se non c’era, sceglievano a caso e gli spiegavano al momento in maniera grossolana alcuni rudimenti della navigazione, facevano salire tutti sulla barca e la facevano partire. Nessuno dei trafficanti voleva guidare l'imbarcazione per paura di essere preso. Ci hanno intercettato quasi sempre. Al quattordicesimo tentativo la barca si è fermata non lontano dalle coste greche. Non ci ho pensato un attimo, mi sono buttato, nonostante il freddo e nonostante la paura. Per fortuna sapevo nuotare”

“Hai mai avuto voglia di tornare?” gli chiedo.

“No. Mai. Dovevo arrivare in Europa. Ero stato scelto e non potevo fallire. Troppe persone dipendevano da me” risponde sicuro.

“E poi com’è andata?” chiedo curiosa.

“In Grecia mi sono appoggiato a reti di senegalesi, ci sono stato qualche tempo ma non mi piaceva. Sono riuscito poi a partire per l’Italia e lì, grazie alla mia statura e alla mia corpulenza ho trovato quasi subito un lavoro presso un’agenzia di sicurezza”. Mansour tace improvvisamente e quel suo sguardo forte e fiero cede improvvisamente. Abbassa gli occhi e mi dice: “Sai Chiara, io ho il dovere di parlare, di raccontare la mia storia. Le persone devono conoscere il vero volto della migrazione. Qui in Senegal pensano che io ce l’abbia fatta, vivo in Italia da anni, ho un lavoro e un buono stipendio. Ma se dico che non ho soldi nel mio conto in banca non mi credono. Quanti giovani sarebbero disposti ai sacrifici che ho fatto e che faccio quotidianamente? Ad alzarsi all’alba e a tornare la notte per un costo della vita elevato che ti permette davvero poco in termine di risparmio? I tempi in cui i senegalesi vivevano stipati in una stanza per non spendere sono finiti, oggi ognuno ha il suo appartamento e servono soldi. E poi, al di là del lato economico, quei duecento euro che mando ogni mese ai miei figli non colmeranno mai il vuoto delle mie assenze.

La migrazione mi ha insegnato tanto, se non fossi partito non avrei mai preso coscienza del valore che il mio paese ha e delle possibilità che realmente ci sono, ma mi ha tolto pure tanto. Mi ha tolto il sorriso, mi ha fatto perdere mia moglie, che stanca di aspettarmi ha chiesto il divorzio e mi ha tolto il tempo, quel tempo che nessuno mi ridarà mai più indietro e che avrei potuto passare con la mia famiglia.

I giovani devono saperlo” mi dice Mansour. Io ascolto. Le sue parole fanno riflettere pure me perché conosco quel dolore legato agli affetti, lontani.

“Adesso il mio solo obiettivo è il ritorno. Voglio tornare a casa e aprire quell’attività che già anni fa volevo avviare “ sospira Mansour e il suo sospiro è triste, quasi sarcastico.

"Poco più di mille euro. Mi sarebbero bastati, Chiara, e pensare che ne hanno sborsati molti di più per farmi partire".

 

                          

 

 

 
 
 

Imparare il distacco. Godere della temporaneità.

Post n°345 pubblicato il 28 Marzo 2016 da djchi

 

Se si costruisse la casa della felicità, la stanza più grande sarebbe la sala d’attesa
Jules Renard


Fonte: SUNU NATAAL Pagina Facebook

Privilegio.

Questo è il punto di partenza con cui leggere questo breve scritto. C'è chi ha il privilegio di viaggiare con grande facilità e chi no. 

Buona lettura.

Ho spesso l’impressione che questa sia una terra di passaggio, difficile mettere radici. I senegalesi, abituati a partenze improvvise e a ritorni a sorpresa, gestiscono probabilmente meglio le separazioni. Uno dei miei più cari amici, cresciuto nella periferia di Dakar, ha creduto talmente tanto che un giorno sarebbe partito che c’è riuscito davvero. Vive a Berlino, lavora nel mondo della notte e si è sposato con una bella ragazza dai capelli lunghi, biondi e gli occhi verdi. Hanno avuto pure una bimba e lui è per molti l’emblema della riuscita.

Poco tempo fa è tornato per un viaggio lampo a Dakar. Non lo ha detto a nessuno, altrimenti avrebbe dovuto gestire una lunga lista di parenti in visita e in attesa di una ricompensa (per la visita si intende), così invece no, sarebbe arrivato a casa all’improvviso e, altrettanto velocemente se ne sarebbe andato, il tempo di non doversi giustificare per il mancato incontro con il numeroso parentado.

Nonostante il poco tempo a disposizione è venuto a trovarmi portando un regalo per mio figlio. Sembravano passati decenni dall'ultimo nostro incontro eppure fino ad un paio d'anni fa ci vedevamo a Pikine. Nel vederlo, ho avuto anche io la certezza che il suo progetto migratorio fosse assolutamente riuscito. Lo vedevo felice.

Si occupa lui della moglie, mi racconta, perché così lei ha tempo di stare con la bambina di pochi mesi. Chi ci crederà qui che la "bianca" se ne sta a casa mentre lui la mantiene, pensavo io nel frattempo.

Partire e stabilirsi in Europa è ancora un obiettivo di molti ed è ancora così radicato che esperienze migratorie come la mia appaiono quasi bizzarre.

Perché mai decidere di venire in Senegal e di battersi per raggiungere quello che probabilmente in Europa sarebbe già un punto di partenza?

Nella mia mente scorro i nomi degli amici senegalesi incontrati in questi anni, quasi tutti partiti: Svizzera, Germania, Stati Uniti, Francia, Canada. Tutti o quasi venivano da situazioni di difficoltà economica e da quartieri popolari.
Oggi la loro vita fa capolino da profili Facebook riempiti di foto e di post di nuovi amici e di una nuova vita.
Visti da qui, ognuno sembra aver migliorato la propria esistenza, vero o meno che sia, questo è quello che appare. Qui restano quelli che vorrebbero e non possono; vorrebbero e non riescono.
Intanto molti occidentali sbarcano in Senegal alla ricerca di una nuova vita, in pochi organizzati, molti entusiasti, tanti non ancora consapevoli che saranno solo di passaggio.
Tra i senegalesi della diaspora molti cominciano a prospettare nuove opzioni, culturalmente rivoluzionarie, come decidere di stabilirsi per sempre all’estero.

Il ritorno in patria, un tempo meta fissa per la maggior parte dei migranti senegalesi, oggi non è più così certo. I viaggi che lo precedono, sempre più frequenti e sempre più brevi, mostrano non solo una certa e frequente accessibilità al paese natale ma anche che il dover rientrare per sempre è oggi una libera scelta della persona.

Non tutti i senegalesi della diaspora hanno voglia di investire in Senegal, soprattutto visto la grande lucidità che acquisiscono stando lontani per anni e la capacità di analisi delle difficoltà legate all’imprenditoria in loco. Un rischio che non tutti si sentono di prendere.

In molti hanno ormai una vita altrove, un lavoro, una famiglia. Le storie di doppie vite a cavallo tra due o più continenti è ormai storia di vecchie generazioni. I tempi cambiano e i pensieri si adeguano.

Il Senegal preso a piccole dosi sembra quasi la soluzione migliore. I modou modou hanno forse capito prima di noi, sicuramente più di noi, che essere capaci di prendere da ogni luogo il meglio e sapersi spostare da un luogo all’altro senza troppo attaccamento e sempre e solo per un buon motivo sono le chiavi della riuscita.

Vedo amici partire costantemente. Pensare di instaurare relazioni e pensarle sulla lunga durata (in termini di presenza fisica) è ormai un’utopia. Per una che ha tendenza ad attaccarsi alle persone è stato un percorso difficile ma importante. Il Senegal mi ha insegnato a staccarmi, a lasciar andare, anche a sostituire, laddove necessario e ad aspettare partenze, ritorni, passaggi, momenti. Delle persone ho imparato a godermi gli istanti, come i senegalesi riescono a fare anche e soprattutto dei luoghi e, devo dire, che come condizione non è poi così male.

 

Fonte: SUNU NATAAL Pagina Facebook

 
 
 
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